Danno da cenestesi lavorativa e valutazione del danno alla capacità lavorativa futura

29 Aprile 2024

Una delle questioni di maggiore interesse sottoposte dai ricorrenti allo scrutinio dei giudici di legittimità attiene alla quanto mai spinosa tematica dello statuto del danno alla capacità lavorativa futura. Ciò soprattutto quante volte il leso, come in questo caso, sia un minore inoccupato e dunque non possa – all'evidenza – operarsi un vaglio in termini di pregiudizio economico da incapacità lavorativa specifica.

Massima

Se è esatto affermare che il danno derivante dalla lesione della capacità lavorativa generica deve essere risarcito in termini di danno biologico, eventualmente con un appesantimento del punto, va tuttavia rimarcato che tale criterio non è sempre utilizzabile quando il danno alla salute di un minore supera una certa soglia. Pare evidente che un danno da invalidità permanente nella misura del 36 per cento non potrà che tradursi, secondo la regola causale del più probabile che non, anche in una diminuzione della capacità di lavorare e, quindi, di produrre un reddito.

Il caso

La notte del 24 giugno 2012 si verificava a Catania un grave incidente della strada. Un ragazzo sedicenne, mentre viaggiava trasportato su una moto non assicurata veniva coinvolto in uno scontro frontale con un'autovettura. In conseguenza del sinistro, in occasione del quale il minore riportava gravi danni fisici, la vittima e i genitori, che deducevano anche un danno iure proprio, convenivano in giudizio il proprietario del mezzo e la compagnia designata dal Fondo di garanzia, chiedendo il ristoro dei danni. Il Tribunale, liquidata una somma di 150.000 euro complessivi a titolo di provvisionale in favore del minore e posta in capo al conducente della moto la responsabilità esclusiva dell'evento, attribuiva altresì in favore del minore, al quale la CTU aveva riconosciuto un danno biologico pari al 36%, l'ulteriore somma di € 173.229,70, rigettando tuttavia sia la richiesta di danno da lesione della capacità lavorativa specifica, sia la domanda dei genitori. La decisione veniva impugnata dagli originari attori sulla base di tre motivi di gravame. Il primo avente ad oggetto la valutazione peritale dell'ufficio, ritenuta sottostimata. Il secondo riguardante, invece, il tema della denegata liquidazione del danno da incapacità lavorativa ed infine, il terzo, incentrato sul rigetto della domanda avanzata in via autonoma dai genitori. La Corte etnea respingeva ciascuna delle doglianze degli appellanti, così confermando la decisione gravata. Veniva in primo luogo ritenuto del tutto esente da censure l'operato del CTU. La valutazione peritale, oggetto anche di successivi chiarimenti e dunque sottoposta ad un vaglio critico approfondito, doveva ritenersi non solo scientificamente inappuntabile, ma anche “munifica” rispetto alle effettive conseguenze di danno riportate dal minore. Quanto al pregiudizio lamentato dai genitori i giudici siciliani, pur non disconoscendo in astratto il loro diritto ad un risarcimento in via autonoma del danno non patrimoniale in presenza di sofferenze di carattere eccezionale, ne escludevano tuttavia la ricorrenza nel caso di specie, tenuto conto della scala relativamente contenuta della lesione accertata. Meno lineare – infine – la motivazione posta a base del rigetto delle richieste attrici in punto danno da incapacità lavorativa. Sulla questione la Corte, richiamato l'iter argomentativo seguito dal Tribunale, secondo il quale la lesione della capacità lavorativa specifica non costituisce un danno in re ipsa, ma andrebbe allegato e quindi provato, concludeva il proprio – invero non del tutto perspicuo – ragionamento affermando come il danno alla capacità lavorativa generica rientri nell'alveo del danno biologico, conseguendone che non sarebbe consentito elevare il danno alla capacità lavorativa generica ad autonoma e ulteriore posta risarcitoria una volta ristorato il danno alla salute. Avverso la pronuncia di seconde cure i soccombenti interponevano ricorso per Cassazione al quale resisteva con proprio controricorso la Compagnia assicuratrice. Le doglianze avanzate dai ricorrenti venivano affidate a ben sette motivi. I primi tre riguardanti, ancora una volta, la valutazione dell'invalidità. Con il quarto motivo si censurava invece la piana sussunzione del danno da incapacità lavorativa nel danno biologico nei termini predicati dai giudici siciliani nonché – più in generale – il governo della controversa questione del danno lavorativo futuro. Non avrebbero in particolare i giudici dell'appello opportunamente scrutinato la peculiare condizione socioeconomica del danneggiato e della sua famiglia, ciò che grazie al supporto di un più adeguato approfondimento istruttorio, mediato da un approccio prognostico e presuntivo, avrebbe invece dovuto – in tesi – comunque condurre al riconoscimento, anche solo in termini equitativi, di un futuro danno patrimoniale. Il quinto dei motivi si appuntava invece sul mancato riconoscimento della personalizzazione del danno biologico conseguente alla compromissione degli aspetti dinamico-relazionali della vita del minore. Mentre - infine - con l'ultimo dei motivi si censurava il regime delle spese, assunto come iniquo, veniva - con il sesto - nuovamente sottoposto a critica il diniego del riconoscimento di un autonomo danno non patrimoniale a favore dei genitori conviventi.

