Principio di non retroattività della legge: incostituzionale l’intervento retroattivo del legislatore, se condiziona giudizi pendenti in cui è parte la P.A

Redazione Scientifica Processo amministrativo
20 Febbraio 2024

Ė incostituzionale l'intervento legislativo retroattivo che condiziona i giudizi pendenti se sia coinvolta nel processo una P.A., salvo imperative ragioni di interesse generale.

Il Consiglio di Stato sollevava,  in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 102, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 51, comma 3, della legge n. 388/2000 intervenuto, in via retroattiva, per escludere l'operatività  della maturazione delle anzianità di servizio ai fini delle maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità (RIA) dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993.

Innanzi tutto, la Corte rileva la portata innovativa, con efficacia retroattiva, della norma censurata, essendo priva dei caratteri della legge di interpretazione autentica, poiché, pur auto-qualificantesi interpretativa, conferisce uno nuovo significato alla norma interpretata, che non era ricavabile dal testo della legge. Ad avviso della Corte, la maggiorazione della RIA era stata disposta con d.P.R. n. 44/1990 (art. 9, commi 4 e 5), che recepiva un accordo sindacale del 26 settembre 1989, la cui efficacia stabilita al 31 dicembre 1990, era stata legislativamente prorogata al triennio 1991-1993 (art. 7, comma 1,  d.l. n. 384/1992, come convertito); di conseguenza sino all'entrata in vigore della disposizione censurata la RIA è stata riconosciuta ai dipendenti pubblici sulla base di anzianità di servizio maturate successivamente al 31 dicembre 1990.

Quindi, la Corte esclude la natura autenticamente interpretativa della disposizione censurata, stante l'assenza di qualsiasi dato testuale nella disposizione normativa di proroga, da cui possa ricavarsi la volontà del legislatore di impedire l'operatività della disciplina sulla RIA nel triennio 1991-1993, come avvenuto per gli automatismi stipendiali per il solo anno 1993 (art. 7, comma 3,  d.l. n. 384/1992; perciò, la norma impugnata ha attribuito retroattivamente alla disposizione originaria di proroga un nuovo significato, non rientrante tra quelli estraibili dal suo testo).

Poi, la Corte ha evidenziato la centralità del principio di non retroattività della legge, quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale (art. 25 Cost.), pure in altri settori dell'ordinamento, specie se l'intervento legislativo retroattivo incida su giudizi ancora in corso e se sia coinvolta un'amministrazione pubblica.

Al riguardo, la  Corte ha chiarito che, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, nel caso di disciplina legislativa retroattiva preordinata a condizionare l'esito di giudizi pendenti, assumono rilievo alcuni “elementi sintomatici” dell'uso distorto della funzione legislativa, relativi al metodo e alle tempistiche dell'intervento legislativo, quali il coinvolgimento nel processo di una amministrazione pubblica e il notevole lasso di tempo trascorso dall'entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica; nel caso di specie, infatti, la disposizione impugnata è entrata in vigore ben nove anni dopo la proroga legislativa mentre erano pendenti diversi giudizi promossi da dipendenti nei confronti di amministrazioni pubbliche.

Inoltre, ad avviso della Corte, un ulteriore sintomo che concorre a disvelare la volontà del legislatore di incidere retroattivamente sui rapporti in essere e di condizionare i giudizi in corso, è costituito, come nel caso di specie, dalla stessa erroneità della “auto-qualificazione” della disposizione censurata quale norma di interpretazione autentica. In tal senso, la Corte ritiene decisivo il fatto che, come emerge dalla documentazione degli uffici parlamentari e dalla relazione illustrativa, nel caso in esame, non risulta alcuna ulteriore ragione giustificatrice dell'intervento legislativo retroattivo, rispetto all'esigenza di superare un orientamento giurisprudenziale consolidato favorevole al riconoscimento delle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza e di evitare i conseguenti aggravi  di spesa.

Sul punto, la Corte chiarisce che, secondo la giurisprudenza condivisa della Corte EDU, nell'ottica di un rapporto di “integrazione reciproca”, solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un'interferenza del legislatore su giudizi in corso; i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni “siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile”.

Dunque, come affermato dalla Corte, tanto i principi costituzionali sui rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l'effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio: i soli motivi finanziari, per contenere la spesa pubblica o reperire risorse per esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo che si incida sui giudizi pendenti.

Pertanto, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 51, comma 3, legge 23 dicembre 2000, n. 388, per aver introdotto una norma innovativa ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi pendenti in cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, ponendosi in  contrasto con i principi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, nonché con i principi di eguaglianza, ragionevolezza e certezza dell'ordinamento giuridico di cui all'art. 3 Cost.

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