Le Sezioni Unite indicano la patologia della nullità (non la mera inefficacia) per la mancata traduzione dell’ordinanza cautelare
30 Aprile 2024
Il caso Il 18 luglio 2022 Ni. To. veniva sottoposto a fermo di polizia giudiziaria per tentato omicidio. Il 22 luglio 2022 il GIP celebrava l'udienza di convalida con l'assistenza di un interprete nominato sul presupposto, di cui si dava espressamente atto, che l'indagato, di nazionalità polacca, non comprendeva la lingua italiana. In pari data il giudice convalidava il fermo, applicando la misura cautelare della custodia in carcere. L'ordinanza veniva notificata all'interessato e al suo difensore in lingua italiana, senza essere tradotta in polacco. Il 21 settembre 2022 e il 24 ottobre dello stesso anno il difensore dell'indagato chiedeva al GIP la declaratoria di perdita di efficacia della misura cautelare per la mancata traduzione dell'ordinanza cautelare genetica. Il 16 novembre 2022 il GIP dichiarava non luogo a provvedere dal momento che, nelle more, la traduzione dell'ordinanza cautelare in lingua polacca era stata effettuata con notifica all'indagato l'11 ottobre 2022. Avverso l'ordinanza il difensore proponeva appello ex art. 310 c.p.p. per un verso ritenendo “non congruo” il termine temporale entro cui l'ordinanza cautelare era stata tradotta e, per altro aspetto, facendo notare che le richieste avanzate non erano finalizzate alla traduzione in lingua polacca del provvedimento del giudice, quanto piuttosto a ottenere la declaratoria di inefficacia – ex art. 306 c.p.p. – della misura cautelare. Il 24 gennaio 2023 il Tribunale del riesame rigettava l'appello osservando che la mancata traduzione del provvedimento che dispone una misura cautelare in una lingua conosciuta dall'arrestato alloglotta non ne determina l'invalidità, comportando soltanto la decorrenza dei termini per l'impugnazione dal momento in cui l'indagato o l'imputato straniero ricevono la traduzione dell'atto. Lo stesso giorno il difensore dell'indagato proponeva ricorso per cassazione. I giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali. L'indagato aveva proposto appello cautelare il 24 ottobre 2022, dopo la traduzione del provvedimento emesso dal GIP depositata il 6 ottobre 2022 e notificata al destinatario l'11 ottobre 2022. Ne derivava che costui, avendo già avuto conoscenza della traduzione del provvedimento restrittivo al momento della proposizione dell'appello ex art. 310 c.p.p., avrebbe dovuto dimostrare in che modo, rispetto al contenuto motivazionale dell'ordinanza, la mancata tempestiva conoscenza dello stesso avrebbe influito sulle proprie strategie difensive; questo in conformità all'orientamento ermeneutico della Corte di cassazione alla stregua del quale, per censurare una nullità generale a regime intermedio di un atto processuale, è necessario dedurre un pregiudizio concreto e attuale. Dimostrazione che l'indagato non aveva minimamente fornito, limitandosi a contestare genericamente la tardività della traduzione. Tale mancata deduzione è stata ritenuta pregiudizialmente produttiva di inammissibilità rispetto a tutte le doglianze sollevate. L'accertamento di conoscenza della lingua italiana Non basta la condizione di straniero perché automaticamente sorga il diritto alla traduzione degli atti. Fonti normative e la stessa giurisprudenza hanno chiarito come si debba accertare la conoscenza della lingua italiana. Al riguardo, l'art. 143 comma 1 c.p.p. esordisce così: «l'imputato che non conosce la lingua italiana». Ora: se l'imputato è cittadino italiano, si deve presumere sino a prova contraria la sua conoscenza della lingua (art. 143 comma 4 parte finale) mentre, per contro, la condizione di straniero è presupposto necessario ma non sufficiente per il sorgere del diritto alla traduzione: se lo straniero ha mostrato, in qualsivoglia maniera, di rendersi conto del significato degli atti compiuti con il suo intervento o a lui indirizzati e non è rimasto inerte ma, al contrario, ha assunto iniziative rivelatrici della sua capacità di adeguatamente difendersi, il giudice non ha alcun obbligo di provvedere alla nomina dell'interprete. Nel quale caso, l'obbligo della traduzione non sorge (Cass. pen., sez. un., n. 12/2000, Jakani, Rv. 216259 - 01). Un'ulteriore problematica concerne la ripartizione degli oneri per l'accertamento di tale circostanza fattuale. Un risalente orientamento della Corte di cassazione affermava che era onere dell'indagato dichiarare di non conoscere la lingua italiana; in assenza di una simile iniziativa l'autorità giudiziaria poteva rimanere inerte, ma tale interpretazione è stata rovesciata. C. cost. 19 gennaio 1993 n. 10 ha affermato che