Preliminare sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio di un provvedimento amministrativo: qualificazione e responsabilità del mancato avveramento

03 Maggio 2024

Nella sentenza in commento la Suprema Corte si occupa della qualificazione della condizione sospensiva del cambio di destinazione urbanistica da parte del Comune apposta ad un contratto preliminare di vendita e dell'applicabilità dell'art. 1359 c.c.

Massima

“La condizione apposta dalle parti consistente nell'ottenimento di un provvedimento amministrativo da parte della pubblica amministrazione su istanza del promissario acquirente deve qualificarsi come condizione potestativa mista, sicché non rileva un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente stesso ai fini dell'applicabilità della fictio iuris dell'art.1359 c.c., sia perché entrambe le parti sono interessate all'avveramento della condizione e sia perché l'omissione di un'attività può considerarsi contraria a buona fede soltanto se tale attività è prescritta da un obbligo giuridico, cosa che non è l'attuazione di un elemento potestativo”.

Il caso

La società Alfa prometteva di vendere alla società Beta un immobile sito in Nichelino apponendo al contratto la condizione sospensiva del mutamento di destinazione urbanistica dell'area. Contestualmente, con scrittura privata, la società Alfa conferiva mandato a Beta affinché portasse a termine la procedura necessaria per il cambio di destinazione urbanistica presso il Comune di Nichelino.

Non addivenendo all'atto di compravendita per mancato cambio di destinazione d'uso, la società Alfa ricorreva in giudizio per ottenere dapprima l'esecuzione in forma specifica del preliminare ed in subordine per far accertare la legittimità del recesso con contestuale ritenzione della caparra ai sensi dell'art.1385 c.c., essendo la società Beta parte inadempiente.

Il Tribunale di Torino respingeva entrambe le domande della società Alfa, la quale appellava la sentenza.

La Corte d'Appello riformava la sentenza riconoscendo che effettiva controinteressata all'avveramento della condizione fosse la società Beta stante il contratto di mandato connesso al preliminare e quindi l'onere della prova dell'incolpevole inadempimento del cambio di destinazione urbanistica gravava sulla stessa. Non avendo dato tale prova, l'evento dedotto in condizione doveva ritenersi avverato ai sensi dell'art. 1359 c.c., di conseguenza prendeva efficacia retroattivamente tra le parti il preliminare ex art. 1360 c.c. ed il recesso con contestuale ritenzione della caparra era quindi legittimo.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso principale Beta, resisteva e proponeva ricorso incidentale condizionato la società Alfa. Il ricorrente lamentava quanto segue:

  • nullità della sentenza per motivazione meramente apparente avendo ritenuto coperto da giudicato la considerazione che parte controinteressata fosse la società Beta;
  • omesso esame di un fatto decisivo, in particolare che il mancato avveramento della condizione non era dovuto alla propria inerzia ma dalla pacifica circostanza che fosse ancora in corso la trattativa tra le parti per le modifiche da apportare agli accordi ed alla condizione stessa;
  • violazione e falsa applicazione degli artt. 1359 e 2697 c.c. in relazione all'art. 360 n.3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto fittiziamente avverata la condizione per inottemperanza della ricorrente all'onere probatorio che invece doveva gravare sulla società Alfa, la quale invocava la fictio iuris dell'art.1359 c.c..

La Cassazione accoglieva quest'ultimo motivo ritenendo che la condizione apposta al contratto preliminare debba considerarsi potestativa mista dipendendo sia dalla volontà della P.A. di approvare il cambio di destinazione urbanistica che dall'attività del promissario acquirente nell'istruire la pratica necessaria affinché la p.a. adotti il provvedimento richiesto. Ne deriva l'inapplicabilità dell'art.1359 c.c. in quanto anche la parte che deve provvedere ad istruire la pratica presso la P.A. ha interesse all'avveramento della condizione e la semplice omissione di una attività non è indice di un atteggiamento dolo o colposo (del quale non si è data prova nel giudizio) né può ritenersi contraria a buona fede a meno che tale attività costituisca oggetto di un obbligo giuridico, obbligo che non è rilevabile in una condizione mista stante l'elemento potestativo.

La questione

La pronuncia in commento si occupa principalmente di due questioni: la prima relativa alla qualificazione della condizione di un'attività della pubblica amministrazione su istanza della parte promissaria acquirente e la seconda relativa all'applicabilità degli artt.1358 e 1359 c.c. a questo tipo di condizioni.

Le soluzioni giuridiche

Le condizioni che prevedono l'attività di un terzo su istanza di parte, che si tratti di rilascio di un provvedimento da parte della pubblica amministrazione o della concessione di un mutuo da parte di un istituto bancario al fine di finanziare l'acquisto, sono qualificate dalla giurisprudenza maggioritaria come "miste", in quanto dipendono dalla volontà della parte ma anche dal fatto del terzo (cfr. Cass. 22 giugno 2023 n. 17919, Cass. 11 settembre 2018 n. 22046).

