Privativa per varietà vegetali e limiti contrattuali alla commercializzazioni dei prodotti

19 Aprile 2024

Il titolare di privativa comunitaria per varietà vegetale può imporre contrattualmente al produttore autorizzato la scelta dei distributori legittimati in via esclusiva alla commercializzazione dei frutti ottenuti con i costituenti della varietà protetta, solo se questi sono utilizzabili come materiale di moltiplicazione, perché, altrimenti, la clausola è nulla.

Massima

In tema di privativa comunitaria per ritrovati vegetali, è nulla, per contrarietà all’ordine pubblico, stante la violazione dell’art. 13, punti 2 e 3, Reg. (CE) del Consiglio n. 2100/94, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, la clausola contrattuale che attribuisca al titolare dei diritti di proprietà intellettuale sui cultivar brevettati anche il potere di individuare i soggetti ai quali soltanto spetterà la distribuzione dei frutti ottenuti dal produttore precedentemente autorizzato all’utilizzo dei costituenti varietali della varietà protetta da cui quei frutti siano stati prodotti, ove questi ultimi siano inutilizzabili come materiale di moltiplicazione.

Il caso

Una multinazionale americana titolare di un brevetto europeo su di una varietà vegetale, un tipo di uva rossa da tavola senza semi, stipulò con una produttrice di uva, proprietaria di un appezzamento di terreno, un contratto di affitto, concedendole, verso corrispettivo, la licenza a prendere in affitto e coltivare le gemme del prodotto sul suo terreno.

Il contratto prevedeva che i frutti prodotti dalle piante in affitto dovessero essere commercializzati da un distributore autorizzato della multinazionale.

Il raccolto annuale fu compromesso da forti alluvioni e dall'indisponibilità del distributore autorizzato a vendemmiare in tempo utile. La multinazionale intimò alla coltivatrice di porre rimedio ad alcuni inadempimenti, lamentando, fra l'altro, la commercializzazione dell'uva a un distributore non autorizzato e quindi le comunicò la risoluzione del contratto per inadempimento.

Avvalendosi della clausola compromissoria prevista dal contratto, la multinazionale diede avvio a un procedimento arbitrale, chiedendo che venisse accertato il grave inadempimento della coltivatrice per avere commercializzato l'uva al di fuori della rete di distributori autorizzati e che, pertanto, venisse dichiarato definitivamente risolto per inadempimento il contratto, oltre al risarcimento dei danni, anche in forza di clausola penale.

L'imprenditrice resistette chiedendo, fra l'altro, accertarsi la nullità del contratto concluso tra le parti per violazione del principio di esaurimento comunitario previsto dal Reg. (CE) n. 2100/94 trasposto nel Codice della proprietà industriale ed intellettuale, nonché per violazione dell'art. 102 TFUE (divieto di abuso di posizione dominante) e art. 120 TFUE (libera concorrenza).

Con due successivi lodi, non definitivo e definitivo, il collegio arbitrale ritenne sussistente la propria competenza a decidere la controversia, accertò l'inadempimento allegato dalla multinazionale e dichiarò risolto il contratto per colpa dell'imprenditrice.

L'impugnazione di entrambi i lodi promossa dalla coltivatrice venne rigettata dalla Corte di appello adita con sentenza impugnata per cassazione con due motivi dall'imprenditrice a cui ha resistito, con controricorso, la multinazionale.

La questione

È valida la clausola contrattuale con cui il titolare di privativa comunitaria per varietà vegetale impone al produttore autorizzato la scelta dei soggetti esclusivamente legittimati alla distribuzione dei frutti ottenuti con i costituenti varietali della varietà protetta, se questi sono inutilizzabili come materiale di moltiplicazione?

La decisione

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha preliminarmente dichiarato inammissibile il primo mezzo di ricorso con cui la produttrice aveva sostenuto l'invalidità della clausola compromissoria, non espressamente approvata ai sensi dell'art.1341 c.c., non ritenendo configurabili nella specie condizioni generali di contratto, né contratto per adesione; la Corte ha aggiunto che la valutazione circa la natura vessatoria di una clausola contrattuale è un giudizio di fatto, che può essere formulato soltanto interpretando la clausola stessa nel contesto complessivo del contratto, per stabilirne significato e portata, e che è pertanto insindacabile in sede di legittimità.

