Licenziamento per superamento del periodo di comporto: legittima la richiesta di ferie del lavoratore per interromperne il decorso

04 Aprile 2024

La S.C. ancora una volta si pronuncia sull'argomento del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Diversamente da altre recenti occasioni, la Corte conferma il consolidato proprio orientamento, precisandone peraltro l'essenza con riferimento al caso delle ferie attribuite in prosecuzione della malattia e non seguite dal rientro in servizio bensì dall'inizio di una nuova malattia.

MASSIMA

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, se il lavoratore, non potendo beneficiare di istituti contrattuali alternativi, richiede al datore di lavoro un periodo di ferie dal primo giorno lavorativo successivo alla cessazione della documentata assenza per malattia esprime la volontà di assentarsi per un titolo diverso da quello in base al quale fino ad allora era rimasto assente e, pertanto, l'autorizzazione delle ferie stesse interrompe la maturazione del periodo di comporto alla scadenza della certificazione medica.

IL CASO

Un lavoratore, nonostante avesse ottenuto cinque giorni di ferie allo scadere di un'astensione dal lavoro per malattia, viene due anni dopo licenziato vedendosi computati nel periodo di comporto, con efficacia determinante, tali cinque giorni di assenza.

Un lavoratore dipendente con contratto a tempo indeterminato, al termine di un periodo di malattia,  chiede al proprio datore di lavoro cinque giorni di ferie al fine di interrompere il periodo di comporto.

I cinque giorni di ferie, attribuiti, scadono in prossimità della chiusura aziendale per la pausa estiva, terminata la quale il lavoratore inizia un nuovo periodo di malattia.

A distanza di due anni, il datore di lavoro, riconsiderando sulla base delle previsioni del contratto collettivo tutti i giorni di assenza del lavoratore per malattia relativi al triennio antecedente l'ultimo episodio morboso, gli intima il licenziamento reputando che nell'arco di tale periodo il dipendente abbia superato il limite temporale massimo di conservazione del posto.

Il lavoratore impugna il recesso in sede giudiziale.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello accolgono l'impugnazione, dichiarando illegittimo il licenziamento sul rilievo che il datore di lavoro aveva erroneamente computato nel periodo di comporto i predetti cinque giorni di assenza, invece riferibili a ferie.

Inoltre, i giudici ritengono contraria a buona fede e correttezza la risposta fornita dall'azienda alla preventiva richiesta di informazioni formulata dal lavoratore circa i termini di compimento del comporto, posto che la risposta stessa conteneva indicazioni non corrette e tali da indurre in errore il lavoratore nel valutare compiutamente la propria situazione.

Il datore di lavoro ricorre per cassazione, sulla base di due motivi.

Con il primo, invoca l'applicazione del costante principio giurisprudenziale secondo il quale nel caso in cui tra la fine di una malattia e l'inizio di un'altra vi siano dei giorni festivi o comunque non lavorati si debba presumere che la malattia sia stata continuativa.

Con il secondo motivo di ricorso, il datore di lavoro, nel difendere la propria risposta alla richiesta di informazioni del lavoratore, ne sostiene l'esattezza e correttezza precisando che, pur nella diversità del periodo preso a riferimento rispetto a quello poi considerato all'atto del licenziamento, essa offriva al lavoratore tutti gli elementi per poter valutare in concreto il decorso ed il compimento del comporto.

LA QUESTIONE

Il periodo di comporto ed i suoi principi regolatori.

Quanto all'istituto del periodo di comporto, ricordiamo che esso è rappresentato dall'arco temporale durante il quale il dipendente, assente per malattia o infortunio, ha diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Come noto, decorso il periodo stesso, l'imprenditore ha per converso la facoltà di recedere dal contratto, come previsto dall'art. 2110, comma 2, c.c.

A determinare il periodo massimo di malattia o infortunio sono i contratti collettivi nazionali, che in alcuni casi escludono dal relativo computo particolari patologie, in ragione della loro natura o gravità.

Va inoltre evidenziato che, quanto allo spatium deliberandi a disposizione del datore di lavoro, il licenziamento del lavoratore rientrato in servizio dopo il superamento del comporto, deve intervenire in tempi sostanzialmente brevi. La prolungata inerzia può essere interpretata come rinuncia implicita  ad esercitare il diritto di recesso (cfr. Cass n.25535/2018; Cass. n. 7037/2011).

Dal punto di vista sistematico, il licenziamento per superamento del comporto rappresenta una fattispecie autonoma di recesso: diversa tanto dal licenziamento per motivo oggettivo quanto dal licenziamento per giusta causa.

Una fattispecie nella quale, essendo il limite di tollerabilità dell'assenza predeterminato per legge (cit. art.2110 c.c.), il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso (cfr. Cass. n. 1861/2010; conf., Cass. n.19676/2005).

Con riguardo alla motivazione, in applicazione dell'art. 2 legge n. 604/1966, si esclude che all'atto del licenziamento il datore di lavoro debba specificare i singoli giorni di assenza, dovendosi comunque nel provvedimento espulsivo indicare il numero complessivo di assenze per malattia verificatesi in un dato periodo, in modo da consentire al lavoratore un'adeguata difesa (Cass. 6/3/2023, n. 6336; Cass. 23.8.2018, n. 21042).

