Il pagamento da parte di un solo coniuge del mutuo cointestato è irripetibile in caso di successiva separazione
20 Febbraio 2024
Massima In via generale ed astratta, può affermarsi che sono irripetibili tutte quelle attribuzioni che sono state eseguite per concorrere a realizzare un progetto di vita in comune. L'erogazione (eccessiva o non) si presume effettuata in ragione di un comune progetto di convivenza: diviene così irripetibile in quanto sorretta da una giusta causa. Sarà onere della parte che pretende di ottenere la restituzione della somma dimostrare l'eventuale causa diversa (ad esempio, un prestito) in ragione della quale l'operazione economica era stata attuata in costanza di rapporto coniugale o di convivenza. Il caso La vicenda posta all’esame del Tribunale di Treviso è un grande classico dell’intreccio tra dinamiche affettive ed inevitabili riflessi patrimoniali: i coniugi contraevano congiuntamente un mutuo per l’acquisto della casa familiare della quale divenivano proprietari in parti uguali; tuttavia, il mutuo veniva rimborsato da un solo coniuge (nel caso di specie il marito) che, a seguito della separazione consensuale, chiedeva alla moglie la restituzione del 50% di quanto nel frattempo versato alla banca, in quanto importo eccedente l’effettiva quota di debito. La moglie contestava la domanda attorea asserendo che i pagamenti effettuati dal marito fossero avvenuti in adempimento dell'obbligo di contribuzione familiare o che, tutt’al più, costituissero una donazione indiretta a suo favore. Il Tribunale di Treviso respingeva parzialmente la domanda attorea, in quanto – anche in considerazione della circostanza che le somme utilizzate dal marito provenivano da un conto corrente cointestato – riteneva che il pagamento in questione fosse stato effettuato quale adempimento dell'obbligo di contribuzione e solidarietà familiare; tuttavia, in parziale accoglimento della domanda, condannava la moglie a restituire al marito quanto da quest’ultimo versato a titolo di caparra alla società costruttrice (oltre le spese notarili), in quanto – una volta cessata la comunanza di vita fra i coniugi – sarebbe venuta meno la causa giustificativa della cointestazione immobiliare con conseguente necessità di indennizzare il marito per il sacrificio patrimoniale patito. La sentenza di primo grado veniva impugnata con appello principale dal marito e con appello incidentale dalla moglie: la Corte d’Appello di Venezia rigettava il primo ed accoglieva il secondo. Avverso la pronuncia di appello, allora, ricorreva in Cassazione il marito sulla base di undici motivi: non potendosi in questa sede analizzare nel dettaglio tutte le doglianze, chiaro è il file rouge che le univa costituito dall’erronea qualificazione dei pagamenti da questi effettuati, che – a detta del marito – si sarebbero dovuti ricondurre ai tradizionali schemi civilistici dei rapporti obbligatori e non all’adempimento dei doveri di matrice familiare; la moglie resisteva con controricorso chiedendo di dichiararsi l'inammissibilità e comunque l'infondatezza di tutti i motivi di ricorso. La questione La vertenza in commento pone fondamentalmente la seguente questione: in caso di cessazione del matrimonio che sorte hanno le attribuzioni patrimoniali effettuate (direttamente o indirettamente) da un coniuge all’altro? Devono intendersi irreversibilmente consolidate o c’è spazio per un’azione restitutoria da parte di colui che le ha effettuate? Le soluzioni giuridiche Prima di entrare nel merito del problema occorre effettuare una breve ricostruzione della nozione di dovere di contribuzione in ambito familiare. Come noto l'art. 143, comma 3, c.c. prevede che entrambi i coniugi siano tenuti – ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo – a contribuire ai bisogni della famiglia: si noti che analoga previsione è prevista anche dall'art. 1, comma 11, del l. 20 maggio 2016, n. 76 in tema di unioni