Il secondo motivo di ricorso poneva in discussione il tema della conformità o meno all'ordine pubblico del potere contrattuale del titolare della privativa di sfruttarlo in spregio ai principi fondanti dell'Unione Europea di tutela della concorrenza e di salvaguardia della produzione agricola.

La Cassazione ha spiegato che nel mercato di riferimento operano le società breeder, titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui cultivar brevettati, che danno in licenza d'uso i vitigni ai licenziatari, produttori agricoli o imprenditori nel settore distribuzione/commercializzazione dell'uva. La licenza d'uso del vitigno non prevede il passaggio di proprietà della pianta che rimane di proprietà del breeder per tutto il periodo del contratto, mentre il produttore è proprietario dei frutti. Può verificarsi che i breeder subordinino la fornitura in licenza dei vitigni ai coltivatori al conferimento ai propri distributori dell'intera produzione di uva ottenuta o che i coltivatori non siano autorizzati a vendere ad altri il prodotto eventualmente rifiutato dal distributore indicato dal breeder per motivi connessi a scarsa qualità.

La Corte si è interrogata preliminarmente sulla concreta utilizzabilità ai fini della decisione della sentenza «Nadorcott» della Corte di Giustizia (C.Giust. 19 dicembre 2019, causa C-176/2018), indagando sull'efficacia normativa rivestita dalla statuizione nei confronti di casi diversi da quello del giudice a quo, per cui è certamente vincolante; è stato così affermato che la decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell'Unione interpretata dalla Corte.

Nonostante le innegabili differenze della fattispecie concreta rispetto a quella su cui per la quale era intervenuta la sentenza «Nadorcott», la Cassazione ha preso atto di quanto affermato dalla Corte di Giustizia che si riporta qui sotto.

C.Giust. 19 dicembre 2019, causa C-176/2018

[omissis]

«l'articolo 13, paragrafo 2, lettera a), e paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 deve essere interpretato nel senso che l'attività di messa a coltura di una varietà protetta e di raccolta dei frutti della stessa, che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione, richiede l'autorizzazione del titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali relativa alla suddetta varietà vegetale nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni previste all'articolo 13, paragrafo 3, di tale regolamento»

[omissis]

«l'articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 deve essere interpretato nel senso che i frutti di una varietà vegetale che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione non possono essere considerati come ottenuti mediante una “utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali” di tale varietà vegetale, ai sensi di detta disposizione, qualora i suddetti costituenti varietali siano stati moltiplicati e venduti a un agricoltore da un vivaio durante il periodo compreso tra la pubblicazione della domanda di privativa comunitaria per ritrovati vegetali relativa a detta varietà vegetale e la sua concessione. Qualora, dopo la concessione di tale privativa, detti costituenti varietali siano stati moltiplicati e venduti senza il consenso del titolare della stessa privativa, quest'ultimo può far valere il diritto ad esso conferito dall'articolo 13, paragrafo 2, lettera a), e paragrafo 3, di tale regolamento per quanto riguarda i suddetti frutti, salvo che egli abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai medesimi costituenti varietali»

[omissis]

Secondo la Corte di Giustizia, in base al Reg. (CE) 2100/94, vi sono, dunque, due livelli di protezione, ovvero la protezione primaria, che copre la produzione o la riproduzione dei componenti della varietà e la protezione secondaria, che copre il materiale raccolto.

La protezione secondaria del materiale raccolto è applicabile solo se:

  1. tale materiale sia stato ottenuto attraverso l'uso non autorizzato di componenti della varietà costituenti della varietà, e
  2. a meno che il titolare non abbia avuto l'opportunità di esercitare il suo diritto in relazione a quei costituenti della varietà. Inoltre, secondo il Regolamento, i «costituenti della varietà» sono «piante intere o parti di piante, nella misura in cui tali parti siano in grado di produrre piante intere».