La questione

A prescindere dall'ulteriore e non meno rilevante profilo della spettanza di un danno non patrimoniale in favore dei congiunti della vittima, una delle questioni di maggiore interesse sottoposte dai ricorrenti allo scrutinio dei giudici di legittimità attiene alla quanto mai spinosa tematica dello statuto del danno alla capacità lavorativa futura. Ciò soprattutto quante volte il leso, come in questo caso, sia un minore inoccupato e dunque non possa – all'evidenza – operarsi un vaglio in termini di pregiudizio economico da incapacità lavorativa specifica. L'ulteriore questione lambita dalla decisione in commento, indirettamente attratta dalla prima, si incentra invece sul rapporto tra il danno all'attitudine lavorativa del soggetto non direttamente incidente sul reddito e la più ampia categoria del danno biologico e, segnatamente, sul profilo della sua corretta liquidazione nell'ottica dell'integrale riparazione del danno. Si tratta, nella specie, di quella particolare tipologia di pregiudizio “di confine” – ma in ogni caso rientrante nel più ampio genus del danno alla salute – definito da lesione della cenestesi lavorativa. Danno quest'ultimo, pur esso scientificamente rilevabile e consistente, come noto, nella maggiore usura, fatica e difficoltà nello svolgimento dell'attività lavorativa, privo però, per l'appunto, di riflessi reddituali e dunque estraneo all'area del danno patrimoniale conseguente alla lesione della capacità lavorativa vera e propria.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte cassa in larga parte la decisione siciliana, accogliendo le due principali censure dei ricorrenti, rispettivamente sviluppate in relazione ai temi del danno patrimoniale futuro del minore, nonché della liquidazione del danno rivendicato iure proprio dai congiunti.

