Liberalità senza forma e regime fiscale
02 Maggio 2024
Massima In tema di imposta sulle donazioni, l'art. 56-bis c. 1 D.Lgs. 346/1990 va interpretato nel senso che le liberalità diverse dalle donazioni, ossia tutti quegli atti di disposizione mediante i quali viene realizzato un arricchimento (del donatario) correlato ad un impoverimento (del donante) senza l'adozione della forma solenne del contratto di donazione tipizzato dall'art. 769 c.c., e che costituiscono manifestazione di capacità contributiva, sono accertate e sottoposte ad imposta (con l'aliquota dell'8%) – pur essendo esenti dall'obbligo della registrazione – in presenza di una dichiarazione circa la loro esistenza, resa dall'interessato nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento di tributi, se sono di valore superiore alle franchigie oggi esistenti (Euro 1.000.000 per coniuge e parenti in linea retta, Euro 100.000 per fratelli e sorelle, Euro 1.500.000 per persone portatrici di handicap). In senso conformeIl caso Un soggetto (nel caso di specie lo zio) impartiva alla propria banca, sita in Svizzera, l’ordine di trasferire denaro e strumenti finanziari per il complessivo importo di euro 816.116,00 su un diverso conto corrente, sempre in Svizzera, intestato ad un altro soggetto (nel caso di specie la nipote). Pochi mesi dopo la nipote effettuava presso un Notaio di Lugano una non meglio identificata rinuncia all’attribuzione effettuata a suo favore. Successivamente l’Agenzia delle Entrate, acquisendo le risultanze di quanto emerso dalla procedura di voluntary disclosure di cui alla L. 186/2014 della quale si era avvalso lo zio, emetteva avviso di accertamento di versamento dell’imposta di donazione per un importo pari all’8% di quanto trasferito. La nipote promuoveva impugnazione presso la Commissione Provinciale di Bergamo che, però, non l’accoglieva reputando che l’operazione, ancorché priva di requisiti formali, fosse qualificabile come una «liberalità» e, come tale, da assoggettare all’imposta di donazione. Analoga posizione veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Ecco che, allora, parte soccombente promuoveva ricorso per Cassazione affidandolo a quattro motivi:
È, tuttavia, evidente che è sul primo dei quattro che si accentri la reale questione giuridica della vertenza, poiché è solo dalla corretta qualificazione del trasferimento di ricchezza che può linearmente ricavarsi il relativo trattamento fiscale. Le questioni La vertenza in commento pone essenzialmente due questioni:
Soluzioni giuridiche Prima di entrare nel merito delle questioni sopra proposte, occorre partire da una condivisibile raffigurazione del panorama: l'atto gratuito è il genus del quale la liberalità ne è una sottospecie, a sua volta idealmente suddivisibile in quella donativa, cioè attuata attraverso il formale contratto di donazione, e quella non donativa, cioè risultante da atti diversi rispetto a quello di cui all'art. 769 c.c. (così, G. Capozzi (a cura di) A. Ferrucci - C. Ferrentino, Successioni e donazioni, Milano, Giuffrè, 2015, II, 1505). Prova dell'assunto è data dall'art. 809 c.c. che è, appunto, rubricato «norme sulle donazioni applicabili ad altri atti di liberalità», così chiarendo che quando un soggetto intende arricchire un'altra parte può farlo non solo attraverso un contratto di donazione, ma anche con un diverso strumento tecnico-giuridico che, di fatto, raggiunge analogo risultato che si sarebbe ottenuto concludendo il contratto di donazione. La casistica in tal senso è vasta, di seguito sono riepilogate solo alcune esemplificazioni.
