Ferie non godute nel pubblico impiego: la “monetizzazione” negata al lavoratore dimissionario per contenere la spesa pubblica viola il diritto UE

21 Febbraio 2024

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si esprime sulla compatibilità al diritto eurounitario dell'art. 5 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, con con mod., dalla l. n. 135/2012 nella parte in cui regola la fruizione delle ferie spettanti al personale delle amministrazioni pubbliche e la corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La Corte conclude che la previsione di un divieto generalizzato di versamento al lavoratore di indennità sostitutive delle ferie non godute non è ammissibile, salvo che il mancato godimento del periodo feriale non derivi da una scelta deliberata del prestatore di lavoro.

Massima

L'articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, e l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell'ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà.

Il caso

La sorte delle ferie non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro

La vicenda alla base della pronunzia in commento riguarda un impiegato con funzioni di Istruttore direttivo di un Comune italiano. Dopo un servizio ultraventennale, nel 2016 il lavoratore rassegnava volontariamente le proprie dimissioni per accedere al pensionamento anticipato.

Al momento della cessazione del rapporto di lavoro l'ex dipendente disponeva di numerosi giorni di ferie non godute, per la precisione maturati nel periodo 2013-2016. Egli agiva pertanto in giudizio per ottenere il pagamento dell'indennità sostitutiva spettante per i periodi feriali non fruiti.

L'amministrazione pubblica resisteva richiamando il contenuto dell'art. 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012 e deducendo che il lavoratore era a conoscenza dell'obbligo, derivante da tale disposizione, di fruire dei giorni di ferie maturati prima della conclusione del rapporto di lavoro. La dimostrazione di detta consapevolezza giungeva dalla circostanza che il lavoratore, nello stesso anno 2016, aveva fruito di alcuni giorni di ferie.

La questione

Il diritto all'indennità sostitutiva per le ferie non godute nel rapporto di lavoro pubblico

Il Tribunale in funzione di Giudice del lavoro sospende il procedimento e sottopone alla Corte di Giustizia UE questioni pregiudiziali in merito alla compatibilità dell'art. 5, comma 8, del D.L. n°95 del 2012 con l'art. 7 della Direttiva 2003/88 e con l'art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'UE.

Nel provvedimento di rinvio il Giudice nazionale espone che i giorni di ferie non goduti alla base della pretesa del lavoratore corrispondevano a giorni di ferie annuali retribuite previsti dalla direttiva 2003/88: una parte di essi erano dovuti per l'anno 2016 e la restante parte erano dovuti per gli anni precedenti. Si rileva altresì che le ferie fruite nel 2016 oggetto dell'eccezione di parte resistente erano corrispondenti a giorni maturati per anni precedenti. Secondo il Giudice del rinvio, la condotta del lavoratore non concretizzerebbe alcuna ipotesi di comportamento abusivo nel senso precisato dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 6/11/2018 nella causa C-684/16.

L'ordinanza di rinvio si sofferma poi sulla lettera dell'art. 5 del D.L. n. 95 del 2012, norma che tra l'altro esclude la monetizzazione per le ferie retribuite non godute dai dipendenti pubblici. Tale divieto cozzerebbe con il diritto eurounitario ed in specie con l'art. 7, comma 2, della direttiva 2003/88 (secondo cui “il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”) e con l'art. 31, par. 2 della Carta dei diritti fondamentali, ove si afferma il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite.

La Corte Costituzionale italiana, con la sentenza n. 95 del 2016, aveva già sanzionato la conformità alla Costituzione ed al diritto dell'UE dell'art. 5 in esame, valorizzando le esigenze di contenimento della spesa pubblica ed i vincoli organizzativi per il datore di lavoro pubblico, onde affermare che tale normativa mirava a reprimere il ricorso incontrollato alla "monetizzazione" delle ferie non godute, nonché a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie.