Sul primo punto i giudici della terza sezione muovono intanto metodologicamente da un'opportuna ricostruzione della linea di confine tra capacità lavorativa generica e specifica, in riferimento alla cui corretta individuazione non mancano di rilevare “una certa confusione” effettivamente operata dalla Corte di merito. Nel caso di specie non viene e non può infatti nemmeno porsi, attesa la minore età e l'assenza di attuale occupazione della vittima, una questione di incapacità lavorativa specifica. Il ragionamento deve dunque necessariamente svilupparsi nella sola prospettiva del danno da incapacità lavorativa generica ed è, in questo stesso ambito tematico, che deve trovare pertanto soluzione il problema della sua congrua quantificazione risarcitoria. Fatta questa messa a punto il Collegio prosegue nel proprio percorso argomentativo fissando una prima continuità con una linea ermeneutica già tracciata nel passato e ampiamente consolidata anche nella giurisprudenza di merito (v. ad es. App. Venezia, 31 maggio 2022, n. 189, in onelegale.woletrskluwer.it). Entro una certa soglia, collocata pur con alcune oscillazioni nel 30% del danno biologico, il danno alla capacità lavorativa può avere un riflesso in termini di cenestesi lavorativa, ovvero – come accennato – implicare una maggiore usura nello svolgimento dell'attività. Tale conseguenza non eccede tuttavia l'ambito della compromissione biologica dell'individuo, senza alcuna incidenza, neanche sotto il profilo dell'opportunità, sul suo reddito atteso. Ove sussistente, tale ulteriore incidenza peggiorativa sul patrimonio biologico del leso può e deve dunque essere risarcita mediante il meccanismo dell'appesantimento del punto “base". Ma non oltre. Secondo la Corte di nomofilachia, che segna qui una seconda linea di continuità con proprie precedenti pronunce (tra le più recenti, cfr. Cass. civ. n. 28898/2019 e Cass. civ. n. 16844/2023) a diverse conclusioni deve invece pervenirsi laddove la predetta soglia di lesività, come nell'ipotesi in esame, venga superata. In questo caso la lesione del bene salute, in presenza di determinati presupposti prognostici e secondo la regola del più probabile che non, può invece comportare di per sé “inevitabilmente” – anche – un danno patrimoniale. Dovrà dunque il giudice di rinvio, avvalendosi pure della prova presuntiva, delibare anche tale profilo pretermesso, includendo cioè nel novero delle possibilità che devono essere esaminate anche quella di una possibile diminuzione patrimoniale. Un breve cenno, da ultimo, alla questione del danno iure proprio dei genitori, pur esso avviato al riesame del giudice di rinvio. Anche in questo caso, secondo la Cassazione, ha colto nel segno la censura avanzata contro la decisione del merito, avendo questa omesso di considerare il fatto nella sua globalità, rinserrandosi cioè in un'astratta e meccanicistica  valutazione della relativamente contenuta lesione della vittima primaria, senza tener conto – in concreto – della strettezza del vincolo familiare e della severa destabilizzazione vissuta dai genitori, assai verosimilmente esitata in un patimento d'animo, se non in una lesione della salute anch'essa meritevole di ristoro.

