Infondatezza del ricorso per violazione delle norme sulla notifica a mezzo PEC: è abuso del processo

La Redazione
21 Marzo 2024

Si tratta infatti di un comportamento che ha «limitato la possibilità della Corte di Cassazione di concentrarsi su ricorsi che invece si presentino meritevoli di un intervento nomofilattico o che, all'inverso, meritino accoglimento, o comunque un più attento esame».

Una società impugnava alcune cartelle di pagamento e proponeva successivamente domanda di definizione agevolata. La CTP dichiarava dunque la cessazione della materia del contendere e accoglieva il ricorso limitatamente ad una sola delle cartelle contestate. La CTR ribaltava però la decisione ritenendo legittima la notifica via PEC dell'atto impugnato emesso e trasmetto in formato PDF, indipendentemente dall'avere lo stesso raggiunto lo scopo ex art. 156 c.p.c.

La società ha dunque proposto ricorso per cassazione ma l'iniziativa si rivela errata.

L'unico motivo di ricorso dedotto si incentra infatti sulla presunta violazione dell'art. 3-bis l. n. 52/1994 e dell'art. 16-ter d.l. n. 179/2012, come convertito in l. n. 221/2012 per avere la CTR ritenuto perfezionata la notifica della cartella di pagamento contestata ancorchè proveniente, quanto al notificante, da un indirizzo PEC differente da quello contenuto nei pubblici registri.

La S.C. sottolinea la manifesta infondatezza della censura. Infatti, le Sezioni Unite con la sentenza n. 15979/2022 hanno affermato che «in tema di notificazione a mezzo PEC, la notifica avvenuta utilizzando un indirizzo di posta elettronica istituzionale, non risultante nei pubblici elenchi, non è nulla, ove la stessa abbia consentito, comunque, al destinatario di svolgere compiutamente le proprie difese, senza alcuna incertezza in ordine alla provenienza ed all'oggetto, tenuto conto che la più stringente regola, di cui all'art. 3-bis, comma 1, l. n. 53/1994, detta un principio generale riferito alle sole notifiche eseguite dagli avvocati, che, ai fini della notifica nei confronti della P.A., può essere utilizzato anche l'Indice di cui all'art. 6-ter d.lgs. n. 82/2005 e che, in ogni caso, una maggiore rigidità formale in tema di notifiche digitali è richiesta per l'individuazione dell'indirizzo del destinatario, cioè del soggetto passivo a cui è associato un onere di tenuta diligente del proprio casellario, ma non anche del mittente».

In conclusione, rigettando inevitabilmente il ricorso e provvedendo alla liquidazione delle somme dovute ex art. 96 comma 3 e comma 4 c.p.c., come richiamati dall'art. 380-bis, ultimo comma, c.p.c., il Collegio ritiene che l'art. 3, comma 28, lett. g), d.lgs. n. 149/2022 contenga, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, «una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96 comma 3) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 comma 4)». In altre parole, tale disposizione codifica una vera e proprio ipotesi di abuso del processo, «peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale».

Di conseguenza, pare giustificato alla Corte che «colui che abbia contribuito all'impegno di risorse giurisdizionali in sé limitate, nonostante una prima delibazione negativa, sostenga un costo aggiuntivo in caso di conferma di detta delibazione da parte del Collegio adito».

Il ricorrente dovrà ora pagare, oltre alle spese di lite, l'ulteriore somma di 5mila euro (3mila euro ex art. 96, comma 3, c.p.c. e 2mila euro a favore della cassa delle ammende ex art. 96, comma 4, c.p.c.)

(tratto da dirittoegiustizia.it)

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