Per la Suprema Corte gli assunti della sentenza «Nadorcott» sono riferibili a tutte quelle varietà vegetali in cui il frutto non può, a sua volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà, quindi anche alle viti, non potendo ottenersi dai loro frutti una nuova vite, e a maggior ragione per l'uva rossa da tavola senza semi. Di conseguenza, una volta autorizzato l'uso dei costituenti varietali, il titolare del brevetto perde ogni potere dispositivo sul c.d. materiale del raccolto, consistente in frutti che non possono, a loro volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà.

Nel caso di specie, le clausole del contratto non rispettavano tali principi, perché attribuivano al titolare del brevetto anche il diritto di individuare i soggetti a cui soltanto potevano essere ceduti i frutti in questione per la loro successiva commercializzazione e anzi configuravano quale causa di immediata risoluzione contrattuale l'inadempimento del produttore a una tale pattuizione, nonostante l'uso certamente autorizzato delle componenti della varietà vegetali da cui quei frutti erano stati prodotti.

La Corte si è quindi posta il problema se l'errore di diritto inficiante il lodo impugnato lo rendesse contrario a principi di ordine pubblico, perché il novellato art. 829 c. 3 c.p.c. ha escluso, in via generale, la possibilità di impugnare il lodo per violazione di norme di diritto relative al merito della controversia, se tale possibilità non è espressamente prevista dalle parti (e nel caso non lo era) o dalla legge, e la consente, in via eccezionale, solo nel caso in cui la decisione sia contraria a principi di ordine pubblico. In altre parole, non tutti gli errori di giudizio nell'applicazione o nell'interpretazione del diritto da parte degli arbitri sono sindacabili e solo se l'error iuris in iudicando comporta la violazione di un principio espressivo di un valore essenziale dell'ordinamento (cioè di ordine pubblico), il lodo diviene intollerabile, al punto da giustificarne la rimozione degli effetti e la riforma della decisione.

Secondo la Corte Suprema, la nozione di ordine pubblico esprime quei principi etici, economici, politici e sociali che, in un determinato momento storico, caratterizzano il nostro ordinamento nei vari campi della convivenza sociale e cioè i «valori di fondo» del sistema giuridico italiano, che trovano in larga parte espressione nella Carta costituzionale e si collegano a interessi e valori generalizzati dell'intera collettività, dettati a tutela di interessi generali, per questo non derogabili dalla volontà delle parti, né suscettibili di compromesso. In quest'ambito rientrano anche le regole e i principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell'Unione europea, fra cui rientrano– per quanto rilevava nel caso concreto - gli interessi pubblici costituiti dalla salvaguardia della produzione agricola, che giustifica l'assoggettamento a restrizioni dell'esercizio dei diritti conferiti dalla privativa comunitaria per ritrovati vegetali.

La Cassazione ha perciò accolto il secondo motivo e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa per nuovo esame alla Corte di appello di Milano, coniando il principio di diritto di cui alla massima soprariportata.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia in esame risolve la questione proposta scandendo tre principi.

Il primo riconosce l'efficacia vincolante delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia UE, anche al di fuori del procedimento a quo, nella misura in cui esse contengano l'enunciazione di principi applicabili alla fattispecie concreta.

Il secondo principio traspone l'insegnamento della sentenza «Nadorcott» al caso dell'uva senza semi Sugranineteen Carlotta Seedless, predicandone la validità per tutte quelle varietà vegetali in cui il frutto non può, a sua volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà, per affermare che, una volta autorizzato l'uso dei costituenti varietali, il titolare del brevetto perde ogni potere dispositivo sul «materiale del raccolto» consistente in frutti che non possono, a loro volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà.

