Libertà di espressione: si estende alla sfera professionale dei cittadini e impone agli Stati azioni positive per prevenire sanzioni sproporzionate dai datori privati

05 Marzo 2024

La Corte EDU (20 febbraio 2024, n. 48340/20) si è espressa sulla violazione della libertà di espressione nel caso di un dipendente di banca licenziato per aver inviato un'e-mail interna considerata, dal datore, accusatoria nei confronti della gestione dell'impresa. La Corte EDU, sul ricorso del lavoratore licenziato, ha affermato che l'art. 10 CEDU si estende anche alla sfera professionale dei cittadini e impone agli Stati di adottare misure positive di protezione per scongiurare l'adozione di sanzioni disciplinari sproporzionate da parte dei datori di lavoro privati. La Corte, nel valutare se l'autorità giudiziaria abbia bilanciato adeguatamente gli interessi del datore con il diritto alla libertà di espressione al fine di determinare se il licenziamento fosse proporzionato, ha concluso che la lettera del lavoratore, date le specifiche circostanze, non costituiva un perturbamento della serenità aziendale. Di conseguenza la Corte ha ritenuto che la decisione dell'autorità giudiziaria non si è basata sulla ricerca di un giusto equilibrio tra il diritto alla libertà d'espressione, da una parte, e il diritto del datore di lavoro di proteggere i suoi interessi, dall'altra.

La Corte EDU, con sentenza del 20 febbraio 2024 (causa n. 48340/20, Dede c. TURCHIA), si è pronunciata sulla violazione della libertà di espressione (art. 10 CEDU) di un dipendente di una banca che è stato licenziato per aver inviato una e-mail (nella rete interna aziendale) al Dipartimento Risorse Umane del suo datore di lavoro e al Direttore con la quale denunciava i malfunzionamenti dell'impresa e, in particolare, avanzava delle critiche sui metodi di gestione dell'azienda da parte di un dirigente di alto livello.

Il datore di lavoro ha ritenuto che l'e-mail del proprio dipendente avesse turbato l'ordine e la tranquillità all'interno dell'azienda in quanto il contenuto della lettera aveva natura accusatoria, non conforme a realtà, e toni di insulto e calunnia nei confronti del Direttore.

Il Tribunale ha annullato il licenziamento; la Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento rilevando che – seppure le espressioni utilizzate non contenevano insulti né minacce – la lettera superava i limiti di una critica ammissibile e aveva creato disagi sul luogo di lavoro; la Corte di cassazione turca ha confermato la sentenza di appello.

La Corte EDU – su ricorso del lavoratore licenziato – ha, dapprima, rammentato che la protezione dell'art. 10 CEDU si estende alla sfera professionale in generale (cfr. Melike, précité, § 39, et Herbai c. Hongrie, no 11608/15, § 36, 5 novembre 2019) sia nei rapporti di diritto pubblico sia nei rapporti di lavoro privato (come nel caso di specie, ove il datore di lavoro è una banca), e nell'ambito di questi ultimi lo Stato deve adottare misure positive di protezione affinché il diritto alla libertà di espressione venga rispettato anche dai soggetti privati (paragrafo 37).

Pertanto, la Corte EDU ha individuato la propria competenza ad occuparsi del licenziamento del dipendente avuto riguardo alle obbligazioni positive poste in capo allo Stato; ha, dunque, individuato la propria competenza a valutare se l'autorità giudiziaria turca, rigettando la domanda di annullamento del licenziamento proposta dal lavoratore, abbia svolto un giudizio equilibrato tra il fine perseguito dal datore di lavoro e il diritto alla libertà di espressione garantito dall'art. 10 CEDU e, dunque, se il licenziamento poteva ritenersi proporzionato (paragrafo 40).

La Corte EDU ha, dunque, precisato che va fatta una chiara distinzione tra critica e insulti, potendo, ovviamente, questi ultimi giustificare delle sanzioni (paragrafo 46). Esaminando la lettera inviata dal lavoratore, la Corte EDU ha ritenuto che non vi era alcuna espressione ingiuriosa bensì delle critiche «acerbe», sarcastiche, contro il Direttore (in sostanza, si sosteneva che le direttive gestionali dallo stesso adottate erano inconciliabili con un approccio manageriale moderno: il Direttore era distante dai suoi dipendenti e autoritario, aveva soppresso tutta una serie di vantaggi prima riconosciuti ai dipendenti come gli aiuti finanziari, i premi pagati ai lavoratori che conoscevano lingue straniere, il sostegno economico all'acquisto di abbonamenti dei trasporti, e, inoltre, faceva favoritismi in sede di assunzioni). Inoltre, la lettera era stata inviata ad una cerchia ristretta di destinatari (rete interna e Ufficio Risorse Umane).

La Corte EDU ha, pertanto, concluso che le autorità giudiziarie non hanno tenuto conto di tutte le circostanze specifiche in cui la critica del lavoratore si è espressa ed erroneamente sono pervenute ad un giudizio di perturbamento della serenità aziendale, senza nemmeno valutare la possibilità di adottare una sanzione disciplinare conservativa.

Insomma, la Corte EDU ha ritenuto che la decisione dell'autorità giudiziaria turca non si è basata sulla ricerca di un giusto equilibrio tra il diritto alla libertà d'espressione, da una parte, e il diritto del datore di lavoro di proteggere i suoi interessi, dall'altra. Per l'effetto, ha condannato lo Stato turco al risarcimento del danno morale, pari a euro 2.600,00 (rigettando la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, corrispondente alle retribuzioni e al posto di lavoro persi, in assenza di adeguata documentazione probante), oltre spese di lite.