l'art. 143 comma 1 c.p.p. impone si proceda alla nomina dell'interprete o del traduttore immediatamente al verificarsi della circostanza della mancata conoscenza della lingua italiana da parte della persona nei cui confronti si procede, tanto se tale circostanza sia evidenziata dallo stesso interessato quanto se, in difetto di ciò, sia accertata dall'autorità procedente. È quindi onere dell'autorità giudiziaria attivarsi in tale direzione sin da subito. Le disposizioni interessate Ad avviso delle Sezioni Unite, il diritto dell'imputato o indagato alloglotti di ottenere la traduzione in una lingua conosciuta dei provvedimenti che dispongono una misura cautelare personale nei loro confronti si ricava da una pluralità di fonti normative. L'art. 6 terzo paragrafo della CEDU riconosce il diritto di ogni persona accusata di un reato di: «a) essere informato, nel più breve tempo, in una lingua che comprende ed in maniera dettagliata del contenuto dell'accusa contro di lui». L'art. 111 comma 3 Cost. (come novellato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2) prevede che la persona accusata di un reato «sia, nel più breve termine possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico», «disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa» e «sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». La Direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010, all'art. 2, par. 1, stabilisce: «Gli Stati membri assicurano che gli indagati o gli imputati che non parlano o non comprendono la lingua del procedimento penale in questione sono assistiti senza indugio da un interprete nei procedimenti penali dinanzi alle autorità inquirenti e giudiziarie, inclusi gli interrogatori di polizia, e in tutte le udienze, comprese le necessarie udienze preliminari». L'art. 3, par. 1 della stessa Direttiva prevede: «Gli Stati membri assicurano che gli indagati o gli imputati che non comprendono la lingua del procedimento penale ricevano, entro un periodo di tempo ragionevole, una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l'equità del procedimento». Tale Direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32, che ha riformulato l'art. 143 c.p.p. costituente il modello normativo su cui è costruito il diritto del soggetto alloglotta di ottenere la traduzione degli atti fondamentali in una lingua conosciuta. Il comma 1 della norma prevede: «L'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall'esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all'assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento». Il comma 2 stabilisce: «Negli stessi casi l'autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell'informazione di garanzia, dell'informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna». Ulteriormente, il d.lgs. 23 giugno 2016, n. 129 ha introdotto nel sistema processuale penale l'art. 51-bis disp. att. c.p.p. recante significative integrazioni dell'art. 143 del codice di rito penale. Nel comma 1 si stabilisce che «l'imputato ha diritto all'assistenza gratuita dell'interprete per un colloquio con il difensore» e che, se «l'esercizio del diritto di difesa richiede lo svolgimento di più colloqui in riferimento al compimento di un medesimo atto processuale, l'assistenza gratuita dell'interprete può essere assicurata per più di un colloquio». Nel comma 2 viene previsto che «quando ricorrono particolari ragioni di urgenza e non è possibile avere prontamente una traduzione scritta degli atti di cui all'articolo 143, comma 2, del codice l'autorità giudiziaria dispone, con decreto motivato, se ciò non pregiudica il diritto di difesa dell'imputato, la traduzione orale, anche in forma riassuntiva, redigendo contestualmente verbale». I contrapposti orientamenti Per un primo orientamento, l'omessa o tardiva traduzione di un'ordinanza cautelare personale nei confronti di un imputato o indagato alloglotta che non conosce la lingua italiana, incidendo esclusivamente sull'esercizio del suo diritto di difesa, non determina la nullità dell'atto, ma solo la sua inefficacia. In sintesi: la carente o tardiva traduzione del provvedimento giurisdizionale non integra un elemento costitutivo dell'ordinanza restrittiva della libertà ma, in quanto funzionale alla sua comprensione, configura unicamente un elemento imprescindibile ai fini della decorrenza del termine per l'esercizio della facoltà d'impugnazione da parte dell'avente diritto. L'avvenuta traduzione innesca una sorta di restituzione nel termine per consentire, da quel momento, l'eventuale impugnazione sulla base di una piena conoscenza dell'ordinanza cautelare. Si osserva come l'art. 143 comma 2 c.p.p. non prevede alcuna sanzione