Più discussa è l'opinione se a tali condizioni si debba applicare o meno la fictio iuris dell'art. 1359 c.c. e se il comportamento omissivo della parte debba considerarsi violazione del principio di buona fede e quindi configurare una sua responsabilità per il mancato avveramento della condizione.

Un primo orientamento dottrinale (cfr. Bianca, pag.555) e giurisprudenziale (cfr. Cass. 3 agosto 2023 n. 23713, Cass. 28 dicembre 2020 n. 29641, Cass. 4 aprile 2013 n. 8172, Cass. 5 giugno 1996 n. 5243 e Cass. 25 gennaio 1983 n. 702) ritiene applicabile l'art. 1359 c.c. solo alle condizioni causali e potestative miste, in quanto la norma dà rilevanza non solo all'atteggiamento doloso della controparte ma anche a quello colposo, da valutare quindi secondo il criterio della normale diligenza e non solo secondo il criterio della buona fede dettato dall'art. 1358 c.c. applicabile a tutti i generi di condizioni. Secondo questo orientamento il mancato avveramento della condizione è quindi imputabile alla parte che non compie le attività che dipendono da lui affinché la P.A. provveda al rilascio delle autorizzazioni dedotte in condizione. L'onere di provare la condotta dolosa o colposa incombe su chi invoca tale fictio iuris, non essendo sufficiente il mero comportamento inattivo.

Un diverso orientamento (Cass. 22 giugno 2023 n. 17919, Cass. 31 maggio 2022 n.17571, Cass. 28 agosto 2020 n. 18031, Cass. 11 settembre 2018 n. 22046), fatto proprio dalla sentenza in commento, ritiene invece che non sia applicabile alle condizioni miste la fictio iuris dell'art.1359, in quanto non c'è una parte che ha interesse contrario all'avveramento della condizione (c.d. condizione bilaterale), e in quanto l'omissione di un'attività non può di per sé considerarsi indice di atteggiamento doloso o colposo né tanto meno contraria al principio di buona fede e quindi essere fonte di responsabilità se tale attività non è contenuta in un obbligo giuridico.

Un ultimo e più risalente orientamento (cfr. Rescigno e Cass. 3 aprile 1996 n. 3084) ritiene invece che tutte le volte in cui sia coinvolta la p.a., direttamente come parte contraente, o indirettamente come terzo da cui dipende la condizione, non sia possibile applicare la finzione dell'art. 1359 c.c., in quanto la P.A. è volta di per sé a tutelare interessi superiori non sostituibili da finzioni giuridiche, ma che sia applicabile l'art. 1358 c.c. ogni volta in cui il mancato avveramento della condizione sia imputabile alla violazione del principio di buona fede della parte.

Osservazioni

Nello schema contrattuale l'apposizione di una condizione rileva al fine di soddisfare gli interessi delle parti e la rimodulazione del rischio dell'affare, risponde sostanzialmente al principio dell'autonomia contrattuale.

L'ampio contributo giurisprudenziale (scarso quello dottrinale) fa intuire come sia forte l'implicazione pratica più che teorica dell'argomento affrontato dalla sentenza in commento, ne discende la difficoltà (a mio avviso impossibilità) di trarne un principio fisso, applicabile ad ogni fattispecie ma non può essere l'autonomia privata a prevaricare sui principi e valori posti dal codice civile in materia contrattuale, in particolare quelli portati dagli artt. 1175, 1375 e lo stesso 1358 c.c.

Qualora prevalesse l'orientamento dell'inapplicabilità della fictio iuris a tutte le condizioni potestative miste ne discenderebbe un'applicazione dell'art. 1359 c.c. limitata alle sole condizioni unilaterali, limite non rinvenibile nella norma. Forse la decisione sull'applicabilità o meno di tale disposto, dovrebbe fondarsi sull'analisi concreta degli interessi delle parti, ma non solo quelli della fase genetica del contratto, dove ovviamente entrambi i contraenti sono intenzionati alla conclusione dell'affare (se così non fosse mancherebbe la volontà e quindi l'atto sarebbe nullo), ma soprattutto quelli durante la fase di pendenza della condizione che potrebbero essere mutati, sollecitati dalle diverse condizioni di mercato o da differenti valutazioni inerenti la bontà dell'affare.

Ritengo che la soluzione debba essere trovata nell'analisi degli interessi in gioco nella fattispecie concreta da interpretarsi secondo i valori del nostro ordinamento al fine di valutare l'autonomia negoziale alla luce degli interessi meritevoli di tutela.

Guida all'approfondimento

  • Bianca Massimo, Il Contratto, collana diritto civile, volume terzo, pagine 537 e ss.
  • Diener Maria Cristina, Il contratto in generale, pagine 402 e ss.
  • G. Cian-A. Trabucchi, Commentario breve al codice civile, quindicesima edizione.

Sommario