Per il Giudice del rinvio, però, le argomentazioni alla base della decisione della Consulta – che aveva peraltro escluso la legittimità del divieto di monetizzazione qualora le ferie non fossero state godute per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore, come la malattia, ma non in caso di dimissioni volontarie – non si attaglierebbero al caso di specie. Inoltre, un ulteriore elemento nel senso dell'incompatibilità dell'art. 5 con il diritto dell'Unione perverrebbe dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 25/11/2021 in causa C-233/20, che avrebbe considerato le esigenze di contenimento della spesa pubblica (esplicitamente poste a fondamento del D.L. n. 95/2012) non tali da poter giustificare limiti alla sostituzione delle ferie con un'indennità finanziaria in occasione della cessazione del rapporto di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

Le condizioni che rendono praticabile la monetizzazione delle ferie ed i casi in cui è possibile la perdita del diritto

La pronunzia in commento valuta positivamente la ricevibilità delle questioni pregiudiziali, superando le eccezioni sul punto che erano state avanzate dalla difesa della Repubblica Italiana.

La Corte di Giustizia puntualizza che non hanno rilevanza, sul profilo della ricevibilità, le circostanze per cui il Giudice nazionale non sia tenuto a rivolgersi alla Corte o per cui la risposta alla domanda pregiudiziale sia asseritamente evidente alla luce del diritto dell'Unione.

La sentenza ricorda che spetta esclusivamente al giudice nazionale valutare, tenendo conto delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte di Giustizia. Certamente la Corte di Lussemburgo può rigettare la richiesta di pronunzia del Giudice del rinvio ma in presenza di presupposti ben diversi da quelli richiamati dallo Stato Italiano. Per la precisione, il diniego è possibile solo qualora appaia in modo manifesto che l'interpretazione del diritto dell'Unione richiesta non ha alcuna relazione con la realtà effettiva o con l'oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una risposta utile alle questioni che le vengono sottoposte.

Nel caso di specie, l'ordinanza di rinvio non presenta le criticità appena elencate e ciò induce la Corte di Giustizia a concludere nel senso della ricevibilità delle questioni.

Scendendo all'esame del merito, la pronunzia inquadra la questione sottopostale nei termini della legittimità dell'interpretazione dell'art. 7 della direttiva 2003/88 e dell'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali nel senso di escludere la conformità al diritto eurounitario della “normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell'ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà”.

Tanto posto, la Corte di Giustizia rammenta l'importanza, nell'ordinamento dell'Unione, del diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite: tale diritto non è derogabile e l'attuazione del medesimo da parte delle competenti autorità nazionali deve osservare quanto stabilito nella direttiva 2003/88. In particolare, l'art. 7, comma 1 della direttiva vincola gli Stati membri a prendere “le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali”. La norma appena citata si pone in stretta correlazione con l'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali che, come si è già visto, riconosce il diritto di ogni prestatore di lavoro alle ferie annuali retribuite.

La stessa normativa eurounitaria afferma che è compito degli Stati membri definire le condizioni di esercizio e di attuazione del diritto in parola, andando a regolare, dunque, anche le modalità concrete con cui è possibile avvalersi del diritto alle ferie. Tuttavia, gli Stati membri non possono sottoporre a condizione la venuta ad esistenza del diritto, in quanto lo stesso scaturisce direttamente dalla direttiva.

La sentenza si concentra poi sui profili tipici del diritto alle ferie che più interessano nel caso di specie, ossia il diritto a ottenere un pagamento (come disvelato dall'impiego della locuzione ferie “retribuite”) e, conseguentemente, il diritto a una indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro. E' proprio su questa componente del diritto alle ferie che si sofferma il comma 2 dell'art. 7 della direttiva 2003/88, che in linea di principio esclude la possibilità di sostituire il godimento delle ferie annuali retribuite con l'erogazione di un'indennità finanziaria, ma fa salva proprio l'ipotesi della fine del rapporto di lavoro. La ragione dell'eccezione è facilmente spiegabile se solo si pone mente al fatto che la conclusione del rapporto laburistico rende impossibile la fruizione effettiva delle ferie e si rende dunque necessario prevedere la possibilità di godere del diritto alle ferie nella forma alternativa del percepimento di una indennità sostitutiva pecuniaria.

