Ricorso per cassazione depositato via PEC a indirizzo del giudice a quo non compreso nell’elenco del DGSIA: è inammissibile

04 Marzo 2024

E' ammissibile l'atto di impugnazione inviato a un indirizzo PEC in uso alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, ma non presente nell'elenco del DGSIA?

Massima

La norma transitoria della riforma Cartabia (art. 87-bis, comma 7, d.lgs. n. 150/2022) prevede specificamente che l'impugnazione è inammissibile quando è trasmessa ad un indirizzo PEC non presente nel registro generale degli indirizzi elettronici del DGSIA. Tale disposizione non può essere oggetto di interpretazioni dirette a valorizzare la capacità del deposito illegittimo di raggiungere, in ipotesi “sostanzialmente”, lo scopo cui l'atto di ricorso è diretto.

Il caso

Il difensore di un imputato depositava il ricorso per cassazione l'ultimo giorno utile via PEC all'indirizzo sez2.ca.reggiocalabria@giustiziacert.it, ossia un indirizzo di posta elettronica attivo e dal quale la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata estraeva il ricorso presentato.

La seconda sezione penale della Corte di appello di Reggio Calabria dichiarava, con ordinanza, inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 87, comma 7, d.lgs. n. 150/2022 in quanto depositato presso l'indirizzo PEC non compreso tra quelli certificati dal Direttore generale per i sistemi informativi e automatizzati (DGSIA) e pubblicati sul portale dei servizi telematici del ministero della Giustizia.

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione il difensore dell'imputato deducendo la violazione di legge in quanto, dopo che con i d.m. 4 e 18 luglio 2023, si era previsto il deposito cartaceo, l'invio del gravame tramite PEC all'indirizzo della cancelleria avrebbe dovuto essere equiparato a quello cartaceo e, dunque, ritenuto ammissibile.

Si deduceva che il ricorso spedito a mezzo PEC, con firma certa, al giudice a quo assicurerebbe la certezza sia del compimento dell'atto che della sua provenienza, sicché solo dall'inosservanza del termine di presentazione dell'impugnazione deriverebbe l'inammissibilità, non anche dal diverso “luogo di presentazione”, ove l'atto pervenga tempestivamente nella cancelleria del giudice individuato ex lege, raggiugendo il suo scopo. A supporto di tale ricostruzione ermeneutica si richiama la giurisprudenza della Corte EDU espressa nella sentenza Succi contro Italia, successivamente accolta dalla Suprema Corte in qualche arresto (sez. V, n. 26465/2022) relativo al regime normativo relativo all'emergenza Covid (art. 24, comma 4, d.l. n. 137/2020), sostanzialmente replicato dall'art. 87, comma 7, della riforma Cartabia.

La questione

L'atto di impugnazione inviato all'indirizzo PEC non compreso nell'elenco del DGSIA ma ad una PEC in uso alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento è inammissibile?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, con sentenza n. 4791/2024, ritiene inammissibile il ricorso.

Per i giudici della seconda sezione di legittimità in attesa del pieno funzionamento del portale del processo telematico (ancora in via di sperimentazione con i d.m. del 4 e 18 luglio 2023 e, in via di progressiva messa a regime, secondo le diverse scansioni temporali, dettate dal d.m. n. 215/2023), prendono atto che nel momento di presentazione del ricorso per cassazione (il 24 giugno 2023), le comunicazioni tra parti private e uffici giudiziari erano regolate dall'art. 87-bis d.lgs. n. 150/2022 che, oltre a consentire nella fase di transizione digitale del processo penale il deposito delle impugnazioni via PEC, ha espressamente dettato delle cause di inammissibilità, nel cui novero rientra il caso il gravame è trasmesso ad un indirizzo PEC  non presente nell'elenco degli indirizzi elettronici dettato dal DGSIA (comma 7, lett. a).

La disposizione prevede dunque – come si legge nella sentenza in commento – «un caso specifico di inammissibilità che non può essere oggetto di interpretazioni dirette a valorizzare la capacità del deposito illegittimo di raggiungere, in ipotesi “sostanzialmente”, lo scopo cui l'atto di ricorso è diretto».

Ritenere che sia ammissibile il ricorso presentato presso un indirizzo PEC non abilitato a riceverle potrebbe (come dedotto dal ricorrente) derivare da una valorizzazione del favor impugnationis che, in ogni caso non può spingersi fino ad attribuire al diritto vivente una potestà integrativa della voluntas legis, né quindi consentire l'individuazione di diverse forme di presentazione del ricorso diverse da quelle volute dal legislatore (secondo i dettami di Sezioni Unite Bottari n. 1626/2021). In tale pronunce si è tracciata una linea di confine tra:

  • i casi in cui vi è un univoco tenore letterale della norma: in questo caso vengono chiuse le porte a qualsiasi interpretazione “adeguatrice” dell'ammissibilità del gravame;
  • nel caso di dubbio circa la conformità ai principi costituzionali e convenzionali, si dovrebbe necessariamente lasciare spazio all'incidente di costituzionalità, fermo restando che, in ottica CEDU, la Corte di Strasburgo riconosce ampi margini di apprezzamento agli Stati contraenti, tali da consentire requisiti formali rigorosi per l'ammissibilità dell'impugnazione, a condizione che tali restrizioni non limitino l'accesso aperto all'individuo a tal punto che il “diritto a un tribunale” risulti pregiudicato nella sua stessa sostanza (ex multis, Corte EDU, sentenza Trevisanato contro Italia, n. 32610/2007).