processuale per le ipotesi di omessa o tardiva traduzione dei provvedimenti che dispongono una misura cautelare personale nei confronti del soggetto alloglotta. Per altro indirizzo interpretativo, occorre chiamare in causa una vera e propria patologia dell'atto che può essere genetica o successiva alla sua emanazione. Si versa nella prima ipotesi, configurandosi una nullità a regime intermedio, quando l'omessa traduzione del provvedimento cautelare si accompagna alla piena conoscenza – da parte del giudice – della mancata conoscenza della lingua italiana da parte del destinatario; diversamente, se tale circostanza fattuale emerge solo in prosieguo della vicenda processuale, la traduzione dell'atto in un termine incongruo concretizza un'ipotesi di invalidità sopravvenuta che deve essere valutata in modo flessibile, dovendosi tenere conto sia della diffusione della lingua conosciuta dal soggetto alloglotta come anche dei tempi occorrenti per il reperimento dell'interprete. Approdo cui, pur in un contesto normativo diverso da quello vigente, era autorevolmente giunta la Corte di cassazione quando s'era specificato che «qualora sia applicata una misura cautelare personale nei confronti di un cittadino straniero che non è in grado di comprendere la lingua italiana, l'omessa traduzione del provvedimento determina la sua nullità (a regime intermedio) solo se la predetta circostanza era già nota al momento dell'emissione del titolo cautelare; laddove invece la mancata conoscenza della lingua italiana emerga nel corso dell'interrogatorio di garanzia, tale situazione va equiparata a quella di assoluto impedimento regolata dall'art. 294 comma 2 c.p.p. sicché il giudice deve disporre la traduzione del provvedimento coercitivo in un termine congruo, tanto che il termine per l'interrogatorio decorre nuovamente dalla data di deposito della traduzione, con la conseguente perdita di efficacia della misura in caso di omesso interrogatorio entro il termine predetto, ovvero di traduzione disposta o effettuata in un termine incongruo» (Cass. pen., sez. un., n. 5052/2003, dep. 2004, Zalagaitis, Rv. 226717 - 01). La decisione delle Sezioni Unite I giudici di legittimità prendono le mosse da una presa di posizione in argomento della Consulta in cui, pur vigendo un quadro normativo diverso dall'attuale, si era affermato che l'art. 143 comma 1 c.p.p. trova il suo fondamento sistematico nell'art. 24 comma 2 Cost. che assicura la difesa quale «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», prefigurando un diritto soggettivo direttamente azionabile dall'imputato o dall'indagato alloglotta riconosciuto anche dalle sopra richiamate fonti normative sovranazionali. Laddove si proceda nei confronti di uno straniero che non conosce la lingua italiana, l'art. 143 c.p.p. e la stessa figura dell'interprete devono reputarsi funzionali alla tutela del diritto di difesa, inducendo a ritenere la traduzione degli atti uno «strumento di reale partecipazione dell'imputato al processo attraverso l'effettiva comprensione dei distinti atti e dei singoli momenti di svolgimento dello stesso» (C. cost. 19 gennaio 1993, n. 10). È tale inquadramento a far ritenere corretto l'orientamento giurisprudenziale che chiama in causa la nullità a regime intermedio poiché esso si fonda su ragioni di ordine sistematico insuperabili, mentre il contrapposto indirizzo ermeneutico non appare sostenuto da un'adeguata ricognizione dei fondamenti, costituzionali e convenzionali, del diritto alla traduzione degli atti in una lingua conosciuta dall'imputato o dall'indagato alloglotta specie quando si consideri che l'ordinanza cautelare personale incide immediatamente sulla libertà personale dell'indagato (o dell'imputato) che l'art. 13 Cost. tutela come bene inviolabile e che, sul piano giurisdizionale, viene garantito dal diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24 comma 2, Cost. rilevante ex art. 2 della Carta fondamentale. Nel caso in cui la mancata conoscenza della lingua italiana da parte del cittadino straniero emerga già prima dell'emissione del provvedimento cautelare personale, ad avviso delle Sezioni Unite il provvedimento deve ritenersi adottato in assenza di uno dei suoi elementi costitutivi rappresentato dalla comprensione da parte del cittadino straniero delle ragioni che giustificano la privazione della sua libertà, essendo parte essenziale del diritto di difesa la comprensione dei motivi per i quali è intervenuta la privazione della libertà personale, che presuppone la conoscenza linguistica, diretta o mediata da un interprete. In particolare, l'art. 292 lett. c) c.p.p. prevede che l'ordinanza cautelare deve contenere «l'esposizione