Il diritto all’assegno divorzile e gli elementi necessari alla prova in giudizio
27 Marzo 2024
Massima L'assegno divorzile può certo essere funzionale a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali al fine di contribuire ai bisogni della famiglia. Il che non significa che, sempre in presenza della precondizione di una rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale, l'assegno non possa essere riconosciuto, a prescindere dalla concordata rinuncia a occasioni professionali, anche nelle ipotesi di conduzione univoca della vita familiare, la quale (salvo prova contraria) esprime una scelta comune, anche se tacita, compiuta nei fatti dai coniugi Il caso La vicenda trae origine da un’iniziale sentenza (74/2021) con quale Il Tribunale di Piacenza dichiarava lo scioglimento del matrimonio disponendo a carico di uno dei due coniugi l’obbligo di versare mensilmente all’altro un assegno nella misura di Euro 350/00 oltre all’obbligo di contribuzione al mantenimento del figlio maggiorenne ma non economicamente autosufficiente per ulteriori Euro 300/00 mensili. La sentenza, impugnata dinanzi alla Corte d’Appello Bologna, confermava la valutazione del primo giudice quanto ai presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile, essendosi tenuto conto dello squilibrio reddituale esistente fra i coniugi, della durata del rapporto matrimoniale e del contributo alla famiglia che il coniuge beneficiario dell’assegno aveva fornito con la propria attività domestica e di accudimento prevalente della prole. Seguiva il ricorso in Cassazione che si chiudeva appunto con l’ordinanza 4328/2024. La questione Ai fini dell'assegno divorzile è necessario provare il nesso causale tra i sacrifici compiuti e l'effettiva necessità dell'assegno. Le soluzioni giuridiche La Corte di cassazione, nell'ordinanza 4328/2024, procede proprio a partire dall'esame del motivo di gravame mediante il quale, il Ricorrente, espressamente riferendosi alla Cassazione SU 18287/2018, aveva sostenuto che la Corte d'Appello avesse omesso di considerare come lo squilibrio reddituale post divorzio dovesse derivare da scelte condivise tra i coniugi nell'interesse della famiglia; sempre la Corte territoriale avrebbe omesso «di valutare una serie di elementi decisivi, quali i procedimenti penali pendenti a carico della B.B., che ben descrivevano la personalità della donna, l'ininterrotta attività lavorativa con mansioni di bidella, l'accantonamento di somme presso un istituto di credito estero, la mancata produzione in giudizio, come era stato ordinato ex art 210 c.p.c., delle buste paga e del nuovo contratto di lavoro, il fatto che il A.A. aveva acquistato prima del matrimonio la casa poi destinata ad abitazione familiare ed era comproprietario, insieme al fratello, di un immobile in G non produttivo di reddito e l'interruzione dei rapporti fra i coniugi a seguito della nascita del figlio; la mancata considerazione di questa pluralità di circostanze renderebbe - in tesi - la motivazione della decisione impugnata soltanto apparente». Di contrario avviso la Cassazione nell'ordinanza in commento «in ragione del contributo dato alla famiglia dalla B.B. con la propria attività domestica e di accudimento prevalente della prole (oltre che con l'impegno profuso anche svolgendo attività lavorativa esterna), del fatto che questa condotta aveva consentito al marito di dedicarsi appieno e con soddisfazione economica alla propria attività lavorativa (non escludendosi per questo che anch'egli si fosse potuto interessare al figlio e alle attività domestiche) e della durata ventennale del matrimonio (v. pag. 6 della decisione impugnata). Simili valutazioni non si prestano a censure». La soluzione giurisprudenziale passa attraverso una ricostruzione del contenuto della citata norma ex art. 5 l. 898/1970 (così come interpretata ed applicata dalla Cassazione SU 18287/2018), nella cui prima parte sono accorpati i criteri determinativi, da un lato, delle “condizioni dei coniugi” e del “reddito di entrambi” (relativi al criterio assistenziale), dall'altro, del “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune” (attinente, questo invece, al criterio compensativo) e, infine, le “ragioni della decisione” (relative al criterio risarcitorio) - di cui il giudice deve “tenere conto” ossia che deve, in altre parole, mettere in relazione alla durata del matrimonio. Nella complessità del loro congiunto operare, nell'interazione gli uni con gli altri, questi indicatori prefigurano una funzione, oltre che assistenziale, anche perequativa e riequilibratrice, propria dell'assegno di divorzio, con la conseguente attuazione del principio di solidarietà alla base del diritto del c.d. coniuge debole. A sostengo di questa ricostruzione viene richiamata la Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, sent., 19 dicembre 2023, n. 35434) secondo la quale «l'autoresponsabilità - cui nella sentenza della Prima civile del 2017 si era dato centrale rilievo - deve infatti percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all'inizio del matrimonio (o dell'unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno; alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l'autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l'autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un'importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole». Spiega ancora il Giudice nella motivazione dell'ordinanza 4328/2024 come l'assegno sia funzionale a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio di «realistiche prospettive professionali – reddituali agli impegni casalinghi, così da ritrovarsi, a matrimonio finito, in una condizione menomata da questa scelta e diversa da quella a cui tale coniuge avrebbe potuto ambire». Come ricordato nella massima l'assegno può essere riconosciuto, a prescindere dalla concordata rinuncia a occasioni professionali, anche nelle ipotesi di conduzione univoca della vita familiare, la quale (salvo prova contraria) esprime una scelta comune, anche laddove questa scelta sia maturata in modo tacito, «nei fatti dai coniugi». L'art. 29 della Costituzione stabilisce che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». L'unità famigliare si declina ed articola nel quotidiano riparto dei compiti, che procede dalle posizioni di partenza dei coniugi i quali, specie in presenza dei figli, alternano una disponibilità che deve altresì conciliarsi con gli impegni lavorativi e le incombenze professionali. Laddove e nella misura in cui dette incombenze non possano essere supportate né delegate, magari in ragione di una disponibilità economica inferiore al costo derivante dall'impiego di soggetti terzi o, più semplicemente, per causa di una rete famigliare insufficiente o comunque dislocata in modo inadeguato alle esigenze di crescita dei figli, sono le risorse interne alla coppia coniugale ad essere impegnate. Si arriva quindi ad eleggere la maggiore presenza in casa anziché al lavoro, magari nella convinzione che l'auspicata (e non sempre realizzata) transitorietà di questa scelta potrà tradursi in un beneficio per l'intera comunità famigliare. A supporto di questa scelta possono porsi rinunce permanenti ad opportunità professionali o a guadagni connessi ad una presenza full time al lavoro. E questo genere di scelte entra a far parte di un menage famigliare che su di esse si struttura, con conseguenze plausibilmente permanenti, in senso opposto e per entrambi i coniugi; una decisione di part time nel lavoro dipendente o anche di rinuncia alla prosecuzione di una libera professione pesano nel percorso umano e professionale di chi, di comune accordo con il coniuge, le adotta per riversare nel nucleo coniugale e, più in generale nella famiglia, le energie di tempo e di efficace presenza in ambito domestico che da quelle scelte siano potute originare. Certamente questo genere di scelte genera in ambito famigliare un beneficio, condiviso e vissuto, anche da chi ne è stato l'autore, almeno fintanto che l'unione coniugale resta tale, gravando invece nell'esperienza di vita individuale quando l'unione si dissolve e cresce la necessità di ricostruire un'esistenza che conta proprio sulle risorse a capacità individuali di chi sia entrato in una condizione della separazione o del divorzio, nella quale non è evidentemente possibile contare sulla solidarietà e gratuità rinvenibili in strutture relazionali più articolate e fisiologicamente interdipendenti, quali appunto le comunità famigliari. Per queste ragioni il momento della separazione e, a maggior ragione, del definitivo scioglimento del vincolo coniugale, evidenziano la divaricazione apertasi tra i percorsi, umani e professionali, seguiti proprio in costanza di matrimonio, non necessariamente rivedibili e con conseguenze non sempre reversibili. Particolare non indifferente, proprio l'irreversibilità delle scelte adottate, che è intuitivamente in rapporto di diretta proporzionalità con la durata del matrimonio, nella quale sacrifici e benefici si sono andati radicalizzando. La richiamata Cassazione SU 18287/2018 recitava a questo proposito che «L'intrinseca relatività del criterio dell'adeguatezza dei mezzi e l'esigenza di pervenire ad un giudizio comparativo desumibile proprio dalla scelta legislativa, non casuale, di questo peculiare parametro inducono ad un'esegesi dell'art. 5, comma 6, diversa da quella degli orientamenti passati. Il fondamento costituzionale dei criteri indicati nell'incipit della norma conduce ad una valutazione concreta ed effettiva dell'adeguatezza dei mezzi e