civili; per quanto attiene, invece, ai conviventi more uxorio non esiste un espresso riconoscimento legislativo in tal senso, limitandosi l'art. 1, comma 36, del l. 20 maggio 2016, n. 76 a stabilire che i conviventi di fatto siano “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia” (sul punto, però, si veda Cass., Sez. I, 24 maggio 2022, n. 16727 per cui la comprovata instaurazione di una stabile convivenza fa sorgere “un impegno dal quale possono derivare contribuzione economiche”). La norma risponde ad un'intuibile esigenza di solidarietà (di rilevanza costituzionale per il principio di eguaglianza sostanziale sancita dall'art. 3 della Carta) che non può non caratterizzare la famiglia stante il progetto di vita che accomuna i suoi componenti: sul punto è evidente la rottura culturale con l'impianto codicistico antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 ove l'art. 144 c.c. imponeva l'obbligo per il marito di somministrare alla moglie “tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze” e, solo in caso di sua impossidenza di mezzi, che fosse la moglie a dover contribuire al mantenimento del marito (sulla portata, anche terminologica del novellato impianto, F. Ruscello, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, I, Milano, Giuffrè, 2011, 1058, per cui “la sostituzione non è soltanto linguistica, essendo sottesi ai due doveri funzioni e significati diversi: l'uno, il dovere di contribuzione, espressione di una comunità solidale, l'altro, il dovere di mantenimento, legato ad un'immagine patriarcale della famiglia”). In ottica sistemica si noti, poi, che il mancato assolvimento dell'obbligo in commento può assumere, innanzitutto, rilevanza in sede di addebito nella separazione giudiziale ai sensi dell'art. 151, comma 2, c.c. (si veda ad esempio Cass., sez. VI, 31 ottobre 2014, n. 23307 che ha addebitato la separazione al coniuge che, in violazione dell'obbligo di contribuzione di cui all'art. 143 c.c., aveva effettuato, un'ingente donazione in favore del fratello tale da arrecare un notevole depauperamento del patrimonio familiare); ma, altresì, rilevanza penale potendo integrare gli estremi del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all'art. 570 c.p. (si noti che il reato sussiste a prescindere dal fatto che soggetti terzi abbiano provveduto all'obbligo contributivo al posto del soggetto obbligato: App. Napoli, 5 febbraio 2020; App. Taranto, 6 novembre 2017; App. Palermo, Sez. IV, 18 marzo 2015; Trib. Taranto, 16 maggio 2012). A chiusura del ragionamento si ricordi, infine, che stante l'art. 160 c.c. ai coniugi è inibito derogare ai diritti ed ai doveri nascenti per legge in conseguenza del matrimonio e, quindi, anche a quello di contribuzione. La norma in questione è evidentemente generica e, del resto, non poteva essere diversamente dato che è difficilmente ipotizzabile ex ante quali possano essere gli aspetti quantitativi e qualitativi conformanti un obbligo di contribuzione alla vita familiare (chiaro in tal senso A. Falzea, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, 626, per cui “quanto maggiore è la capacità contributiva dei componenti della famiglia tanto più elevato può essere il tenore della vita familiare e tanto maggiori conseguenza i bisogni della famiglia; e, reciprocamente, quanto maggiori sono i bisogni della famiglia tanto più elevata è la misura della contribuzione dei suoi componenti”). Occorre, inoltre, che l'assolvimento sia stabile nel tempo non essendo legittima la prassi di contribuzioni una tantum (App. Catanzaro, 12 marzo 2009); peraltro, il bisogno della famiglia non può essere limitato al soddisfacimento delle sole esigenze primarie di sopravvivenza del gruppo, ma deve essere interpretato in modo più ampio ben potendo comprenderne anche altre nella logica della solidarietà familiare (Cass., Sez. I, 17 settembre 2004, n. 18749). L'elasticità intrinseca del bisogno familiare è