Il terzo principio definisce l'ambito dell'impugnazione del lodo consentita dall'art.829 c. 3 c.p.c. per la sua contrarietà a principi di ordine pubblico, distinguendola dal mero errore di diritto e individuandola nel contrasto con il nucleo di principi etici, economici, politici e sociali che, in un determinato momento storico, caratterizzano il nostro ordinamento nei vari campi della convivenza sociale, che trovano in larga parte espressione nella Carta costituzionale, ed esprimono interessi e valori generalizzati dell'intera collettività, fra i quali rientrano i precetti del diritto internazionale, generale e pattizio, e del diritto dell'Unione europea, e nel caso concreto l'interesse alla salvaguardia della produzione agricola.

Osservazioni

La pregevole sentenza in esame presenta notevole interesse sotto vari profili.

Il primo principio, in ordine all'efficacia vincolante delle sentenze della Corte di Giustizia, non ha carattere innovativo e pure si lascia apprezzare per la chiarezza e la completezza della sua esposizione. Viene così ribadito l'insegnamento che l'interpretazione del diritto dell'Unione adottata dalla Corte di giustizia ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, pregiudiziali o emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità (Cass. 6 marzo 2023 n. 6687, Cass. 23 giugno 2022 n. 20216, Cass. 3 marzo 2017 n. 5381).

La giurisprudenza di legittimità spiega altresì che non sussiste alcun obbligo del giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la questione interpretativa del diritto unionale alla Corte di Giustizia UE, non solo ogni volta in cui - vertendosi in ipotesi di acte clair - la corretta interpretazione del diritto dell'Unione europea è così ovvia da non lasciare spazio a nessun ragionevole dubbio, ma anche nel del c.d. acte éclairé - nel quale la stessa Corte ha già interpretato la questione in un caso simile, o in materia analoga, in un altro procedimento in uno degli Stati membri (Cass. 15 dicembre 2022 n. 36776).

Il secondo dictum attua il principio di esaurimento del diritto di proprietà industriale nella materia delle varietà vegetali, soggetta dal Reg. (CE) 2100/94 e all'art. 5 CPI, come modificato dal D.Lgs. 131/2010.

La regola generale è che le facoltà esclusive attribuite al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo; questa limitazione dei poteri del titolare tuttavia non si applica quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio.

Recentemente al proposito la Cassazione, con riferimento all'esaurimento del marchio, ai sensi dell'art. 7 Dir. 2008/95/CE, ha affermato che, una volta immesso un bene in commercio nel territorio dell'UE, direttamente o attraverso un licenziatario, il titolare del marchio ne perde le relative facoltà di privativa, essendo l'esclusiva limitata al primo atto di commercializzazione, salvo che si tratti di articolo di lusso o di prestigio; che sia stato adottato un sistema di distribuzione selettiva; che la commercializzazione, al di fuori della rete distributiva autorizzata, abbia arrecato un pregiudizio alla reputazione del marchio (Cass. 14 marzo 2023 n. 7378).

L'art. 5 c. 3 CPI detta le regole specifiche relative alla varietà vegetali in conformità alla disciplina europea, oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, e afferma che le facoltà esclusive attribuite dalla privativa su una varietà protetta, sulle varietà essenzialmente derivate dalla varietà protetta quando questa non sia, a sua volta, una varietà essenzialmente derivata, sulle varietà che non si distinguono nettamente dalla varietà protetta e sulle varietà la cui produzione necessita del ripetuto impiego della varietà protetta, non si estendono agli atti riguardanti:

  • il materiale di riproduzione o di moltiplicazione vegetativa, quale che ne sia la forma;
  • il prodotto della raccolta, comprese piante intere e parti di esse quando tale materiale o prodotto sia stato ceduto o commercializzato dallo stesso costitutore o con il suo consenso nel territorio dello Stato o di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo, a meno che si tratti di atti che implicano una nuova riproduzione o moltiplicazione della varietà protetta oppure un'esportazione del materiale della varietà stessa che consenta di riprodurla in uno Stato che non protegge la varietà del genere o della specie vegetale a cui appartiene, salvo che il materiale esportato sia destinato al consumo finale.

