Licenziamenti collettivi: è legittima per la Consulta la relativa disciplina del Jobs act sulla tutela indennitaria e i criteri di reintegrazione nel posto di lavoro

Federico Roselli
25 Marzo 2024

La Corte costituzionale (22 gennaio 2024, n. 7) nel dichiarare non fondate alcune questioni aventi ad oggetto gli artt. 3, comma 1, e 10 d.lgs. n. 23/2015, ha riconosciuto la diminuzione di alcune garanzie spettanti al prestatore di lavoro contro i licenziamenti illegittimi, individuali e collettivi. L'Autore, constatando come le tutela contro i licenziamenti illegittimi sia stata “sensibilmente ridimensionata”, si concentra sui mutamenti legislativi, da un lato, e sulla rigidità della Costituzione, dall'altro, riflettendo sul carattere eccezionale della riparazione pecuniaria – poiché non è possibile porre sullo stesso piano reintegrazione e indennizzo –, sulla discrezionalità del legislatore nonché sulla tutela reintegratoria in particolare in riferimento ai licenziamenti collettivi.

Condizioni politico-economiche e tutela giuridica del lavoro

In un tempo non lontano dalla fine della Seconda guerra mondiale il professore Arturo Carlo Jemolo [1] parlava di «modesto rango del giurista, di solito ancorato al suo compito di classificatore, di costruttore di figure, di schemi, di dottrine, le quali inquadrano una realtà, una serie di fatti, che sono l'economia e la lotta politica a creare».

Egli concludeva, in particolare: «I grandi problemi del lavoro non è il giurista a poterli risolvere».

Parole riprese quasi venti anni dopo da Otto Kahn-Freund, Labour and the Law [2], che dice di considerare «la legge come forza secondaria nelle cose umane, e tanto più nelle labour relations». Subito dopo però Jemolo coglieva la non eludibilità, da parte del giurista del lavoro, di alcuni problemi ancor oggi vivi per chi si occupi della materia: l'essenziale necessità di conservare la produttività dell'impresa ma, al tempo stesso, di mirare alla stabilità del lavoro «in un paese di miseria, dove il perdere l'occupazione è un male non confrontabile con quello che è il perdere il posto in altri Stati, in cui il disoccupato è ampiamente protetto ed in cui è facile trovare nuove occupazioni» [3].

Il professore parlava ancora della necessità, per l'imprenditore, di evitare il frequente avvicendamento di dipendenti, ossia di non favorire «condizioni di lavoro idonee a spegnere ogni spirito di collaborazione» in persone «sempre in procinto o almeno in pericolo di dover lasciare il loro posto» [4]. Egli avvertiva poi delle difficoltà, non solo economiche, di costruire una pubblica amministrazione della previdenza e dell'assistenza sociale efficiente e imparziale.

Era la Costituzione, da poco entrata in vigore tra resistenze e difficoltà di attuazione (non si riusciva ancora a far funzionare la Corte costituzionale), a porre questi problemi ai giuristi di quel tempo, ed era naturale che agli albori della costruzione del nuovo Stato sociale nel nostro paese (Jemolo negava espressamente che nel regime politico precedente si volesse, al di là delle forme, realmente costruire uno Stato sociale) un giurista di formazione liberale manifestasse dubbi e timori.

Certo, tutti sanno che ogni forma di protezione del lavoro dipendente, dal collocamento al livello minimo delle retribuzioni, alla prevenzione delle malattie e degli infortuni, e ancora alla tutela contro i licenziamenti illegittimi o arbitrari, costituisce un limite alla libertà di iniziativa economica ed un impaccio per la produttività dell'impresa, ma è pur vero che quella libertà, come tutte le libertà, non può non essere sottoposta a limiti (basta il richiamo all'art. 41, cpv., Cost.), tutto risolvendosi perciò in un problema di bilanciamento.

Tutela contro i licenziamenti illegittimi “sensibilmente ridimensionata”

Il tema dei rimedi e delle sanzioni contro il licenziamento illegittimo «è uno dei principali che negli anni hanno segnato il cammino della giurisdizione del lavoro» [5].

