Racial profiling: l’assenza di validi motivi che giustifichino un controllo d'identità da parte della polizia costituisce una violazione del divieto di discriminazione

La Redazione
26 Febbraio 2024

Con sentenza del 20 febbraio 2024 (n. 43868/18 e 25883/21), procedimento classificato come “impact case” in quanto rilevante per lo sviluppo della tutela dei diritti umani, la Corte EDU ha condannato la Svizzera per aver omesso di esaminare le istanze di discriminazione razziale - denunciate dal ricorrente di origini keniane - inerenti ad un controllo d'identità dello stesso, effettuato dalla polizia presso la stazione centrale di Zurigo. Sostenendo che tale controllo si basasse su una profilazione razziale, il cittadino ha fatto ricorso alla Corte EDU, la quale ha ritenuto che, date le circostanze del predetto controllo e il luogo in cui è stato effettuato, si trattasse di un trattamento discriminatorio contrario all'art. 14 CEDU. Inoltre, i giudici di Strasburgo, rilevando l'omissione di un esame adeguato delle accuse di discriminazione razziale da parte delle autorità svizzere, hanno evidenziato la mancanza di un ricorso effettivo, così come previsto dall'art. 13 CEDU.

Tra il 2015 e il 2016 il ricorrente, cittadino svizzero di origini keniane, è stato oggetto di un procedimento penale - per essersi rifiutato di ottemperare alle ingiunzioni della polizia - nel corso del quale ha sostenuto che il controllo d'identità a cui è stato sottoposto dalla polizia presso la stazione centrale di Zurigo mentre si recava a lavoro, si basava su una profilazione razziale. Egli è stato infatti perquisito fin quando la polizia non ha trovato il suo documento d'identità che inizialmente rifiutò di mostrare a motivo del fatto che gli agenti non gli avevano fornito alcuna motivazione che potesse giustificare il controllo, ritenendolo di natura discriminatoria. Al termine del procedimento, il ricorrente è stato condannato al pagamento di una multa di 100 franchi svizzeri.

Nel 2020 il ricorrente si è rivolto al Tribunale amministrativo del Cantone di Zurigo, che ha annullato le decisioni delle istanze inferiori. Il tribunale, se da una parte ha ritenuto che  il controllo in questione fosse illegale, dall'altra parte ha lasciato aperta la questione della discriminazione basata sul colore della pelle.

Pertanto, in seguito alla conferma della condanna, l'istante ha presentato ricorso alla Corte EDU, ritenendo di essere stato vittima di una discriminazione fondata sul colore della sua pelle e che la questione se vi sia stata o meno una profilazione razziale contro di lui non sia stata decisa dalle autorità svizzere. In particolare, ha affermato che il giorno del controllo nessun altro individuo, tra la folla di persone - quasi tutte di etnia caucasica secondo lui - che si recavano al lavoro, è stato sottoposto a un controllo d'identità. Sostiene inoltre di non aver ricevuto risposta alla domanda sulla base di quali motivi fosse stato fermato.

Ricordando che la discriminazione razziale è una forma di discriminazione particolarmente “odiosa” che, tenuto conto della pericolosità delle sue conseguenze, esige una vigilanza speciale e una reazione vigorosa da parte delle autorità, ha ritenuto fondate le istanze del ricorrente tenuto conto delle circostanze concrete del controllo d'identità e del luogo in cui è stato effettuato, in quanto è stata raggiunta la soglia di gravità richiesta per la messa in gioco del diritto al rispetto della vita privata, potendo il ricorrente far valere una censura difendibile di discriminazione fondata sul suo colore della pelle. La Corte ritiene in proposito che la censura del ricorrente non sia stata oggetto di un esame effettivo né da parte dei tribunali amministrativi né da parte dei tribunali penali.

Si è dunque verificata una violazione procedurale dell'art. 14 della Convenzione EDU, in combinato disposto con l'articolo 8 CEDU, quanto all'obbligo di accertare se motivi discriminatori abbiano potuto svolgere un ruolo nel controllo di identità subita dal ricorrente.

Sulla ritenuta violazione materiale del citato art. 14 CEDU in combinato disposto con l'art. 8 cit.,  quanto all'asserita natura discriminatoria del controllo d'identità del ricorrente, la Corte - ben consapevole delle difficoltà che incontrano gli agenti di polizia a decidere, molto rapidamente e senza necessariamente disporre di chiare istruzioni interne, se devono affrontare una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza – ha concluso che esiste, nel caso concreto, una presunzione di trattamento discriminatorio nei confronti del ricorrente e che il Governo non è riuscito a confutare.

Inoltre, relativamente alla censura formulata dal ricorrente sul terreno dell'art. 14 combinato con l'art. 8 CEDU, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto la violazione dell'art. 13 CEDU (diritto ad un ricorso effettivo) poiché il ricorrente non ha beneficiato dinanzi agli organi interni di un ricorso effettivo attraverso il quale avrebbe potuto far valere la sua censura secondo la quale aveva subito un trattamento discriminatorio al momento del controllo d'identità e della perquisizione che lo avevano interessato.

La Corte ricorda che gli Stati hanno l'obbligo di garantire il godimento effettivo dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione e che tale obbligo riveste un'importanza particolare per le persone appartenenti a minoranze, in quanto più esposte al bullismo. Tale obbligo assume quindi una maggiore rilevanza in una questione inerente l'art. 14 CEDU, che sancisce il divieto di discriminazione.

Per quanto riguarda in particolare la profilazione razziale, il Comitato delle Nazioni Unite per l'eliminazione della discriminazione razziale, nelle sue osservazioni finali del 27 dicembre 2021 sulla relazione della Svizzera, ha ritenuto che la formazione degli agenti di polizia svizzeri fosse insufficiente a prevenire in modo efficace qualsiasi razzismo e profilazione razziale da parte loro.

Inoltre, nel suo rapporto sulla Svizzera adottato il 10 dicembre 2019 e pubblicato il 19 marzo 2020, la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza («ECRI») del Consiglio d'Europa ha raccomandato di fornire una maggiore formazione alla polizia sulla questione della profilazione razziale e all'uso dello «standard del ragionevole sospetto».

Essa ha inoltre raccomandato vivamente la creazione di un organo, indipendente dalla polizia e dal pubblico ministero, incaricato di indagare sulle accuse di discriminazione razziale e di comportamenti abusivi a sfondo razzista da parte della polizia.

Tenuto conto di quanto precede, la Corte ritiene che la mancanza di un quadro giuridico e amministrativo sufficiente possa dar luogo a controlli d'identità discriminatori.

Sull'onere della prova in tale materia, la Corte precisa che, quando un ricorrente ha accertato l'esistenza di una disparità di trattamento, spetta al governo dimostrare che tale disparità di trattamento era giustificata.

La Commissione ricorda inoltre che alcune relazioni di istanze internazionali dedicate alla difesa dei diritti dell'uomo riferiscono di casi di profilazione razziale da parte della polizia in Svizzera, constatazione confermata peraltro dalle osservazioni di alcune parti intervenute. Considerate nel loro insieme, tali affermazioni possono rafforzare la presunzione confutabile secondo cui il richiedente ha subito un trattamento discriminatorio.