Soffermandosi quindi sul comma da ultimo richiamato, la Corte di Lussemburgo nota che detta disposizione fa discendere il diritto al percepimento dell'indennità sostitutiva solamente dall'avvenuta cessazione del rapporto di lavoro e dal mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto al momento in cui il rapporto è terminato. Il diritto, in quanto nascente dalla direttiva, non può essere sottoposto ad altre e/o ulteriori condizioni; pertanto, può dirsi irrilevante il motivo che ha originato la cessazione del rapporto di lavoro: dunque la circostanza per cui sia stato il prestatore di lavoro a porre fine, di propria iniziativa, al rapporto (come avvenuto nel caso al vaglio del Giudice del rinvio) non ha alcuna incidenza sulla venuta ad esistenza del diritto in esame.

Richiamandosi a plurime decisioni della stessa Corte di Giustizia ed in particolare alla sentenza 6 novembre 2018 nella causa C-684/19, i Giudici europei concludono la panoramica sull'art. 7 riaffermando che scopo della norma è garantire che il lavoratore possa beneficiare di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute. La possibilità di sostituire la fruizione delle ferie con l'erogazione di una indennità è ammessa solo nel particolare contesto della cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto l'art. 7 “e osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in condizione di fruire di tutte le ferie annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l'intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto”.

In conclusione, l'art. 7 della direttiva 2003/88 non osta ad una normativa nazionale sulle modalità di esercizio del diritto alle ferie che comprenda anche la perdita del diritto in questione alla scadenza del periodo di riferimento, purché il lavoratore che perde il diritto alle ferie abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto.

La sentenza torna quindi a concentrarsi sul caso alla base dell'ordinanza di rinvio del Giudice italiano. Nel caso di specie il lavoratore aveva maturato giorni di ferie in diversi periodi di riferimento, intercorsi tra il 2013 ed il 2016 e cumulatisi tra loro, ma non aveva avuto modo di godere di tutte le ferie accumulate prima che il rapporto di lavoro cessasse. In forza dell'art. 5 comma 8, del D.L. n°95 del 2012, il prestatore di lavoro si trovava nell'impossibilità di percepire l'indennità sostitutiva dei giorni di ferie maturati e non goduti per il solo motivo di aver posto volontariamente fine al rapporto di lavoro con il pensionamento anticipato, circostanza che avrebbe potuto prevedere in anticipo.

Viene poi considerata l'interpretazione dell'art. 5 fatta propria dalla Corte Costituzionale italiana, secondo cui la disposizione allo studio ha lo scopo di scoraggiare il ricorso alla monetizzazione delle ferie non godute e, mediatamente, di contenere la spesa pubblica e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie rispetto al versamento dell'indennità sostitutiva.

La Corte di Giustizia mostra di apprezzare la finalità da ultimo richiamata, in quanto decisamente in linea con la ratio legis propria dell'art. 7 della direttiva 2003/88 che, come si è visto, è teso a privilegiare il godimento, da parte del lavoratore, di un periodo di riposo effettivo, utile alla tutela della salute e della sicurezza del medesimo, consentendo la sostituzione delle ferie con indennità pecuniarie solo nella fase peculiare della conclusione del rapporto.

Dopo aver notato che la direttiva 2003/88 “non può, in linea di principio, vietare una disposizione nazionale ai sensi della quale, al termine di tale periodo, i giorni di ferie annuali retribuite non goduti non potranno più essere sostituiti da un'indennità finanziaria, neppure in caso di successiva cessazione del rapporto di lavoro, allorché il lavoratore ha avuto la possibilità di esercitare il diritto che detta direttiva gli attribuisce”, la sentenza sottolinea anche che il motivo posto alla base della fine del rapporto di lavoro non ha rilevanza ai fini dell'erogazione dell'indennità di cui all'art. 7, comma 2.