Nella sentenza n. 7/2024 la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate alcune questioni aventi ad oggetto gli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, riconosce la diminuzione, rispetto alla legislazione precedente, di alcune garanzie spettanti al prestatore di lavoro contro i licenziamenti illegittimi, individuali e collettivi.

Essa osserva però che «in epoca più recente sull'ampiezza applicativa della reintegrazione [del lavoratore] nel posto di lavoro, che pareva una conquista irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi, e sull'art. 18 dello statuto dei lavoratori, divenuto argomento divisivo e controverso anche nel dibattito tra le forze politiche e sociali, si sono appuntate per un verso pressioni riformatrici in favore di una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro, coniugate a politiche attive di sostegno, per altro verso resistenze, soprattutto nel mondo sindacale, per conservare la tutela reintegratoria» (par. 4.1 della motivazione).

«L'art. 18 viene novellato e, soprattutto, “frantumato” in plurimi regimi di tutela nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che sino ad allora [ossia all'entrata in vigore della l. 28 giugno 2012 n. 92, precedente e da collegare al d.lgs. impugnato] era stata l'unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi» (par. 4.2). Detta tutela risulta quindi, soprattutto per effetto del d.lgs. cit., «sensibilmente ridimensionata a favore della tutela di tipo compensativo» (par. 4.3; la stessa osservazione è contenuta nella successiva sentenza n. 22/2024, redatta dallo stesso giudice, par. 4).

Il ridimensionamento, nota ancora la sentenza n. 7/2024, è stato ridotto da sentenze della Corte successive al 2015, il cui “effetto congiunto” è stato «quello dell'ampliamento dell'area della tutela reintegratoria» (par. 4.6) [6].

Ballestrero [7] saluta «con soddisfazione lo sforzo che la Corte costituzionale da un lato, e la Cassazione dall'altro, hanno fatto [fino al 2023] per restituire alla reintegrazione lo spazio consentito da un'interpretazione razionale e ragionevole della caotica e spesso maldestra disciplina legale» (567, nt. 8).

Come ora si vedrà meglio, la sentenza n. 7/2024 costituisce un revirement.

Mutamenti della legislazione e rigidità della Costituzione

La Corte osserva che il “punto di svolta” segnato dalla l. n. 92/2012 «modifica radicalmente la logica precedente della reintegrazione», e la medesima osservazione è contenuta nella successiva decisione n. 22/2024 (par. 4.1).

Che l'interpretazione o, se si vuole, la vita del diritto debba mutare col trascorrere del tempo, stante che le condizioni della vita sociale e i valori non possono rimanere immobili, è constatazione ovvia, ciò significando che anche il diritto costituzionale è soggetto a cambiamenti. Il parallelismo tra diritto e lingua è consueto, e allora vale la pena di notare come i linguisti insistano sulle ripercussioni esercitate sui modi espressivi da parte delle nuove conoscenze scientifiche e dai nuovi mezzi tecnici, dalle condizioni economiche e dalle abitudini di vita, dalle costruzioni filosofiche e culturali [8].

I cambiamenti del diritto costituzionale possono essere non tanto rilevanti da richiedere le procedure di revisione previste nell'art. 138 Cost. Sopravvenienze delle leggi ordinarie o della giurisprudenza, costituzionale e comune, o anche di prassi amministrative, non possono essere impedite dal carattere rigido della Carta, la quale vive nella storia. Ma anche le procedure di revisione, così come i mutamenti fisiologici, debbono rimanere entro il nucleo centrale di scelte e valori espressi dal Costituente, pena il sovvertimento e non più la normale evoluzione [9]. Anche in regime di costituzione flessibile, com'era da noi prima del 1948, si negava che il potere legislativo potesse «procedere alla modificazione dello Statuto come se si trattasse di una legge qualsiasi» [10].