A questo punto, per i giudici di legittimità, vero è che secondo le Sezioni Unite Bottari solo l'inosservanza del termine di presentazione determina l'inammissibilità del ricorso, mentre se l'impugnazione è presentata presso un “ufficio diverso” da quello indicato dalla legge, il ricorrente si assume il rischio che la stessa sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività è quella in cui l'atto perviene all'ufficio competente a riceverlo.

Per la pronuncia in esame, «tale interpretazione, che il ricorrente intende importare nel caso di specie, valorizza il sostanziale “raggiungimento dello scopo” di un'impugnazione cautelare irritualmente presentata nella cancelleria del giudice non competente a riceverla, ma tempestivamente trasmessa a quella del giudice competente: essa è – tuttavia – ed è il dato decisivo – riferita al deposito in luoghi “fisici”, e non a quello in luoghi “telematici”.

Il “percorso telematico del ricorso risulta, ad oggi, disciplinato analiticamente dal legislatore, che ha individuato sia le caratteristiche dell'indirizzo di posta dell'emittente (quella certificata del difensore), che dell'indirizzo di posta ricevente (individuati dal DGSIA)».

Ciò posto, i giudici della seconda sezione di legittimità, pur prendendo atti di un orientamento contrario, ritengono che proprio in considerazione del fatto che il legislatore ha previsto la massima sanzione processuale per mancato adempimento delle regole imposte in materia di presentazione dell'impugnazione, non risultano percorribili interpretazioni abroganti o correttive. Legittimare la possibilità di scrutinare, caso per caso, l'effettività dell'inoltro del ricorso presso indirizzi di posta non abilitati, implicherebbe l'affidamento della legittimità della progressione processuale ad imprevedibili – in quanto non imposti dal legislatore – controlli della cancelleria su caselle PEC non abilitate al ricevimento delle impugnazioni, così contravvenendo alle esigenze di semplificazione poste a fondamento della riforma Cartabia.

In definitiva, essendo stato trasmesso il ricorso all'indirizzo non abilitato sez2.ca.reggiocalabria@giustiziacert.it, invece che a quello abilitato depositoattipenali2.ca.reggiocalabria@giustiziacert.it, il gravame viene ritenuto inammissibile.

Osservazioni

La pronuncia in commento, pur proponendo una interpretazione letterale ineccepibile da un punto di vista formale, non appare condivisibile in quanto tale lettura rischia di porsi in contrasto con quella convenzionalmente orientata e, qualora si ritenga insanabile il contrasto con la formulazione dell'art. 87-bis, comma 7, d.lgs. n. 150/2022, ne impone di sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale della disposizione.

Giova ricordare che l'orientamento più recente è quello nel solco del quale si pone anche la sentenza n. 4791/2024: l'impugnazione che non viene trasmessa all'indirizzo PEC abilitato (descritto nel decreto del Direttore del DGSIA del 9 novembre 2020) è inammissibile (Cass. pen., Sez. III, n. 32118/2023 e 32467/2023), a nulla rilevando che qualora l'indirizzo errato sia stato reperito dall'avvocato sul sito web del Giudice destinatario dell'atto (nella specie istanza di ammissione al patrocinio dello Stato al Magistrato di sorveglianza): «la disciplina in materia è tassativa, per cui il predetto provvedimento del 9 novembre 2020 doveva costituire l'unico ed inderogabile punto di riferimento per il difensore, che non si sarebbe dovuto affidare alle indicazioni non ufficiali contenuta nella pagina web suindicata» (Cass. pen., Sez. IV, n. 44368/2023).

Un orientamento più morbido si ha nei casi in cui il gravame sia proposto ad un indirizzo PEC abilitato, sia pure diverso da quello indicato come abilitato dal provvedimento organizzativo del presidente del tribunale, ma compreso nell'elenco allegato al provvedimento del DGSIA contenente l'individuazione degli indirizzi PEC degli uffici giudiziari destinatari dei depositi di cui dapprima all'art. 24, comma 4, d.l. n. 137/2020, conv. in l. n. 176/2020, in quanto tale sanzione processuale è prevista dall'art. 24, comma 6-sexies, lett. e) del cit. d.l. esclusivamente in caso di utilizzo di indirizzi PEC di destinazione non ricompresi neppure nell'allegato del provvedimento direttoriale» (Cass. pen., Sez. IV, n. 47192/2022) e, adesso, nell'art. 87, comma 7, d.lgs. n. 150/2022 (Cass. pen., Sez. IV, n. 44368/2023). Si tratta di casi in cui nei tribunali di grandi dimensioni vi sono più PEC abilitate e, nella suddivisione interna, si invia la richiesta di riesame o altro atto alla PEC del tribunale indirizzandola ad un numero diverso.

