Contratto di lavoro a termine e principio di non discriminazione: il datore deve motivare il recesso con preavviso, se previsto per i lavoratori a tempo indeterminato

21 Febbraio 2024

La CGUE, con sentenza del 20 febbraio 2024 (C-715/20), ha affermato che una normativa nazionale che consente al datore di lavoro di non motivare il recesso con preavviso da un contratto di lavoro a tempo determinato (mentre vi è obbligato quando il contratto è a tempo indeterminato) viola il principio di non discriminazione sancito dal diritto UE ed è incompatibile con l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. In tale ipotesi, il lavoratore a tempo determinato è privato di un'informazione importante per valutare l'eventuale carattere ingiustificato del suo licenziamento e, eventualmente, per agire in giudizio. Poiché tale differenza di trattamento lede il diritto fondamentale a un ricorso effettivo, il giudice nazionale investito di una controversia tra privati è tenuto a disapplicare, per quanto necessario, la normativa nazionale qualora non gli sia possibile interpretarla in modo conforme. 

L'attesa decisione in commento della CGUE (20 febbraio 2024, C‑715/20) riguarda l'annosa questione dei contratti a termine sulla quale, tuttavia, si era innestata la delicata tematica della eventuale efficacia diretta orizzontale dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali.

Secondo la Corte, il lavoratore assunto a tempo determinato deve essere informato dei motivi di recesso con preavviso dal suo contratto di lavoro se tale informazione è prevista per un lavoratore a tempo indeterminato.

Ritiene la Grande Sezione che una normativa nazionale che preveda la comunicazione di tali motivi ai soli lavoratori a tempo indeterminato lede il diritto fondamentale a un ricorso effettivo del lavoratore a tempo determinato.

Richiamando la portata dell'art. 4 e del divieto di discriminazione fra lavoratori comparabili, la Corte giunge a conclusioni inattese. Il diritto dell'Unione osta, infatti, secondo quanto affermato nella decisione, a una normativa nazionale che consenta al datore di lavoro di non motivare il recesso con preavviso da un contratto di lavoro a tempo determinato mentre vi è obbligato quando recede da un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

In un'ipotesi del genere, il lavoratore assunto a tempo determinato è privato di un'informazione importante per valutare l'eventuale carattere ingiustificato del suo licenziamento e, eventualmente, per agire in giudizio. Poiché tale differenza di trattamento lede il diritto fondamentale a un ricorso effettivo (rapido il passaggio sull'art. 47 ma è  ciò di cui maggiormente si dovrà riflettere), il giudice nazionale investito di una controversia tra privati è tenuto a disapplicare, per quanto necessario, la normativa nazionale qualora non gli sia possibile interpretarla in modo conforme.

Nella sentenza del 20 febbraio 2024, la Corte ricorda che l'accordo quadro mira a migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione.

Qualora non riceva informazioni circa i motivi di recesso dal  contratto, il lavoratore a tempo determinato è privato di  un'informazione importante per valutare l'eventuale carattere ingiustificato del suo licenziamento. Esso non dispone quindi, a monte, di un'informazione che può essere determinante ai fini della scelta di avviare o meno un'azione giudiziaria. Pertanto, la normativa polacca in questione istituisce una differenza di trattamento a danno dei lavoratori impiegati a tempo determinato. Tuttavia, spetterà al giudice nazionale verificare che il lavoratore a tempo determinato si trovi, nel caso di specie, in una situazione comparabile a quella di un lavoratore assunto a tempo indeterminato dallo stesso datore di lavoro.

Inoltre, la Corte considera che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro non giustifica il trattamento meno favorevole dei lavoratori a tempo determinato. La comunicazione dei motivi di licenziamento non inciderebbe sulla flessibilità inerente a tale forma di contratto di lavoro. Benché obbligato a garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, il giudice nazionale in ogni caso non sarebbe tenuto, nel caso di specie, a disapplicare la disposizione nazionale per il solo fatto che essa è contraria all'accordo quadro. In quanto allegato a una direttiva, infatti, quest'ultimo non è invocabile in una controversia fra privati.

Tuttavia, la differenza di trattamento in questione lede altresì il diritto a un ricorso effettivo, quale garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea. Pertanto, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare, in quanto necessario, la normativa nazionale di cui trattasi al fine di garantire la piena efficacia di tale diritto qualora non gli sia possibile interpretare il diritto nazionale applicabile in modo conforme.