Nel nucleo centrale di scelte e valori, appartenente alla nostra Costituzione, sta la tutela del lavoro, compresa tra i “principi fondamentali” (artt. 1-12 Cost.; in particolare artt. 1 e 4 Cost.), mentre la tutela dell'iniziativa economica privata è prevista (art. 41) nel libro terzo della prima parte. In questa inclusione tra i princìpi fondamentali sta la preminenza del lavoro «rispetto agli interessi degli altri fattori della produzione, in quanto mezzo necessario all'esplicarsi della personalità, e, perché tale, in nessun modo surrogabile, riuscendo chiaro che l'indennità di disoccupazione, se provvede al diritto alla vita, lascia insoddisfatta quest'esigenza» [11].

In Atene la nave di Teseo veniva conservata come sacra memoria. Il tempo aveva deteriorato le sue parti, che in tempi diversi erano state sostituite tutte. Ciò malgrado la nave era sempre la stessa poiché sempre lo stesso era il valore ideale che l'animava.

Nella sentenza n. 22/2024, resa sempre nella materia lavoristica, la Corte, verificando la conformità della legge delegata impugnata alla legge di delega, parla (par. 8) di «duplice processo ermeneutico» avente ad oggetto entrambe le leggi e che deve tener conto del «complessivo contesto normativo in cui esse si inseriscono». Non c'è processo di ermeneutica giudiziale che possa non tener conto del contesto, e anzitutto della Costituzione.

Tutela specifica e riparazione pecuniaria

L'espulsione dal posto di lavoro non è solamente un danno economico, poiché può privare l'uomo dei mezzi sufficienti ad assicurare a lui e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost.), ma è anche un grave pregiudizio morale poiché è anche e in primis nella comunità di lavoro che si svolge la personalità dell'individuo (art. 2), secondo le parole di Costantino Mortati poc'anzi richiamate.

Ciò, del resto, è nell'esperienza di ciascuno di noi, lavoratori subordinati o autonomi. Perciò non è possibile porre sullo stesso piano, o stabilire un rapporto regola-eccezione sul piano dei valori, fra reintegrazione e indennizzo, per quanto elevato.

Il principio di effettività della protezione del diritto soggettivo richiede che il titolare consegua attraverso il processo esattamente ciò che gli spetta, così sul piano quantitativo come sul piano qualitativo. L'ordinamento deve assicurare a chi sia stato illegittimamente privato di un bene della vita il recupero del medesimo bene; questo solo eccezionalmente, per impossibilità o per ragioni superiori, può essere sostituito dall'equivalente in denaro.

La formulazione più autorevole di questo principio si trova nel diritto processuale. Secondo Giuseppe Chiovenda «il processo deve dare, per quanto è possibile praticamente, a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha il diritto di conseguire» [12].

Scopi asseriti dal Legislatore

Secondo la sentenza n. 7/2024 l'«ambito applicativo della reintegrazione», dopo la legislazione degli anni compresi tra il 1970 e il 1990, «è risultato ampliato sia ad opera della giurisprudenza, che ne ha predicato la “forza espansiva”, sia, per i licenziamenti collettivi, dall'art. 24 della l. n. 223 del 1991».

La sentenza parla tuttavia, con riferimento al tempo attuale, di «istanze di nuova flessibilità» (par. 4.2) e aggiunge che le riforme legislative intervenute fra il 2012 e il 2015 mirano «ad incentivare l'occupazione, soprattutto giovanile e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della creazione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo indeterminato maggiormente “attrattiva” per i datori di lavoro in ragione sia della limitazione dell'area di applicazione della tutela reintegratoria sia della calcolabilità dell'indennizzo compensativo del licenziamento illegittimo» (par. 4.4 e 6.2).

La sentenza definisce ancora come rispondente «al canone di ragionevolezza modulare le conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato al fine di rafforzare le opportunità d'ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca d'occupazione» (par. 16.2). Giudizio positivo viene pertanto espresso sulla “tutela meramente monetaria” contro il detto licenziamento.

Tutte queste affermazioni corrispondono esattamente agli intenti dichiarati dal legislatore nell'art. 1 della l. n. 92/2012: «[...] misure ed interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica ed alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione».

Si può notare anche la corrispondenza con il preambolo del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il cui scopo, dichiarato nello stesso preambolo, è di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo».