L'art. 5 del d.l. n. 95/2012, anche nell'interpretazione fornita dalla Consulta, appare invece introdurre una ulteriore condizione per l'erogazione dell'indennità in parola, dal momento che la disposizione nazionale finisce per vietare che l'indennità sia concessa qualora il rapporto si concluda per scelta volontaria del lavoratore. Il divieto in parola riguarda, in particolare, l'ultimo anno di impiego nonché il periodo di riferimento nel corso del quale è intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro; così disponendo, viene ad esistenza un limite alla percezione dell'indennità sostitutiva e, quindi, un limite incidente su uno degli aspetti del diritto alle ferie annuali retribuite.

La Corte ricorda che la restrizione del diritto alle ferie, quale posizione giuridica riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE, è astrattamente possibile nel rispetto dei limiti posti dall'art. 52 della ridetta Carta. Tale norma chiarisce che le restrizioni in parola devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Ancora, nel rispetto del principio di proporzionalità, le limitazioni dei diritti riconosciuti dalla Carta possono dirsi ammissibili solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.

Ciò porta la sentenza allo studio a riconsiderare gli obiettivi perseguiti dal Legislatore nazionale con l'adozione dell'art. 5 del D.L. n°95 del 2012.

Il fine di contenimento della spesa pubblica non viene considerato utile a sostenere la compatibilità dell'art. 5 con il diritto dell'UE. A ciò osta il considerando 4 della direttiva 2003/88, secondo cui il miglioramento della sicurezza, dell'igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico.

Una conclusione diversa va invece raggiunta a proposito del fine di tutela delle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, che comprende altresì la programmazione razionale dei periodi di ferie e l'incentivazione di comportamenti virtuosi. La Corte di Giustizia, infatti, vede in ciò anche lo sprone al godimento effettivo delle ferie, un obiettivo senza dubbio rispettoso delle finalità della direttiva 2003/88 in quanto rivolto ad un reale godimento dei periodi di riposo.

La Corte di Lussemburgo torna poi sui principi esposti dalla sentenza 6 novembre 2018 nella causa C-684/16. Con tale importante precedente si era affermato che il diritto alle ferie annuali retribuite “non può estinguersi alla fine del periodo di riferimento e/o del periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, quando il lavoratore non è stato in condizione di beneficiare delle sue ferie” (né, evidentemente, gli Stati possono derogare a tale principio); diverso è però il caso in cui il lavoratore “deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse”.

In quest'ultima eventualità, come ancora puntualizzato dalla sentenza 6 novembre 2018 nella causa C-684/16, l'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali non osta alla perdita del diritto alle ferie né alla mancata erogazione dell'indennità pecuniaria sostitutiva per il caso di cessazione del rapporto di lavoro; sotto altro profilo, nelle ridette circostanze il datore di lavoro non può ritenersi tenuto ad imporre al proprio dipendente di esercitare in modo effettivo il diritto alle ferie.

Ad ulteriore esplicazione dei principi giurisprudenziali richiamati, la decisione in commento precisa che il datore di lavoro è tenuto ad assicurarsi – in concreto e secondo trasparenza – che il proprio dipendente sia posto realmente in condizione di fruire delle ferie, dunque assentandosi dal lavoro, e deve se del caso invitarlo a fare ciò, anche formalmente e informandolo – ancora una volta in modo completo ed in tempo utile – che la mancata fruizione delle ferie può comportare che le stesse vadano perse al termine del periodo di riferimento o di riporto o che non sia più possibile sostituire le medesime con l'erogazione di una indennità pecuniaria sostitutiva.

Spetta alla parte datoriale dare prova di avere adempiuto ai doveri informativi appena descritti. Pertanto, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria per porre il lavoratore nella condizione di poter effettivamente fruire delle ferie (un profilo, questo, che deve essere indagato dal Giudice del rinvio), si deve ritenere che “l'estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o del periodo di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un'indennità finanziaria per le ferie annuali non godute violino, rispettivamente, l'articolo 7, paragrafo 1, e l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 nonché l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta”.