e l'autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato». In tal senso, è necessario assicurare al soggetto che è stato privato della libertà personale l'esercizio delle prerogative difensive tra le quali, appunto, la comprensione delle accuse elevate in una lingua conosciuta dalla persona accusata. La violazione del combinato disposto degli artt. 143 e 292 c.p.p. determina una nullità a regime intermedio; inquadramento sistematico dal quale deriva che tale patologia non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità riguardando un'ipotesi di nullità che deve essere eccepita con l'impugnazione dell'ordinanza applicativa dinanzi al tribunale del riesame, restando altrimenti preclusa la sua deducibilità e la sua rilevabilità. Quando, per converso, la mancata conoscenza della lingua italiana emerga in un momento successivo all'adozione del provvedimento restrittivo della libertà, legittimamente non accompagnato da traduzione, sorge l'onere per il giudice di procedere alla traduzione del provvedimento in un termine congruo. Dal punto di vista dell'inquadramento sistematico di tale ipotesi, appare incongruo riferirsi alla sopravvenuta inefficacia dell'atto dal momento che tale categoria viene riferita dal vigente ordinamento processuale a casi diversi da quello in considerazione (si veda, in particolare, il contenuto degli artt. 284 e ss., 300 e 306 c.p.p.), dovendosi più correttamente fare riferimento al sistema delle nullità ex art. 178 comma 1 lettera c) c.p.p. – dedicato alla necessità che siano osservate le disposizioni concernenti "l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza" dell'imputato – con riguardo alla dimensione del "primario" diritto di difesa coinvolto. Del resto, l'intervento dell'indagato o dell'imputato nel procedimento in cui è sottoposto a una misura cautelare implica una sua "partecipazione attiva e cosciente" che presuppone la garanzia effettiva delle prerogative difensive del soggetto processuale. Vengono in rilievo, al riguardo, le previsioni di cui all'art. 51-bis disp. att. c.p.p. sopra richiamate con l'importante specificazione del comma 3 ove si chiarisce, nell'ambito delle strategie difensive che possono essere adottate, come la persona ristretta nella libertà può rinunciare alla traduzione in forma scritta del provvedimento restrittivo. Le Sezioni Unite hanno poi cura di precisare due profili rilevanti nella materia in rassegna. Per un verso, l'accertamento relativo alla conoscenza da parte dell'imputato della lingua italiana spetta al giudice di merito, risolvendosi in un'indagine di mero fatto non censurabile in sede di legittimità se motivato in termini corretti ed esaustivi. Per altro aspetto, la ponderazione della “congruità temporale” entro cui va disposta la traduzione dell'ordinanza cautelare implica che i profili fattuali coinvolti possono essere fortemente variegati chiamando in causa, ad esempio, la complessità del provvedimento che deve essere tradotto, l'elevato numero dei soggetti coinvolti nelle operazioni di traduzione, la difficoltà di reperire un traduttore che comprenda la lingua del soggetto alloglotta, per la rarità dell'idioma parlato dallo straniero. Profili critici delle ordinanze cautelari complesse Il rispetto del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione non esaurisce la complessità di casi che possono presentarsi nella prassi giudiziaria. Ricorre con frequenza l'ipotesi di ordinanze cautelari personali soggettivamente e oggettivamente cumulative, vale dire adottate nei riguardi di una considerevole pluralità di indagati per plurime fattispecie di reato, spesso comprensive di delitti associativi. Lo straniero alloglotta che vanta il diritto alla traduzione del provvedimento restrittivo della libertà non necessariamente è chiamato a rispondere di ogni e qualsiasi titolo cautelare, ma solo di una parte di quelli complessivamente rifluiti nel provvedimento giurisdizionale. Da qui il porsi del problema inteso a verificare se sia in linea con la esegesi della Corte di legittimità una traduzione solo parziale dell'ordinanza cautelare. Per un verso, si devono tenere in debita considerazione il profilo economico che concerne il compenso al professionista incaricato della traduzione nonché l'arco temporale entro il quale egli deve adempiere al compito affidatogli. Per altro aspetto, rimane inevasa la questione intesa a capire quale margine di apprezzamento possa o debba essere riservato al giudice nella selezione di quanto va tradotto, nel difficile bilanciamento tra la cernita di quanto riguarda le contestazioni mosse all'indagato alloglotta e la complessiva economia di motivazione dell'ordinanza cautelare. |