Invece, resta inammissibile l'appello inviato in via telematica all'indirizzo PEC della Corte di appello, tenuta a decidere l'impugnazione, e non all'indirizzo di posta elettronica certificata del giudice di primo grado che ha emesso il provvedimento impugnato (Cass. pen., Sez. VI, n. 20931/2023).

Deve, tuttavia, ritenersi preferibile la lettura sostanzialista e conservativa del mezzo di impugnazione, valorizzata nel periodo pandemico da un cospicuo orientamento di cassazione, che ha privilegiato un approccio che ripudia un rigido formalismo, e che risponde alla necessaria verifica della tutela dei valori che le prescrizioni formali introdotte intendono presidiare e il quale, sostanzialmente, si individua nella certezza dell'identificazione del mittente, attraverso la identità digitale delineata dall'indirizzo PEC ufficialmente attribuito al difensore, ed all'autenticità della sottoscrizione (Cass. pen., Sez. V, n. 24645/2022; Sez. VI, n. 40540/2021; Sez. I, n. 2787/2022 e 41098/2021).

Le stesse Sezioni Unite Bottari, per lo meno in materia di impugnazioni cautelari, hanno mostrato dichiarata adesione ad un approccio di tipo sostanzialistico, rimarcando come - ferma restando l'opzione del legislatore nel disegnare specifici itinerari del deposito dell'impugnazione - solo l'inosservanza del termine di presentazione ne determina, in realtà, l'inammissibilità.

La distinzione operata dall'odierna sentenza n. 4791/2024, tra luoghi fisici e telematici di deposito, non sembra tale da poter giustificare una differente disciplina in ordine alle (pesanti) conseguenze processuali che sfociano fino all'inammissibilità. Il messaggio che chiaramente si trae delle Sezioni Unite Bottati è quello per cui se il percorso di deposito è diverso da quello indicato dalla legge, l'impugnante si assume (e accetta) il rischio che il gravame non giunga fisicamente nella cancelleria del giudice a cui deve essere correttamente indirizzata.

Peraltro – si badi – che è profondamente diversa la fattispecie oggetto della sentenza in commento: qui non si tratta di un atto trasmesso ad un indirizzo PEC di altro ufficio giudiziario, ma ad un indirizzo dell'ufficio a cui va depositato (telematicamente) l'atto che non è compreso nell'elenco abilitato dal DGSIA. Le conseguenze non sono di poco conto: nel caso portato dinanzi all'attenzione della Suprema Corte, il ricorso giunge in una casella PEC comunque in uso alla seconda sezione di Corte di appello che ha emesso la sentenza poi impugnata in cassazione. In questo caso, il ricorrente, laddove trasmette il deposito in una PEC non abilitata, si assume il rischio che la cancelleria non apra la PEC o il file in cui è allegato il ricorso o non lavori il ricorso (sul punto, fuorvianti appaiono i passaggi argomentativi che imporrebbero controlli della cancelleria su caselle PEC non abilitate al ricevimento delle impugnazioni, in quanto nessun obbligo si evince in tal senso).

Tuttavia – se come sembra essere avvenuto nella specie – la cancelleria scarica il ricorso per cassazione, lo inserisce nel fascicolo, desumere, sulla base di una lettura eccessivamente formale, la inammissibilità dell'impugnazione (peraltro presente fisicamente nel fascicolo) appare evidente la lesione col “diritto di accesso al tribunale” riconosciuto e garantito dall'art. 6 CEDU. Infatti, non vi dovrebbe essere spazio per la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione che, entro il termine di decadenza della sua proposizione, abbia comunque raggiunto il suo scopo.

Siffatta opzione esegetica si allinea alla più recente giurisprudenza di Strasburgo in tema di diritto di accesso alla giustizia, nella declinazione espressa nella sentenza della Corte di Strasburgo n. 55064 del 28 ottobre 2021, Succi contro Italia. Nel ripudiare l'acritico ossequio al mero formalismo, la Corte EDU sembra respingere l'applicazione di una regola, quando la stessa si riveli disfunzionale e contrastante con altre norme e, al tempo stesso, altre letture ne risultino maggiormente coerenti con la mens legis o con l'impianto complessivo derivante dalla considerazione del sistema in cui la norma stessa è chiamata ad interagire.