Dopo aver rilevato che il provvedimento di rinvio lasciava intendere che il divieto di versare un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite non goduti si riferisse a quelli maturati durante l'ultimo anno di impiego in corso, la Corte di Giustizia riscontra le questioni pregiudiziali poste dal Giudice italiano nei seguenti termini: “l'articolo 7 della direttiva 2003/88 e l'articolo 31, paragrafo 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell'ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà”.

Osservazioni

La costituzione del diritto alle ferie non può sottostare a condizioni; la necessità di garantire al lavoratore la possibilità di fruire delle ferie

Tanto le fonti nazionali quanto le fonti eurounitarie riconoscono una somma importanza al diritto del lavoratore a godere di ferie annuali retribuite.

La Carta dei diritti fondamentali dell'UE prevede, all'art. 31, che ogni lavoratore ha (tra l'altro) diritto a ferie annuali retribuite e tale posizione giuridica trova esplicazione nella direttiva 2003/88 del Parlamento e del Consiglio sull'organizzazione dell'orario di lavoro. Il considerando 5 della direttiva ribadisce infatti che tutti i lavoratori dovrebbero avere periodi di riposo adeguati e che dunque i prestatori di lavoro “devono beneficiare di periodi minimi di riposo giornaliero, settimanale e annuale”. L'art. 7, al comma 1, vincola gli Stati membri a prendere le misure necessarie affinché i lavoratori godano di ferie annuali retribuite, quantificando in quattro settimane per anno la misura minima del riposo feriale.

Sul piano nazionale, il diritto del lavoratore a godere di ferie annuali retribuite trova il più elevato riconoscimento nell'art. 36, comma 3, Cost., fonte che puntualizza inoltre il carattere irrinunziabile di tale posizione giuridica.

La funzione delle ferie, stando alla consolidata elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, va individuata nella messa a disposizione del prestatore di lavoro di un congruo periodo di tempo durante il quale recuperare le energie psicofisiche spese nell'adempimento della prestazione tipica e soddisfare le esigenze ricreative meritevoli di appagamento, onde garantire una salutare alternanza tra momenti dedicati al lavoro ed altri dedicati allo svago ed ancora una volta assicurare al dipendente un complessivo status di benessere fisico. Si veda, ad esempio, la sentenza della Corte di Giustizia 25 novembre 2021 nella causa C-233/20 (più volte richiamata anche dalla pronunzia in commento) dove si legge che “il diritto alle ferie annuali retribuite, conferito a tutti i lavoratori dall'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, ha la finalità di consentire al lavoratore o alla lavoratrice, da un lato, di riposarsi rispetto all'esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall'altro, di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione. Tale finalità, che distingue il diritto alle ferie annuali retribuite da altri tipi di congedo aventi scopi differenti, si fonda sulla premessa che il lavoratore o la lavoratrice abbia effettivamente lavorato durante il periodo di riferimento”.

Dalle considerazioni appena espresse ne discende il favor espresso esplicitamente dal legislatore europeo verso un godimento effettivo delle ferie, da esplicitarsi, cioè, attraverso la reale astensione dal lavoro. In tal senso va letto il divieto di cui all'art. 7, comma 2, della direttiva 2003/88, per cui il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.

La pronunzia in esame mostra di tenere in gran conto le importanti implicazioni sociali proprie del diritto alle ferie retribuite e coerentemente si pone nel solco di un orientamento della Corte di Giustizia alquanto consolidato e teso a riaffermare la sostanziale indisponibilità (tenute in disparte alcune eccezioni strettamente codificate) di questa posizione giuridica. Infatti, è ricorrente l'affermazione per cui “il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell'Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88” (così la sentenza 12/6/2014 in causa C-118/13). In altre occasioni, la Corte di Lussemburgo ha anche chiarito che il diritto in parola non può essere interpretato in senso restrittivo (sentenza 8/9/2020 in causa C-119/19 e C-126/19) e pertanto, seppure sia compito degli Stati membri definire le condizioni di esercizio e di attuazione del diritto in discussione, essi devono, però, astenersi dal subordinare a qualsiasi condizione la costituzione stessa di tale diritto, il quale scaturisce direttamente dalla suddetta direttiva (sentenza 25/6/2020 in causa C-762/18 e C-37/19).

