Documento nativo digitale e scansione di originale cartaceo: i dubbi dopo la riforma Cartabia

03 Aprile 2024

Documento nativo digitale e analogico scansionato sono equivalenti?

In tempi di digitalizzazione imperante, è lecito chiedersi – specialmente quando per decenni si è operato in altro modo – cosa si debba intendere per “documento informatico”. La domanda potrebbe apparire oziosa, eppure la recente prassi quotidiana ci dimostra che non lo è affatto: complice una contorta serie di richiami normativi anche a fonti secondarie, la nozione di documento informatico o digitale è rimasta, sotto certi aspetti, nebulosa.

La laconicità definitoria ha generato angosciosi interrogativi concernenti la forma che devono assumere gli atti del processo penale per non incorrere nell'inammissibilità o in altre sanzioni processuali. Leggendo le norme del codice di rito, troviamo – quale caposaldo normativo cui fare riferimento – l'art. 110 c.p.p., rubricato “forma degli atti”, parzialmente riscritto dalla riforma Cartabia. In esso si legge che, quando un atto processuale assume forma scritta, esso deve essere confezionato e conservato “in forma di documento informatico”. Al comma secondo si specifica meglio il concetto: i documenti informatici devono rispettare la normativa anche regolamentare concernente la redazione, sottoscrizione, conservazione, ecc. E così si è costretti a fare necessariamente un passo fuori dal codice, per addentrarsi nel viluppo delle fonti secondarie, spesso di non immediato reperimento. A fare da pendant alle norme appena analizzate è l'art. 111 del codice di rito, che disciplina la sottoscrizione e apposizione della data degli atti. L'articolo appena citato, al comma 2-bis (naturalmente introdotto dalla riforma Cartabia, come può desumersi dalla sua numerazione), specifica che l'atto redatto in forma di documento informatico è sottoscritto digitalmente o con altra firma elettronica qualificata, nel rispetto della normativa – anche regolamentare – in materia.

Poi, il codice si ferma.

E iniziano i dubbi.

Tutti sappiamo che per “documento informatico” rigorosamente inteso ci si riferisce al file “nativo digitale”, ossia che viene sviluppato con appositi programmi di videoscrittura, trasformato in .pdf e sottoscritto digitalmente. Ma cosa succede nel caso in cui si stampa un documento cartaceo, lo si firma a penna, lo si scansiona e vi si appone la sottoscrizione digitale? Questa modalità di confezionamento del documento è altrettanto valida rispetto a quella “ortodossa”, oppure determina l'insorgenza di sanzioni processuali di qualsiasi tipo? Teniamo conto che, oggi più di prima, lo spauracchio con il quale gli avvocati sono costretti a convivere proprio a causa delle novità normative è costituito dall'inammissibilità. Una volta tanto, la questione ha ottenuto una rilassante soluzione dalla Cassazione, che ha considerato validamente formato un documento nato in formato analogico – quindi, in parole povere, stampato su carta - e divenuto informatico soltanto in seguito alla sua scansione e sottoscrizione digitale. La Suprema Corte, sez. III penale, con la sentenza del 19 gennaio 2023, n. 5744, ha affermato il principio secondo cui non può essere dichiarato inammissibile un atto di impugnazione (nella specie, un atto di appello) creato mediante un programma di videoscrittura, stampato, scansionato e sottoscritto digitalmente. Ciò perché la sanzione processuale della inammissibilità (quindi la causa di invalidità dell'atto) deriva esclusivamente dalla mancanza della firma digitale e non da altre eventuali irregolarità nel confezionamento dell'atto stesso. È soltanto la carenza di sottoscrizione digitale, quindi, a condizionare la validità dell'atto e non la sua “forma” originaria (se analogica o digitale nativa).

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