La sentenza in tal modo “sposa” le dichiarazioni di intenti dei legislatori del 2012 e del 2015 [13].

E d'altra parte non crediamo agevole – né ci risulta essere stato neppure tentato – l'accertamento del nesso di causalità fra l'aumento dell'occupazione, di cui qualche volta si legge sui giornali, e l'entrata in vigore dei due provvedimenti legislativi.

Nell'articolo qui citato in apertura il professore Jemolo narra di un amico armatore che aveva dato la bandiera panamense alle sue navi per non essere costretto dall'ufficio di collocamento a rinnovare periodicamente il personale e così a permettere l'avvicendamento degli occupati. Questa costrizione avrebbe comportato la rinuncia al suo vecchio personale, «ottimo ed affezionatissimo» [14].

La saggezza dell'antico Maestro porta dunque a negare che il frequente rinnovo dei dipendenti, oggi asseritamente facilitato dall'attenuazione della sanzione per i licenziamenti illegittimi, giovi alla prosperità delle imprese (per la verità il Professore non diceva poi, quanto a tutela del lavoro, se i dipendenti fossero stati contenti del cambio di bandiera).

Discrezionalità del legislatore, precetti non vincolanti e sindacato giurisdizionale

Affermato che la tutela meramente monetaria, assicurata dalle norme impugnate, è «improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza», la Corte aggiunge che su questo punto «non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore» (par. 18.2). Verissimo. Siamo però al problema, ormai antico, del controllo sulla discrezionalità – a qualunque soggetto, pubblico o privato, essa sia attribuita – da parte della giurisdizione.

Per quanto concerne la giurisdizione costituzionale, l'art. 28 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (legge sul funzionamento della Corte), evocato espressamente nel par. 14 della sentenza, vieta ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento.

Non è tuttavia il caso di dilungarsi qui sull'ampiezza del controllo sulle scelte del legislatore e delle valutazioni espresse spesso dalla Corte nelle sentenze additive o manipolative. Basta il richiamo alle parole di Sabino Cassese [15], secondo cui «la contrapposizione giustizia costituzionale-politica (e democrazia) è largamente sopravvalutata» e «nessun potere discrezionale è senza limiti». In realtà il self-restraint della Corte costituzionale di fronte alla discrezionalità del legislatore è estremamente variabile [16]. Si può dire che nel caso qui esaminato esso è stato esercitato in misura notevole.

Oltre all'impossibilità di sindacare la discrezionalità del legislatore la Corte esclude, per la verità in poche parole (parr. 13.2, 14 e 29), l'efficacia vincolante, per i giudici nazionali, delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali. Esclusione da nessuno posta in dubbio, ma che per la verità richiederebbe una motivazione più ampia nei casi in cui, come quello qui in esame, l'utilizzabilità di quelle decisioni anche solo come precedenti venga specificamente negata. Riconoscere un'autorità, ma ritenersene non vincolati nel caso di specie, aggrava l'onere dell'argomentazione. Sembrerebbe altrimenti di essere tornati all'epoca delle “norme programmatiche”, delle quali il giudice poteva non preoccuparsi.

Licenziamenti collettivi e giustizia distributiva nel diritto privato

La sentenza n. 7/2024 osserva ancora (par. 4.5) come il d.lgs. n. 23/2015 abbia soppresso la tutela reintegratoria anche quanto ai licenziamenti collettivi, prevedendo quella indennitaria nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, criteri legali o previsti da accordo sindacale.

La dichiarazione di non fondatezza della relativa questione, quanto alla “complessiva adeguatezza” della tutela indennitaria, è motivata dalla Corte ancora una volta con il richiamo a «scelte di politica sociale rientranti nella discrezionalità del legislatore». Basta una sufficiente adeguatezza dei rimedi, anche in considerazione delle diverse fasi storiche (par. 14).

Ma violazione delle regole disciplinanti una procedura concorsuale o più semplicemente una valutazione comparativa, vale a dire l'attribuzione del bene conteso a persona a cui non spetta, e la correlativa negazione a chi ha diritto, non può che produrre un rimedio reale, vale a dire l'annullamento del provvedimento finale e, se necessario, il rinnovo della procedura stessa. La tutela puramente risarcitoria non corrisponde a giustizia distributiva.