Come rivelato dall'attributo “retribuite” accordato alle ferie dal legislatore eurounitario (nonché da quello nazionale), la posizione giuridica riconosciuta al prestatore di lavoro contiene, oltre al diritto di astenersi dalla prestazione lavorativa, il diritto ad ottenere un pagamento nel corso del periodo feriale. Inoltre, l'attributo testé richiamato viene valorizzato dalla Corte di Giustizia per mettere in luce come il diritto di cui all'art. 7 della direttiva 2003/88 (e dell'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali) contenga altresì il diritto a un'indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Nel contesto della fine del rapporto, infatti, la fruizione effettiva delle ferie non è più praticabile, sì che si apre la possibilità di beneficiare delle stesse in modo alternativo, per mezzo di una erogazione di denaro.

Proprio perché il diritto ad ottenere, a determinate condizioni, il percepimento di un'indennità sostitutiva discende dal diritto alle ferie (e ne costituisce una sorta di corollario) la Corte di Giustizia si mostra anche qui molto rigorosa nel determinare la latitudine di tale posizione giuridica, escludendo in linea di principio che l'erogazione in parola possa essere variamente condizionata. Ancora una volta, pertanto, si può affermare che la sentenza in commento si muove entro un'esegesi già consolidata. Giurisprudenza costante afferma che l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 non assoggetta il diritto a un'indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall'altro, al mancato godimento da parte del lavoratore o della lavoratrice di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto alla data in cui detto rapporto è cessato (così le sentenze 6/11/2018 in cause C‑569/16 e C‑570/16). Di conseguenza può dirsi largamente affermata la conclusione per cui il motivo della cessazione del rapporto di lavoro non è rilevante ai fini del diritto all'indennità finanziaria previsto dall'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88: un rilievo che, oltre a tornare nella pronunzia allo studio, già era stato fatto proprio dalla sentenza 20/7/2016 in causa C-341/15.

La sentenza da ultimo richiamata costituisce in effetti un precedente molto importante della decisione in commento, poiché già in quella occasione la Corte di Giustizia aveva chiarito che la circostanza per cui un lavoratore ponga fine, di propria iniziativa, al rapporto di lavoro non ha alcuna incidenza sul suo diritto a percepire un'indennità finanziaria per i diritti alle ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro.

Sulla stessa linea, è stato affermato che il diritto all'indennità sostitutiva non può essere negato quando il lavoratore non abbia potuto fruire delle ferie in quanto malato (sentenza 20/1/2009 in causa C-350/06 e C-520/06); di più, il diritto in parola non può estinguersi a causa del decesso del prestatore di lavoro (sentenza 12/6/2014 in causa C-118/13).

In effetti, gli attributi fondamentali del diritto alle ferie annuali retribuite, per come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo appaiono essere da una parte la non assoggettabilità a condizioni di sorta (profilo già considerato sopra) e, dall'altra parte, la possibilità che lo stesso si estingua, ma solo a seguito di una cosciente decisione del lavoratore, cui deve comunque essere stata riconosciuta la possibilità di fruire del periodo di riposo. In tal senso pare si debba leggere l'affermazione della sentenza in commento per cui l'art. 7 della direttiva 2003/88 non osta a normative nazionali che contemplino finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto; si tratta di un rilievo già espresso dalle sentenze 20/1/2009 in cause C-350/06 e C-520/06.