Si è ad ogni modo ritenuto che, nel caso che il comporto contrattuale venga superato a seguito di plurime e frammentate assenze, valutate per sommatoria, l'indicazione specifica delle medesime è necessaria, vista la maggiore difficoltà nel calcolo per il lavoratore (Cass. 27/2/2019, n. 5752).

Sul criterio di computo, la giurisprudenza precisa che, in mancanza di diverse disposizioni del contratto collettivo, devono essere inclusi nel calcolo anche i giorni festivi (Cass. n. 29317/2008) o comunque non lavorativi (Cass. n. 20106/2014; Cass. n. 13816/2000) che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico; operando, in difetto di prova contraria, una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta.

La prova idonea a smentire tale presunzione può essere data soltanto attraverso la dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, considerato che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio (Cass. n.21385/2004).

Non essendo il licenziamento in questione di natura disciplinare, resta escluso l'obbligo di rispettare la procedura di cui all'art. 7 Stat. lav. (Cass. 10.1.2008, n. 278).

Sul versante processuale, ove il lavoratore non contesti in giudizio le assenze per malattia che gli sono state conteggiate, esse devono ritenersi provate (Cass. 28.9.2018, n. 23596).

Il licenziamento intimato in violazione delle norme sul periodo di comporto è nullo per violazione di norma imperativa (art. 2110, comma 2, c.c.)  e le relative conseguenze si applicano a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (Cass. SS.UU. 16.9.2022 n. 27334;  Cass. 18.11.2014, n. 24525Cass. SS.UU. 22.5.2018, n. 12568).

Di recente. nel panorama giurisprudenziale si rinviene una significativa rivisitazione dell'istituto, indirizzata ad una maggiore tutela del lavoratore disabile.

In particolare, la S.C. (Cass. 31/3/2023, n. 9095; conf. Cass. 21/12/2023, n. 35747) così come vari giudici di merito (Trib. Mantova, 22/9/2021, n.126; App. Genova, 21/7/2021, n. 211; Trib. Mantova 18/1/2018, n. 160; Trib. Bologna 15/4/2014)  hanno ritenuto che l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto al lavoratore con disabilità costituisca discriminazione indiretta.

Ciò in quanto la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità di tali lavoratori, proprio in conseguenza della loro disabilità, muterebbe il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in ragione della posizione di svantaggio.

Secondo tale orientamento, va pertanto riconosciuto un periodo di comporto superiore. Non precisandosi, però, la misura del medesimo.

Le citate pronunce altresì rimarcano che la discriminazione opera in modo oggettivo: non potendo il datore di lavoro eccepire la propria mancata conoscenza del motivo delle assenze, derivante dal fatto che i certificati di prognosi indirizzati all'azienda, per definizione, non indicano la specifica malattia all'origine dell'astensione dal lavoro.

A fronte delle evidenziate incongruenze, altra parte della giurisprudenza di merito (App. Palermo, 14/2/2022, n. 111; Trib. Lodi, 12/9/2022, n..19; Trib. Vicenza, 27/4/2022, n.181) si è quindi espressa in senso opposto: confermando il tradizionale orientamento secondo il quale la mera riferibilità dell'assenza alla patologia che è causa dell'invalidità del dipendente non è condizione sufficiente per escludere dal computo del comporto le relative giornate. 

In tale prospettiva, la scelta dei contratti collettivi di includere nel comporto (anche) i giorni di assenza per malattie legate all'handicap appare appropriata e proporzionata nell'ambito del bilanciamento dei contrapposti interessi: quello del disabile, al mantenimento di un lavoro adeguato al suo stato di salute; quello del datore di lavoro, di garantire una prestazione lavorativa utile per l'impresa.

LE SOLUZIONI GIURIDICHE

La qualificazione dei giorni di assenza dal lavoro compresi tra due periodi di malattia certificata. Il caso della richiesta di ferie da parte del lavoratore.

Nel perimetro di tali principi, interviene la sentenza della  Corte di Cassazione  n. 582 dell'8 gennaio 2024.

La Corte respinge il ricorso del datore di lavoro, essenzialmente incentrato sull'invocata applicazione al caso di specie della presunzione di continuità della malattia, ritenuta dalla giurisprudenza, nel periodo ricompreso tra due certificazioni mediche non intervallate dalla ripresa del lavoro.

Il giudice di legittimità nega l'applicazione del principio svolgendone un significativo approfondimento dei tratti essenziali.

Al lavoratore assente per malattia è consentito di mutare il titolo dell'assenza con la richiesta di fruizione delle ferie già maturate al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto.

L'origine della regola può ricondursi alla sentenza n. 616/1987 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2109 cod. civ. nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso.

Tale pronuncia costituzionale ha introdotto nell'ordinamento giuridico il principio di conversione delle cause di assenza dal lavoro e cioè della possibilità di mutamento del titolo dell'assenza stessa, ancorché in corso, in altro che presupponga una diversa giustificazione.