In tempi ormai lontani Pietro Rescigno [17] poneva la questione generale della parità di trattamento nel diritto privato e delle conseguenze della violazione del relativo principio, allora affermato in alcune opere della dottrina tedesca. La questione riguardava l'organizzazione di alcuni gruppi sociali o “comunità intermedie” (intermedie fra lo Stato e l'individuo) e, tra queste, l'impresa, nella quale il singolo entrava quale prestatore di lavoro [18]. Si aveva una violazione del principio di eguaglianza nel diritto privato quando l'appartenente ad una comunità intermedia non fosse trattato secondo criteri di giustizia distributiva rispetto agli altri appartenenti [19] (suum unicuique tribuere).

«Il rapporto di lavoro», scriveva Pietro Rescigno [20], «costituisce, assieme alla materia delle associazioni, la zona più sensibile al principio di eguaglianza»: condizione per l'applicazione di questo principio era la dipendenza dal medesimo imprenditore [21], tenuto al pari trattamento ossia alla giustificazione delle disparità. Fondamento del principio era dunque il «vincolo comunitario» [22].

Che il diritto del lavoro, e quindi i diritti soggettivi dei lavoratori, siano legati al tema delle comunità intermedie (impresa e sindacati) è ancor oggi segnalato dalla dottrina francese, che parla di «rapport communautaire, qui prend nassaince par le seul fait de l'int égration du travailleur dans la communaut é de travail» [23].

Qui è necessario aggiungere che comunità all'interno della quale debba valere la parità di trattamento può essere considerata non solo quella dotata di una più o meno complessa organizzazione ma anche qualsiasi insieme di individui i cui interessi e le cui attività debbano essere coordinati e contemperati per la realizzazione di uno scopo comune. Esistono così la comunità dei creditori, i quali «hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore» (art. 2741 c.c.) anche in caso di crisi dell'impresa e di conseguente liquidazione, oppure la comunità dei candidati in sede di concorso per l'assunzione al lavoro, ecc.

Così agli autori tedeschi come a Rescigno non sembrava agevole trovare «una norma specifica ed esplicita che (imponesse) la parità di trattamento» (Gleichbehandlung), ma la successiva e progressiva costituzionalizzazione del diritto privato dissipa oggi i dubbi nel senso della riconduzione del principio all'art. 3 Cost. La sanzione appariva per eccellenza «l'inefficacia che colpisce l'atto compiuto in violazione della Gleichbehandlung» ossia la rimozione dell'atto viziato [24]. Ciò vale non solo quando si tratti di licenziamento collettivo ma anche quando debba essere deciso un licenziamento “plurimo”.

Quando il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 1 della l. 15 luglio 1966, n. 604) consista nella soppressione di un posto di lavoro nell'ambito di una pluralità di posizioni lavorative fungibili, ossia omogenee, il datore deve individuare il soggetto da licenziare in base al criterio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). L'art. 5 l. 23 luglio 1991, n. 223 sui licenziamenti collettivi offre il modello idoneo ma non esclude altri criteri, come quello del lavoratore che comporti maggiori costi o che percepisca altri redditi o che abbia un minore rendimento lavorativo [25].

Si tratta di elementari procedure concorsuali ed è difficile negare che i lavoratori coinvolti debbano fruire delle garanzie costituzionali di base e più precisamente che vadano trattati secondo il terzo dei praecepta iuris di Ulpiano. Pena l'annullamento dell'atto viziato e il rinnovo del procedimento di selezione dei lavoratori da licenziare.

Sostituire una somma di denaro alla tutela di costoro è come dire al soggetto illegittimamente espulso, o al vincitore di un concorso per l'assunzione, che il posto sembra spettare a lui, e non all'altro concorrente, e che tuttavia egli deve accontentarsi di una somma di denaro perché ciò giova alla produttività dell'impresa. Forse è esagerato volgere la vicenda in tragedia evocando Antigone e Creonte, ma dubitiamo che quel discorso possa sembrare rispettoso della dignità personale protetta dall'art. 41, cpv., Cost.