Questi attributi assumono un rilievo determinante nel guidare la Corte di Giustizia alla conclusione per cui l'art. 5 del D.L. n°95/2012 non può considerarsi conforme al diritto eurounitario, se non qualora emerga che la scelta del lavoratore di non avere goduto delle ferie nel corso del rapporto di lavoro sia stata consapevole, non dovuta a “ragioni indipendenti dalla sua volontà” per usare la locuzione che chiude la decisione in esame. I Giudici di Lussemburgo, infatti, esprimono chiaramente di non ritenere rilevante, ai fini del decidere, la circostanza per cui la normativa nazionale italiana si prefigge di contenere la spesa pubblica mentre valorizzano l'altra ratio legis, quella relativa alla riaffermazione della preminenza del godimento effettivo delle ferie allo scopo di sviluppare l'argomentazione appena richiamata: ossia il rilievo per cui la perdita del diritto alle ferie annuali retribuite (o al suo equivalente economico) può concretizzarsi solamente dopo che il prestatore di lavoro abbia avuto la concreta possibilità di esercitare detta posizione giuridica.

Resta così confermato l'impianto logico già alla base della sentenza 6 novembre 2018 in causa C-684/16, non a caso più volte richiamato dalla pronunzia allo studio. Nella decisione del 2018, era risultato decisivo il rilievo per cui la normativa tedesca portata al vaglio della Corte di Giustizia era interpretata nel senso che il fatto per cui un lavoratore non avesse chiesto, durante il periodo di riferimento interessato, di fruire delle ferie annuali retribuite aveva per conseguenza, in linea di principio, la perdita del diritto (e, correlativamente, la perdita del diritto all'indennità sostitutiva) al termine di tale periodo. Tale perdita automatica era ritenuta contraria all'art. 7, par. 1 della direttiva 2003/88, dovendosi “evitare una situazione in cui l'onere di assicurarsi dell'esercizio effettivo del diritto alle ferie annuali retribuite sia interamente posto a carico del lavoratore, il che offrirebbe invece al datore di lavoro la possibilità di andare esente dai propri obblighi invocando il fatto che il lavoratore non ha presentato richiesta di ferie annuali retribuite”.

Il carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite implica invece che tocchi al datore di lavoro assicurarsi che il lavoratore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie, anche invitandolo formalmente a farlo, e nel contempo informandolo del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse. Da ciò ne deriva la conclusione già sopra anticipata, fatta propria anche dalla sentenza in commento, secondo cui la perdita del diritto in parola è ipotizzabile solo qualora “il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si [sia] astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle medesime”.

La decisione allo studio sembra segnare il superamento del difficile punto di equilibrio raggiunto dalla Corte Costituzionale con la sentenza 6 maggio 2016, n°95. Con tale decisione, da più parti qualificata come interpretativa di rigetto (cfr. le note a sentenza richiamati nel paragrafo “guida all'approfondimento”), la Consulta aveva sancito la costituzionalità dell'art. 5, comma 8, del D.L. n°95/2012, tuttavia limitandone alquanto la portata applicativa.

Come si ricorderà, la norma testé richiamata (contenuta in un provvedimento legislativo significativamente noto come “decreto spending review”, promulgato per reagire alla crisi del debito italiano del 2011) vietava tout court la corresponsione di indennità sostitutive a fronte della mancata fruizione “secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti” delle ferie, riposi e permessi spettanti al personale della pubblica amministrazione.

La Corte Costituzionale aveva invece ristretto il divieto di monetizzazione alle “fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie".

Per converso, l'indennità sostitutiva era da ritenersi dovuta qualora il mancato godimento delle ferie fosse da ricondurre a causa non imputabile al prestatore di lavoro.

Sancendo il principio per cui la circostanza per cui la riconducibilità della conclusione del rapporto ad una scelta del lavoratore non possa influenzare il diritto del prestatore medesimo al percepimento dell'indennità sostitutiva per le ferie non godute, la sentenza della Corte di Giustizia si spinge oltre le differenziazioni compiute dalla Corte Costituzionale ed afferma la generale monetizzazione del periodo feriale. Rimane infatti esclusa la sola ipotesi del diritto alle ferie perduto per scelta consapevole del lavoratore, essendo ragionevole che il prestatore che abbia deciso di non fruire del riposo feriale non possa surrettiziamente riappropriarsi di tale posizione giuridica attraverso il percepimento del suo equivalente pecuniario.  