Si tratta di principio, evidenzia la S.C.,  che in difetto di una disciplina legislativa di dettaglio opera in tutte le sue implicazioni e con riferimento ai reciproci rapporti fra tutte le varie ipotesi di sospensione dell'obbligo lavorativo, con la conseguenza che anche il periodo di comporto, ai fini dell'art. 2110 c.c. diviene suscettibile di interruzione per effetto della richiesta del dipendente di godere del periodo feriale, che il datore di lavoro deve concedere anche in costanza di malattia del dipendente stesso (cfr. Cass. 30 marzo 1990, n. 2608).

Pur sottolineando  che tale facoltà del lavoratore non è incondizionata, si ricorda che comunque il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109, secondo comma, c.c.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto.

Resta fermo che, ove il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita, un tale obbligo non è ragionevolmente configurabile (cfr. Cass. n. 5521/2003; Cass. n. 21385/2004).

Con specifico riferimento al caso sottoposto al suo giudizio, la S.C. ricorda infine che allorché la richiesta di ferie sia stata, sia pure parzialmente, accolta prima del superamento del periodo di comporto, la dedotta successiva rinuncia alla fruizione delle ferie nel periodo indicato dal datore di lavoro deve essere provata in maniera chiara e inequivoca, attesa la garanzia costituzionale del diritto alle ferie e il rilevante e fondamentale interesse del lavoratore a evitare, con la fruizione delle stesse o di riposi compensativi già maturati, la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto, con la ulteriore conseguenza della perdita definitiva della possibilità di godere delle ferie maturate (cfr.,  tra le tante, Cass. 17/12/2001 n. 15954 , 09/04/2003 n. 5521 e 10/11/2004n. 21385).

Nel caso concreto, osserva la Corte, da un canto non vi è prova che il lavoratore avrebbe potuto beneficiare di istituti contrattuali alternativi alle ferie; dall'altro, è stato accertato che, al contrario, le ferie erano state autorizzate in prosecuzione della malattia.

Ne discende che la domanda di ferie avanzata dal lavoratore con decorrenza dal primo giorno lavorativo successivo alla cessazione della documentata assenza per malattia esprime la volontà di assentarsi per un titolo diverso da quello in base al quale il lavoratore fino ad allora era rimasto assente e, correttamente, nel giudizio di merito si è ritenuta interrotta la maturazione del periodo di comporto alla scadenza della certificazione medica.

In conclusione, il giudice di legittimità, ritenendo ultroneo l'esame del secondo motivo di ricorso, conferma integralmente l'impugnata sentenza di merito che, alla luce dei ricordati accertamenti di fatto, aveva escluso che il lavoratore fosse rimasto assente dal servizio per un numero di giorni superiore a quello previsto dal contratto collettivo per la conservazione del posto di lavoro.

OSSERVAZIONI

La domanda di ferie esprime incontestabilmente la volontà del lavoratore di assentarsi per un titolo diverso da quello della malattia. Se la domanda è accettata, il periodo in questione rimane escluso dal comporto.

La sentenza commentata ha il merito di chiarire la reale consistenza e portata della regola di formazione pretoria secondo la quale, nel calcolo del periodo di comporto, sono inclusi anche i giorni non coperti da prognosi che siano tuttavia intercorsi tra due periodi di malattia attestati da certificazione medica.

Si suole in proposito affermare che sono inclusi in tale calcolo anche i giorni festivi o comunque non lavorativi che cadono durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, per modo che soltanto l'effettivo rientro in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto (cfr. Cass. n. 20106/2014; Cass. n.21385/2004; Cass. n. 13816/2000).

Proprio a tale principio, nel caso in esame, si è riportata la parte ricorrente per cassazione: chiedendo applicarsi la regola pure all'ipotesi in cui l'assenza del lavoratore per ferie, nel periodo iniziale, era stata espressamente richiesta dal lavoratore e non costituiva, come invece avvenuto da un certo momento in poi, l'effetto della chiusura dell'azienda per la pausa estiva.

La S.C. è però di diverso avviso.

La domanda di ferie, avanzata con decorrenza dal primo giorno lavorativo successivo alla cessazione della documentata assenza per malattia, esprime incontestabilmente la volontà del lavoratore di assentarsi per un titolo diverso da quello in base al quale il medesimo fino ad allora era rimasto assente e, correttamente, nel giudizio di merito si è ritenuta interrotta la maturazione del periodo di comporto alla scadenza della certificazione medica.

In altre parole, a differenza dei casi di mancato svolgimento della prestazione lavorativa per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore, ad esempio nei giorni  festivi o in altri comunque di interruzione dell'attività aziendale, in quelli in cui  il lavoratore stesso, quale unico strumento a sua disposizione per evitare la maturazione del comporto, richieda, ottenendola, l'attribuzione di un periodo di ferie non può ritenersi operante la presunzione di continuità della malattia perché la stessa apertamente contraddetta dalla condotta del lavoratore.

Il decorso del periodo di comporto, in questi casi, viene interrotto.