Sul tema, si rimanda al Focus di R. COSIO, Violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nei licenziamenti collettivi: per la Consulta è legittima la mera tutela indennitaria prevista dal Jobs act

Note

[1] A.C. JEMOLO, All'indomani di un congresso di diritto del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 433.

[2] O. KAHN-FREUND, Labour and the Law, 1972, trad. it. di G. ZANGARI, Il lavoro e la legge, Milano, 1974, 7.

[3] A.C. JEMOLO, All'indomani di un congresso, cit., 436.

[4] A.C. JEMOLO, loc. ult. cit.

[5] I. PAGNI, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. dir., Annali, X, 2017, 370.

[6] Osservazione già contenuta in B. CARUSO, Il rimedio della reintegra come regola o come eccezione? La Cassazione sui licenziamenti disciplinari nel cono d'ombra delle decisioni della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2022, 310.

[7] M.V. BALLESTRERO, La disciplina dei licenziamenti. Quale tecnica giuridica per quale disegno politico, in Labor, 2023, 563.

[8] E. LOMBARDI VALLAURI, La tutela delle lingue, in L. LOMBARDI VALLAURI (a cura di), I meritevoli di tutela, Milano, 1990, 386.

[9] A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto, Bologna-Roma, 2011, 63.

[10] G.B. UGO, Statuto, in Dig. it., XXII, II, 1895, 332.

[11] C. MORTATI, Principi fondamentali, in G. BRANCA (diretto da), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 16-17.

[12] G. CHIOVENDA, Sulla perpetuatio iurisdictionis, in ID., Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, 273. V. anche M. BARBIERI, F. MACARIO, G. TRISORIO LIUZZI (a cura di), La tutela in forma specifica dei diritti nel rapporto di lavoro, Atti del convegno di Foggia, 14-15 novembre 2003, Milano, 2004, pt. III, nonché I. PAGNI, Tutela specifica e tutela per equivalente, Milano, 2004, cap. II; e ID., Effettività della tutela giurisdizionale, cit., parr. 3 e 5.

[13] Sulla distinzione tra (solo eventuale) “motivazione formale”, talvolta propagandistica e demagogica o declamatoria, e motivazione “sostanziale” della legge, vale a dire sua vera ratio, v. S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, Padova, 2008, 33.

[14] A.C. JEMOLO, All'indomani di un congresso, cit., 436.

[15] S. CASSESE, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, Bologna, 2015, 15 e 185.

[16] V., da ultimo, R. PINARDI, Governare il tempo [e i suoi effetti]. La sentenza di accoglimento e la più recente giurisprudenza costituzionale, in Quad. cost., 2022, passim.

[17] P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, 1959; ID., Ancora sul principio di eguaglianza nel diritto privato, 1960, e ID., Riassunzione di lavoratori licenziati e parità di trattamento, 1960, tutti in Persona e comunità, Bologna (1966).

[18] P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza, cit., 337.

[19] P. RESCIGNO, op. ult. cit., 339.

[20] P. RESCIGNO, op. ult. cit., 343.

[21] P. RESCIGNO, op. ult. cit., 345.

[22] P. RESCIGNO, op. ult. cit., 354, e ID., Ancora sul principio, cit., 370. Più recentemente, G. SIGISMONDI, Eccesso di potere e clausole generali, Napoli, 2012, 193.

[23] A. SUPIOT, Critique du droit de travail, Parigi, 2015, 18.

[24] P. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza, cit., 428 e 431.

[25] Cass. 7 dicembre 2016, n. 25192; Cass. 21 novembre 2001, n. 14663, in Dir. lav., 2002, II, 23, con nota di F.M. MANTOVANI, Licenziamenti plurindividuali: scelta fra più lavoratori e regole di buona fede e correttezza. In dottrina ancora E. GRAGNOLI, La riduzione del personale fra licenziamenti individuali e collettivi, Padova, 2006, 215-219.