Domanda d’asilo reiterata: non può presumersi abusiva e va valutata individualmente anche se fondata sulla conversione religiosa dopo l’abbandono del Paese d’origine

La Redazione
19 Marzo 2024

Con sentenza del 29 febbraio 2024 (C-222/22), la CGUE ha affermato l'illegittimità del respingimento automatico da parte di uno Stato UE di una domanda d'asilo reiterata fondata sul rischio legato alla conversione religiosa del richiedente, intervenuta in seguito all'abbandono del proprio Paese di origine. Infatti, la direttiva «qualifiche» non consente di presumere che qualsiasi domanda reiterata basata su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la sua partenza dal Paese d'origine derivi da un'intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Per tali ragioni, qualsiasi domanda reiterata deve essere valutata individualmente.

Un cittadino iraniano, la cui prima domanda di protezione internazionale è stata respinta dalle autorità austriache, ha presentato in Austria una nuova domanda (detta «domanda reiterata») di protezione internazionale. Egli ha affermato di essersi convertito nel frattempo al cristianesimo e temeva pertanto di essere perseguitato nel suo paese d'origine.

All'interessato è stato successivamente concesso il beneficio della protezione sussidiaria (prevista per qualunque cittadino di un paese terzo che non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se fosse rinviato nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, il che include segnatamente l'essere giustiziato e trattamenti inumani o degradanti) e un diritto di soggiorno temporaneo. Infatti, le autorità austriache hanno constatato che egli aveva dimostrato in modo credibile di essersi convertito «per intima convinzione» al cristianesimo in Austria e che praticava attivamente tale religione. Per questo motivo, egli correva il rischio di essere esposto, in caso di ritorno nel suo paese d'origine, ad una persecuzione individuale.

Per contro, le autorità austriache hanno rifiutato di riconoscere all'interessato lo status di rifugiato (previsto in caso di persecuzione di qualunque cittadino di un paese terzo per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale). Infatti, il diritto austriaco subordina il riconoscimento dello status di rifugiato a seguito di una domanda reiterata alla condizione che la nuova circostanza determinata dall'interessato stesso costituisca l'espressione e la continuazione di una convinzione già manifestata nel paese di origine.

La Corte amministrativa austriaca chiede alla Corte di giustizia se tale condizione sia compatibile con la direttiva «qualifiche» (Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o  apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare  della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta). La Corte risponde in senso negativo.

La direttiva «qualifiche» non consente di presumere che qualsiasi domanda reiterata basata su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la sua partenza dal paese d'origine derivi da un'intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Qualsiasi domanda reiterata deve essere valutata individualmente.

Pertanto, se si constata, come nel caso di specie (spetta alla Corte amministrativa austriaca verificare se tale constatazione delle autorità austriache sia esatta), che l'interessato ha dimostrato in modo credibile di essersi convertito «per intima convinzione» e di praticare attivamente tale religione, ciò è tale da escludere l'esistenza di un'intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura. Se un tale richiedente soddisfa le condizioni previste dalla direttiva per essere qualificato come rifugiato, deve essergli riconosciuto tale status.

Per contro, se vengono accertate un'intenzione abusiva e una strumentalizzazione della procedura, il riconoscimento dello status di rifugiato può essere negato anche quando l'interessato teme a ragione di essere perseguitato nel suo paese d'origine, come conseguenza delle circostanze che egli stesso ha determinato. Egli conserva tuttavia, in tale ipotesi, la qualità di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra (Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, entrata in vigore il 22 aprile 1954 e integrata dal protocollo relativo  allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967. La Corte rileva che il rifiuto del riconoscimento formale dello «status di rifugiato» ai sensi della direttiva non impedisce che l'interessato debba essere qualificato come rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra). In tal caso, l'interessato deve beneficiare della protezione garantita da tale convenzione, che vieta in particolare l'espulsione e il respingimento verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo segnatamente, della sua religione.