In tutti i casi sopra citati abbiamo un soggetto che si impoverisce, uno che si arricchisce ed il collante tra le due condizioni è dato dall'intento liberale … eppure nessun contratto di donazione è stato stipulato: ecco che, pragmadicamente, è “nata” una liberalità non donativa. Passando al versante del prelievo indiretto (leggasi, imposta di donazione) il legislatore è categorico: l'art. 1 D.Lgs. 346/1990, c.d. Testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni (per brevità, in seguito, t.u.i.s.), infatti, stabilisce:
Certo, c'è un aspetto pratico di non poco conto. Il contratto di donazione deve essere registrato dal Notaio rogante stante l'art. 55 t.u.i.s. che richiama le regole del DPR 131/1986 e, quindi, l'Agenzia delle Entrate ha a propria disposizione tutti gli elementi per procedere alla riscossione di quanto dovutole; Nella liberalità non donativa, invece, non vi è un corredo documentale a disposizione dell'erario (banalmente: se il padre paga le rate del mutuo del figlio addebitandole sul proprio conto … come può l'Agenzia delle Entrate riscuotere un'eventuale imposta di donazione dato che la vicenda non “transita” presso i pubblici uffici? O ancora, come può affermarsi con certezza che il pagamento da parte del padre è avvenuto per spirito di liberalità e non magari ad altro titolo?). La soluzione adottata dal legislatore deve essere, fatalmente, rimodulata: in tal senso, l'art. 56 bis t.u.i.s. prevede che l'imposta sia sì dovuta, ma o perché la liberalità risulti dalla registrazione effettuata volontariamente da parte del contribuente o perché, nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento di tributi, risulti dalle dichiarazioni rese dall'interessato sottoposto a verifica. Su quest'ultima eventualità, che è quella alla base del contenzioso in commento, vi è – inoltre – un difetto di coordinamento normativo, poiché il citato art. 56 bis t.u.i.s. continua a far riferimento ad un parametro patrimoniale, cioè l'incremento superiore a trecentocinquanta milioni di lire, non più operante nell'attuale impianto legislativo. In questa zona critica si è insinuata la giurisprudenza affermando che l'aliquota dovuta, nonostante ad oggi ne siano previste tre (4%, 6%, 8%) in base al rapporto intercorrente tra donante e donatario, sia sempre e comunque quella più elevata dell'8% a prescindere dal rapporto soggettivo in essere tra le parti, tuttavia:
Osservazioni La pronuncia in commento, pur non dettando dei principi di particolare innovatività, ha suscitato un certo clamore mediatico: da molti, infatti, è stata propinata come l'affermazione di una sorta di zona franca tributaria tale per cui basterebbe non formalizzare l'atto di donazione per uscire indenni dal pagamento dell'imposta. In realtà, l'art. 56 bis t.u.i.s. dice proprio questo, e cioè che solo la registrazione volontaria o la dichiarazione ammissiva in seno ad un accertamento reddituale possono far scattare il prelievo sulla liberalità indiretta dato che, come tale, la stessa mai è soggetta al vincolo di forma (tra le molte: Cass. 5 giugno 2013 n. 14197, Cass. 16 marzo 2004 n. 5333, Cass. 29 marzo 2001 n. 4623, Cass. 21 gennaio 2000 n. 642, Cass. 3 novembre 1999 n. 3499, Cass. 14 maggio 1997 n. 4231, Cass. 10 febbraio 1997 n. 1214, Cass. 28 novembre 1988 n. 6416, Cass. 19 febbraio 1985 n. 1446, Cass. 16 ottobre 1976 n. 3526; contra, del tutto isolatamente, Trib. Genova 2 agosto 2006). Occorre - però - dire che la Corte, ad avviso di chi scrive, ha alimentato l'equivoco nel momento in cui accanto alle donazioni dirette ed indirette ha reiteramente utilizzato la tipologia della donazione «informale» ivi includendovi due macrocategorie:
Al netto della valutazione delle singole ipotesi invocate, resta una questione di fondo: ha un senso ontologico la categoria della donazione priva di forma? Il dubbio, a chi scrive, nasce perché (freudianamente?) gli Ermellini, a sostegno della categoria della «donazione informale», enunciano vicende che la giurisprudenza stessa, come già sopra riportata, tradizionalmente ha sempre ricondotto allo schema delle liberalità non donative. Ad ogni modo il ragionamento della Suprema Corte è pienamente convincente dato che da un lato ribadisce come la donazione indiretta non sia soggetta ad obbligo di registrazione (e diversamente non poteva essere … altrimenti l'art. 56 bis t.u.i.s. sarebbe norma completamente inutile) e dall'altro che il meccanismo impositivo della figura in esame debba essere fisiologicamente armonizzato con il sopravvenuto quadro impositivo nel quale l'imposta è dovuta solo su quanto eccedente l'ammontare delle eventuali franchigie ancorché venga, discutibilmente, ribadito che «l'aliquota da applicare è quella dell'8%, che costituisce attualmente la percentuale massima prevista dalla legge, a prescindere dal rapporto di parentela del beneficiario, così da mantenere la funzione latamente sanzionatoria contemplata dal legislatore». Tale punto desta qualche disagio: non solo perché un'aliquota fiscale viene vista in chiave punitiva, così promuovendola al rango di sanzione, ma anche perché qualsiasi presunta punizione ha una logica intrinseca solo se posta come reazione alla violazione di un obbligo (nel caso di specie quello di omessa registrazione) che la Corte stessa ha correttamente reputato non sussistere. Per quanto esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
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