La giurisprudenza di legittimità, invece, appare già schierata su posizioni esegetiche molto vicine a quella espressa dalla Corte di Giustizia nella sentenza in commento. In tal senso appare esplicita la pronunzia di Cass., Sez. Lav. 8 luglio 2022, n.21780, nella quale i Giudici di Piazza Cavour avvertono la necessità di una interpretazione del diritto interno conforme ai principi enunciati dalla Corte di giustizia, tra l'altro, nella più volte evocata sentenza 9/11/2018 in causa C-684/16.

Sulla scorta di ciò, la Cassazione giungeva ad affermare che

  • “A) le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
  • B) è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite, dovendo sul punto darsi continuità al principio da ultimo affermato da Cassazione civile sez. lav. 14 giugno 2018, n. 15652;
  • C) la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie - se necessario formalmente -; di averlo nel contempo avvisato - in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all'interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire-del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”. Come si vede, si tratta di un percorso argomentativo che ripercorre da assai vicino quello fatto proprio dal Giudice eurounitario; né va dimenticato come la sentenza di legittimità appena richiamata si fosse espressa a proposito di un rapporto di lavoro pubblico privatizzato.

Identici principi sono stati espressi anche dalle decisioni di Cass., Sez. Lav. 12 ottobre 2022, n.29844 (anch'essa resa nell'ambito del lavoro pubblico privatizzato, con riferimento alla figura di un dirigente non apicale), nonché da Cass., Sez. Lav., 20 giugno 2023, n.17643.

In conclusione, la Corte di Giustizia, con la sentenza in commento, ha inteso dare continuità ad un orientamento decisamente solido e molto fermo nella definizione dei caratteri del diritto alle ferie annuali retribuite. Ancora una volta, quindi, i Giudici di Lussemburgo hanno puntualizzato che la posizione giuridica in questione non tollera condizioni, sì che il periodo feriale deve essere fruito o monetizzato senza che siano ammissibili automatismi congegnati in modo da comportare la perdita del diritto. Tale posizione non è stata scalfita neppure dal prospettato bilanciamento con posizioni certamente meritevoli di considerazione, quali il contenimento della spesa pubblica e la considerazione delle esigenze organizzative datoriali, entrambe particolarmente avvertite nel nostro Paese, endemicamente alle prese con un elevato debito pubblico ed organici – specie nel pubblico impiego, spesso incompleti ed in oggettiva difficoltà a fronteggiare la richiesta di servizi proveniente dalla comunità. A sommesso parere di chi scrive, la soluzione giuridica, per quanto rigorosa, adottata dalla Corte di Giustizia appare ben condivisibile (e del resto in linea con l'impossibilità di rinunziare alle ferie enunciata dalla nostra Costituzione) e destinata ad avere largo seguito presso la giurisprudenza nazionale, già orientata in tal senso.

Guida all'approfondimento

Giurisprudenza:

CGUE 20 gennaio 2009 in cause C-350/06 e C-520/06

CGUE 12 giugno 2014 in causa C-118/13

CGUE 20 luglio 2016 in causa C-341/15

Corte Cost. 6 maggio 2016, n. 95

Cass., sez. lav., 14 giugno 2018, n.15652

CGUE 6 novembre 2018 in causa C-684/16

CGUE 25 giugno 2020 in cause C-762/18 e C-37/19

CGUE 8 settembre 2020 in cause C-119/19 e C-126/19

CGUE 25 novembre 2021 in causa C-233/20

Cass., sez. lav. 8 luglio 2022, n.21780

Cass., sez. lav. 12 ottobre 2022, n.29844

Cass., sez. lav., 20 giugno 2023, n.17643

Dottrina:

M. CORTI, Legislazione anticrisi e diritto alle ferie: i difficili equilibrismi della Corte costituzionale, in Dir. relaz. indust., 2016, pagg. 1129 e ss.

F. DI NOIA, La Consulta salva il divieto di monetizzazione delle ferie non godute e mitiga il “furore iconoclasta” del D.L. n.95/2012, in Riv. it. dir. lav., 2016, pagg. 887 e ss.

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