Il punto essenziale messo a fuoco dalla pronuncia in esame, fondata sulla interpretazione elaborata dalla Corte di Giustizia, è che, una volta autorizzato contrattualmente l'uso dei costituenti varietali, il titolare del brevetto perde ogni potere dispositivo sul «materiale del raccolto» qualora si tratti di frutti che non possono, a loro volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà, sicché si esplica pienamente il principio di esaurimento della privativa e le clausole contrattuali contrastanti sono nulle in quanto confliggenti con disciplina imperativa e di ordine pubblico, preordinata alla salvaguardia della produzione agricola.

Il terzo principio, con la distinzione fra norme imperative e di ordine pubblico, si iscrive in orientamento ben radicato nella giurisprudenza della Corte Suprema.

Si discute, infatti, se il richiamo alla clausola dell'ordine pubblico operato in sede di impugnazione del lodo debba essere interpretato come rinvio alle norme fondamentali e cogenti dell'ordinamento oppure se la clausola di cui all'art. 829 c.p.c. sottenda una nozione «attenuata» di ordine pubblico, coincidente con l'insieme delle norme imperative dell'ordinamento (il c.d. ordine pubblico interno, nozione internazional-privatistica usata per indicare le norme di applicazione necessaria che impongono l'applicazione del diritto nazionale e operano come limite al riconoscimento del diritto straniero (Cass. 28 dicembre 2006 n. 27592).

L'orientamento prevalente è nel primo senso e reputa che il richiamo alla clausola di ordine pubblico abbia in materia arbitrale un significato univoco. Del resto, il legislatore della novella arbitrale del 2006, allorché ha invertito il rapporto tra regola ed eccezione per l'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, ha voluto rafforzare la stabilità del lodo estendendo all'arbitrato interno una regola prevista in campo transnazionale, ove l'ordine pubblico è da sempre identificato con le norme e i principi fondamentali dell'ordinamento. Si è anche osservato che l'assunto che l'imperatività della norma non coincida con l'ordine pubblico trova conferma nella distinzione tra indisponibilità del diritto, limite al ricorso alla clausola compromissoria, e inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, che non impedisce la compromissione in arbitrato (Cass. 16 aprile 2018 n. 9344).

L'ordine pubblico a cui fa riferimento l'art. 829 c. 3 c.p.c., coincide, pertanto, con le norme e i principi fondamentali dell'ordinamento (in questo senso: Cass. 21 settembre 2022 n. 27615, Cass. 16 maggio 2022 n.15619, Cass. 17 settembre 2021 n. 25187, Cass. 9 ottobre 2020 n. 21850). La contrarietà ai principi fondamentali dell'ordinamento nazionale si affianca quella ai principi fondamentali dell'unione europea, con la conseguenza, ad esempio, che il mancato rilievo di determinate nullità di protezione è stato considerato motivo di impugnazione del lodo per contrarietà all'«ordine pubblico comunitario» (Cass. 6 maggio 2022 n. 14405, che richiama al riguardo la sentenza resa dalla C.Giust. 26 ottobre 2006, C-168/05 nel caso Mostaza Claro, che ha ricompreso in tale concetto le norme imperative europee poste a tutela dei consumatori).

Merita infine un cenno, sempre nella stessa direzione, anche la recentissima Cass. 5 marzo 2024 n. 5936, che si è indotta, nel confronto tra la disciplina generale sull'arbitrato (artt. 829 e 817 c. 3 c.p.c.) e quella speciale derogatoria dettata a tutela del consumatore, alla disapplicazione, per contrarietà alla legislazione comunitaria (quale originata anche dalle pronunce interpretative della Corte di Giustizia), della norma di cui al combinato disposto degli artt. 829 n. 1 e 817 c. 3 c.p.c., secondo cui l'impugnazione per nullità del lodo basata sull'invalidità della convenzione d'arbitrato non è ammessa se non è stata eccepita nel corso del procedimento arbitrale: anche in questo caso per il dirimente rilievo che la disciplina protettiva dei consumatori rappresenta una base fondante dell'ordinamento euro-unitario perché i diritti dei consumatori sono fondamentali per i cittadini dell'Unione.