dell'incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da accertarsi anche utilizzando i poteri istruttori officiosi attribuiti espressamente al giudice della famiglia a questo specifico scopo. Tale verifica è da collegare causalmente alla valutazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, al fine di accertare se l'eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all'atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell'altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all'età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro». Giova ricordare che come la S.C. (Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2023, n. 35385) abbia cassato con rinvio una sentenza della Corte d'Appello di Bologna stabilendo che nella rivalutazione delle condizioni per l'attribuzione dell'assegno divorzile debba essere computato anche il periodo di convivenza prematrimoniale. E, come ricorda l'ordinanza 4328/2024, una definizione dei ruoli come quella generata dalla comune decisione dei coniugi, uno dei quali sacrifichi, in tutto o in parte, il benessere economico potenzialmente derivante dalle opportunità lavorative lasciate, rende necessario che nella fase post coniugale «sia assicurato, in funzione perequativa, un adeguato riconoscimento del contributo (esclusivo o prevalente) fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge (anche sotto forma di risparmio), come espressamente prevede uno dei criteri pari ordinati previsti dall'art. 5, comma 6, l. 898/1970». Nel caso di specie la Corte territoriale aveva in effetti accertato come uno dei due coniugi si fosse effettivamente e «prevalentemente alla cura della casa e del figlio , consentendo al marito (ferroviere capotreno) di svolgere la propria attività professionale con orari anche notturni e viaggi lontani e di raggiungere così livelli professionali e reddituali di tutto rispetto». Era rimasta altresì accertata «L'assunzione su di sé, da parte della B.B., del peso prevalente della cura della casa e del figlio nel corso della vita matrimoniale, così da consentire all'altro coniuge di dedicarsi alla propria carriera e di godere dei correlati vantaggi patrimoniali, comporta ora la necessità, in presenza di una rilevante disparità nella situazione patrimoniale degli ex coniugi, di un riequilibrio delle loro posizioni attraverso il riconoscimento di un assegno divorzile che assolva la funzione perequativa prevista dall'art. 5, comma 6, l. 898/1970». Osservazioni La citata Cassazione a Sezioni Unite 18287 del 2018 motivava in ordine al contributo del coniuge alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge che «la parte richiedente deve fornire la prova con ogni mezzo anche mediante presunzioni. Del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria». Un ragionamento in piena coerenza con il principio sancito dall'art. 29 della Costituzione di uguaglianza morale e giuridica di entrambi i coniugi. La pronuncia certamente si segnala per avere fatto riferimento espresso alla possibilità di riconoscere quale fondamento del diritto all'assegno anche un accordo tacito (purché provato) tra i coniugi, ma considerarla semplicemente innovativa ne ridurrebbe il pregio che sta proprio nella garanzia, rimarcata ed argomentata dal Giudice nell'ordinanza 4328/2024, di necessaria effettività, sul piano della prova, della tutela assicurata dalla legge. Se è innegabile che, come ricordato dalla Cassazione 18287/2018, può farsi ricorso a qualsiasi mezzo di prova, d'altra parte questa possibilità sarebbe solo teorica se un accordo tra i coniugi si assumesse idoneo e valido a fondare il diritto all'assegno solo ove espresso, accordo rispetto al quale, peraltro, in questo caso a nulla servirebbero le presunzioni. Queste ultime sono invece particolarmente utili a provare il diritto del coniuge nel contesto nel quale il diritto stesso prende forma: è intuitivo infatti come la decisione assunta dai coniugi di contribuire al benessere ed alla crescita della famiglia, mediante un contributo che passa attraverso il sacrificio di uno di essi, avvenga plasticamente in un contesto relazionale che non prende neppure in minima considerazione l'ipotesi di dovere, in futuro, provare l'accordo stesso e, quindi, con ogni probabilità avviene in forma tacita proprio perché espressione dell'armonia, talmente forte tra i coniugi, da portarli a condividere il sacrificio di uno di essi evidentemente ritenuto conveniente ad entrambi. L'interpretazione fornita dalla Cassazione, nell'ordinanza che si è qui analizzata, armonizza il diritto processuale, nella sua effettività ed efficacia, con la prospettiva sostanziale, attraverso un corretto riequilibrio di riparto dell'onere della prova, adesso in piena sintonia anche con il principio di vicinanza della stessa. |