indirettamente confermata dal fatto che l'assegno di separazione deve essere parametrato non al tenore di vita di fatto consentito dall'altro coniuge, bensì da quello che questi avrebbe dovuto consentire ragionevolmente in base alle sue sostanze (Cass., sez. I, 18 agosto 1994, n. 7437; App. Bologna, 27 febbraio 2009; Trib. Aosta, 4 marzo 2010). In questa visione, deve razionalmente reputarsi che l'assolvimento dell'obbligo non sia soggetto a modalità prestabilite, ma che – invece – debba e possa estrinsecarsi in modo eterogeneo: ad esempio mettendo a disposizione della famiglia un alloggio anche acquistato prima del matrimonio; concorrendo alle spese di miglioria di un alloggio di proprietà dell'altro coniuge; sostenendo le spese per l'accudimento dei figli per il caso in cui uno o entrambi i genitori siano impossibilitati ecc. In ordine alla configurazione del citato obbligo l'art. 143, comma 3, c.c. detta due parametri di correlazione: uno alle sostanze dei coniugi e l'altro alla loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Per quanto attiene al primo, il riferimento generico alle “sostanze” deve essere interpretato in senso ampio ivi comprendendosi non solo il reddito da lavoro dipendente o autonomo, ma anche tutti i cespiti dei coniugi in generale, a prescindere dalla loro idoneità a generare reddito (si pensi all'esempio sopra riportato del coniuge che mette a disposizione della famiglia una propria abitazione, così evitando la spesa per un altro acquisto). Per quanto attiene al secondo, è chiara la parificazione dell'attività volta a produrre direttamente utilità economica con quella che, invece, accresce il patrimonio della famiglia in via indiretta (si pensi all'esempio sopra riportato del coniuge che si occupa delle esigenze domestiche così da consentire all'altro di potersi dedicare alla propria attività lavorativa). Occorre, però, sottolineare come l'obbligo contributivo non sia concettualmente illimitato dato che – una volta assolto – il coniuge può liberamente disporre del proprio patrimonio (Cass., sez. III, 3 febbraio 1995, n. 1321). Se questa è la cornice di riferimento, ora occorre stabilire come la disgregazione del nucleo familiare (scaturente dalla separazione coniugale) possa incidere sulle prestazioni effettuate in costanza di matrimonio per far fronte all'obbligo di legale di contribuzione. Posta in questi termini la questione, a parere di chi scrive, lascia ben poche speranze a pretese restitutorie: come potrebbe, infatti, mai ipotizzarsi che l'adempimento di un'obbligazione possa essere suscettibile di ripetizione per effetto della cessazione successiva del suo titolo fondativo? Non a caso, la giurisprudenza non ha dubbi: le spese effettuate per i bisogni della famiglia e riconducibili alla logica della solidarietà coniugale non sono passibili di ripetizione (come petizione del principio, si vedano: Cass., Sez. I, 17 ottobre 2023, n. 28772; Trib. Torino, 3 maggio 2021; App. Milano, 8 marzo 2016). Per quanto attiene ad una casistica più dettagliata, è stata esclusa – a seguito della separazione coniugale – la ripetizione: a) delle somme utilizzate per il pagamento delle utenze della casa coniugale (Cass., Sez. VI, 7 maggio 2018, n. 10927); b) delle somme consegnate al coniuge e da questi utilizzate nella miglioria della casa coniugale di proprietà esclusiva di quest'ultimo (Cass., Sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866; App. Lecce, 4 luglio 2016); c) delle somme investite nel rimborsare il mutuo per l'acquisto della casa familiare e dei relativi arredi della casa coniugale di proprietà dell'altro coniuge (Trib. Bolzano, 14 novembre 2019); d) delle somme utilizzate per la costruzione della casa coniugale sul suolo dell'altro coniuge e da questi acquistata per accessione (Trib. Cagliari, 8 febbraio 2012); e) delle somme investite nell'acquisto della casa familiare di proprietà dell'altro coniuge (Trib. Cagliari, 