Osservazioni

Con il dictum in commento, avvalendosi di un percorso argomentativo connotato da peculiare linearità, la Cassazione arricchisce un importante filone ermeneutico che, a partire dalla già citata decisione n. 28898/2019 (ma v. anche decisioni più risalenti in termini: Cass. civ. n.  4493/2011, Cass. civ. n. 1211/2015), ha via via offerto agli interpreti un cruciale contributo nella soluzione della quanto mai delicata tematica del risarcimento del danno alla capacità lavorativa futura. Ciò con particolare riguardo – come in questo caso – a soggetti lesi del tutto privi di una storia lavorativa o comunque attualmente inoccupati e privi di reddito. Un compito, questo, che forse più di altre interseca e mette in tensione snodi centrali della dottrina della responsabilità civile, dal governo della causalità alla teorica della perdita di chances e non solo (una recente decisione fiorentina, App. Firenze, sez. IV, 14 settembre 2023, n. 1846, onelegale.woletrskluwer.it ancorché con specifico riferimento alla successiva fase liquidativa, lo ha infatti definito “uno dei compiti più difficili nell'intero quadro della responsabilità civile”,  ma v. anche, di recente in dottrina, sul tema, D.M. Frenda, “Il danno da mancata realizzazione di un risultato atteso: ai confini tra la perdita di chances e il lucro cessante?”, in Danno e Responsabilità, 1, 2024, p. 15 e ss.), con profonde implicazioni operative e con rilevanti ricadute anche di ordine socioeconomico. I giudici della terza sezione, grazie anche allo spunto offerto dalla non impeccabile linea argomentativa della pronuncia scrutinata, passano preliminarmente in breve rassegna e quindi riordinano alcuni dei principali approdi del diritto vivente in riferimento alle categorie dogmatiche del danno alla capacità lavorativa. Ristabilito dunque con pochi e pregnanti cenni il primo e netto discrimine tra capacità lavorativa specifica e generica e ricondotta intanto entro il solo spettro di quest'ultima la fattispecie sottostante (ricordiamo ancora che nella specie la vittima era un minorenne) la disamina del Supremo Collegio entra ancora più nel vivo della questione e si focalizza, appunto, sulla disciplina risarcitoria dell'incapacità lavorativa generica; l'unica di cui, come rilevato, si può discorrere in relazione alla fattispecie concretamente dedotta in giudizio. La concreta vicenda di che trattasi si presenta di particolare interesse. In essa, invero, diversamente da quanto può riscontrarsi in precedenti pronunce, pertinenti in genere a macro-lesioni coincidenti con un'obliterazione dell'integrità psicofisica totale o semi-totale, la lesività di riferimento – pari, ricordiamo, al 36% – è invece prossima a quella soglia critica, coincidente in giurisprudenza con il 30% (ma talora anche con il 25%, cfr., ad es., la già citata Cass. civ. n. 12211/2015) del danno biologico “base”, entro la quale la riparazione risarcitoria è assorbita e non può eccedere i limiti del sistema tabellare per la liquidazione del danno non patrimoniale, eventualmente corretti da opportuni appesantimenti del punto. È questa l'ipotesi, pur essa affrontata dall'ordinanza, che si può presentare allorché venga riscontrato a carico del leso – anche – un profilo di danno alla cenestesi lavorativa. Un pregiudizio che, pur caratterizzato da una sua peculiarità ontologica, rientra comunque nel novero unitario e omnicomprensivo del danno non patrimoniale e, come tale, può e deve venire risolto all'interno di quel sottosistema, senza il rischio di duplicazioni risarcitorie. Il vero nodo problematico si affaccia invece oltre il predetto limite del 25-30%, superato il quale lo strumentario risarcitorio proprio del danno non patrimoniale parrebbe non più sufficiente ad assicurare, in concreto, l'obbiettivo dell'integrale riparazione del danno. A fronte di atteggiamenti liquidatori delle corti di merito in alcuni casi anche troppo disinvolti, talvolta affiora infatti nella prassi, come affiora nella decisione catanese, pure un antitetico approccio dogmatico e invero piuttosto spicciativo di cui il giudice di nomofilachia ha parimenti più volte colto l'inadeguatezza. Secondo tale approccio, infatti, in assenza di un qualsivoglia parametro reddituale, il dilemma risarcitorio si deve appiattire meccanicamente sul solo danno non patrimoniale, estromettendo – anche solo in termini di ipotesi – qualsiasi ulteriore riflesso sul patrimonio futuro del leso. È questo, ad esempio, il percorso seguito dai giudici di merito siciliani, verosimilmente anche in vista dell'ordine di grandezza relativamente contenuto del danno biologico riscontrato. Non mancano, tuttavia, precedenti in cui la stessa opzione è stata adottata anche in presenza di lesioni assai più gravi o addirittura coincidenti con una totale compromissione biologica. Mentre in queste ultime ipotesi la scelta alternativa in termini di giustizia sostanziale può risultare di minore difficoltà, così aprendo un varco verso il ristoro del danno patrimoniale futuro (da incapacità lavorativa generica), essa appare forse meno impellente in vicende quale quella di cui è discorso, in cui il danno a carico della vittima è di assai minore portata. La decisione di legittimità commentata sembra però non curarsene, accantonando discipline causali più rigorose e predicando invece anche in questo caso limite la piena operatività della più benevola regola del più probabile che non, in forza della quale una lesione di una certa entità del bene salute, che a questo punto si può immaginare collocata anche appena sopra la surriferita soglia del 30% - dimensione evidentemente ritenuta rassicurante e sufficiente ad allontanare il rischio di duplicazioni e proliferazioni risarcitorie - “non potrà che tradursi anche in una diminuzione della capacità di lavorare e, quindi, di produrre un reddito”.