13 maggio 1999). Il quadro giurisprudenziale è, quindi, monolitico nell'escludere un “ripensamento” del coniuge: gli apporti patrimoniali effettuati in costanza di matrimonio hanno esaurito la loro funzione in seno all'obbligo contributivo di cui all'art. 143, comma 3, c.c. di modo che non ne è consentita ripetizione di sorta; non solo, in mancanza di prova contraria deve presumersi che la consegna sia stata effettuata in adempimento dell'obbligo di contribuzione. Unica possibilità per il coniuge – allora – è quella di dimostrare, incombendo sul medesimo l'onere probatorio, che la dazione di denaro per la quale si invoca la restituzione fosse da qualificare come prestito (Cass., Sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866; Trib. Cagliari, 8 febbraio 2012; si veda, però, anche Trib. Bolzano, 14 novembre 2019, che reputa presupposto dell'irreperibilità anche la proporzionalità dell'investimento rispetto al tenore di vita familiare). Osservazioni La sentenza in commento, in inevitabile continuità con i principi sopra esposti, ribadisce alcuni concetti e precisamente: 1) che la quantità e la qualità dell'obbligo contributivo, non essendo stabiliti dalla legge, impongano una valutazione da effettuarsi caso per caso in relazione allo specifico progetto di vita; 2) che le attribuzioni patrimoniali effettuate per concorrere alla realizzazione di detto progetto siano necessariamente irripetibili e che, a prescindere dal loro importo, si presume che il coniuge le abbia eseguite proprio per tale finalità; 3) che sia onere di chi chiede la restituzione dimostrare il differente rapporto causale che ha sorretto l'attribuzione patrimoniale (ad esempio che si trattasse di un prestito). Trattasi di affermazioni, a parere di chi scrive, difficilmente confutabili: i casi nei quali l'adempimento di qualsivoglia obbligazione può essere suscettibile di ripetizione sono stabiliti dalla legge (si pensi all'art. 1192 c.c. in tema di pagamento eseguito con cose altrui o all'art. 2034 c.c. in tema di obbligazioni naturale adempiuta dall'incapace) e, chiaramente, mai vi è traccia dell'evento successivo della separazione coniugale. Efficacissimo è quanto incidentalmente affermato da Cass., sez. I, 21 ottobre 2019, n. 26777 per cui “nel contenzioso postconiugale i coniugi separati o separandi non possono rimettere in discussione tutte le voci di spesa di cui ciascuno si è fatto carico nel periodo di convivenza matrimoniale”. Gli Ermellini, in più, chiudono ogni eventuale reviviscenza della questione asserendo che sia irrilevante l'ammontare della prestazione (“eccessiva o non”), dato che tale elemento non può incidere sulla sua causa che è e resta familiare: ogni pretesa restitutoria, allora, potrebbe essere sorretta esclusivamente dalla riqualificazione del versamento di denaro in una fattispecie legittimante la ripetizione di quanto versato (leggasi: in un prestito), il cui onere probatorio compete al richiedente. Sulla scorta di quanto sopra la Corte di Cassazione – reputando che dalla sentenza d'appello non si potesse evincere il percorso logico giuridico posto alla base della decisione – ha accolto due motivi degli undici oggetto di ricorso: il quarto (con il quale era stata denunciata la violazione dell'art. 132, comma 2 n. 4, c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale – in particolare – aveva affermato, senza fondamento sulla base delle risultanze acquisite, che il marito avrebbe onorato il mutuo in adempimento dell'obbligo di contribuzione familiare) e l'ottavo (con il quale era stata denunciata la violazione dell'art. 132, comma 2 n. 4, c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale – in particolare – non aveva valutato le prove offerte dal marito in ordine al versamento degli acconti a favore della società venditrice); per l'effetto ha cassato la sentenza impugnata, rinviandola a diversa sezione della Corte di Appello di Venezia. |