Rigetto della richiesta di decreto penale di condanna per illegalità della pena: non c’è incompatibilità se sulla nuova richiesta è investito lo stesso giudice

06 Maggio 2024

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità sollevate con riferimento all’art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna, per ritenuta illegalità della pena proposta dal pubblico ministero, a pronunciarsi su una nuova richiesta di decreto penale, avanzata dall’organo dell’accusa in attuazione dei rilievi formulati nel provvedimento di rigetto.

La questione

La decisione della Corte è stata sollecitata dalle questioni sollevate dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che ha ritenuto configurabili nella vicenda sottoposta alla sua cognizione gli stessi  deficit  di legittimità costituzionale rilevati dalla Corte con la sentenza n. 16/2022.

Per il giudice  a quo, anche in caso di  rigetto della richiesta di decreto penale di condanna  per ritenuta illegalità della pena, con restituzione degli atti al pubblico ministero, si verificano i presupposti che hanno sorretto la pronuncia di accoglimento delle questioni oggetto della sentenza n. 16 del 2022. A suo parere, in questo caso la  pregressa valutazione di merito  sulla medesima  res iudicanda  risulterebbe implicita nell'esclusione di una sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., sicchè il rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna e la successiva regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, con la conseguente proposizione di una ulteriore richiesta di decreto penale di condanna, «aprirebbe una nuova e distinta fase di giudizio, nell'ambito della quale le precedenti valutazioni esplicherebbero la propria efficacia pregiudicante».

Per il giudice  a quo, la mancata previsione dell'incompatibilità  nel caso considerato «violerebbe i princìpi di  terzietà  ed  imparzialità  del giudice di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost., poiché la nuova decisione sul merito della causa potrebbe essere, o apparire, condizionata dalla ‘forza della prevenzione', ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto nella precedente valutazione sul merito dell'accusa».

La Corte  non ha ritenuto fondate le questioni  in ragione dell'inesistenza – secondo quanto emerge dalla corposa elaborazione giurisprudenziale prodotta in materia di “attività pregiudicante” - di una delle condizioni individuate dalla Corte per ritenere costituzionalmente imposta la previsione di un'ipotesi di incompatibilità: la valutazione del giudice deve attenere al merito dell'ipotesi accusatoria mentre nella fattispecie l'errore in cui è incorso il rappresentante dell'accusa ha escluso  a priori  la possibilità di accoglimento della richiesta, atteso anche che il giudice, in sede di decisione sulla richiesta, «non è abilitato a modificare la pena».

Le argomentazioni della Corte

Le riflessioni formulate dalla Corte in ordine alle questioni sollevate pongono al centro dell'attenzione dell'interprete la  credibilità dell'esercizio della funzione giurisdizionale  e i fattori determinati da esaminare, caso per caso, per sindacare l'eventuale  status  di incompatibilità del giudice.

La Corte coglie l'occasione per ribadire che «la disciplina dell'incompatibilità del giudice trova la sua  ratio  nella  salvaguardia dei princìpi di terzietà e imparzialità della giurisdizione, essendo rivolta ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere – o apparire – condizionata dalla ‘forza della prevenzione', ossia dalla naturale ‘tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima  res iudicanda' (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 172/2023 e, nello stesso senso, sentenze n. 64n. 16 e n. 7 del 2022)».

E' noto che in relazione alla «cosiddetta  incompatibilità orizzontale, di cui al censurato comma 2 dell'art. 34 c.p.p., attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che la precede, la Corte ha precisato che «l'incompatibilità presuppone una relazione tra due termini: una ‘fonte di pregiudizio' (ossia un'attività giurisdizionale atta a generare la forza della prevenzione) e una ‘sede pregiudicata' (vale a dire un compito decisorio, al quale il giudice, che abbia posto in essere l'attività pregiudicante, non risulta più idoneo) (sentenza n. 16/2022)».

Che tale “compito decisorio” sia presente con l'attivazione del rito alternativo in esame è del tutto evidente per la Corte: «il controllo demandato al GIP attiene non solo ai  presupposti del rito, ma anche al  merito  dell'ipotesi accusatoria, postulando una verifica del fatto storico e della responsabilità dell'imputato (sentenze n. 16/2022 e n. 346/1997). Il giudice può sindacare, tra l'altro, la congruità della pena richiesta dal pubblico ministero, l'esattezza della qualificazione giuridica del fatto e la sufficienza degli elementi probatori (ipotesi tutte che, in caso di esito negativo della verifica, portano al rigetto della richiesta). Egli può anche prosciogliere l'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p.».

Per giungere alle conclusioni, la Corte svolge un altro passaggio argomentativo che merita di essere sottolineato: in merito all'attività “pregiudicante”, sono espressamente elencate le  condizioni, tutte necessarie, affinché si possa configurare la necessità costituzionale di prevedere un'ipotesi di incompatibilità endoprocessuale.

Innanzitutto, «le preesistenti valutazioni devono cadere sulla  medesima  res iudicanda; il giudice deve essere stato chiamato a effettuare una  valutazione di atti anteriormente compiuti, in maniera strumentale all'assunzione di una decisione (e non semplicemente aver avuto conoscenza di essi); tale valutazione deve attenere al merito dell'ipotesi accusatoria (e non già al mero svolgimento del processo); infine, le precedenti valutazioni devono collocarsi in una  diversa fase del procedimento».

Rispetto alla vicenda oggetto di esame, la Corte non ha alcun dubbio che le prime due condizioni risultino esistente, così come l'ultima, atteso che il rigetto della richiesta di emissione di decreto penale di condanna ha comporta una  regressione  del processo alla diversa fase delle indagini preliminari e una conseguente  piena riespansione dei poteri del pubblico ministero  in ordine alle modalità di esercizio dell'azione penale, verificatasi nel processo  a quo   con una seconda – e diversa – richiesta di decreto penale di condanna.

Le conclusioni

E' sulla  terza condizione  che si sofferma, da ultimo, la Corte, operando una sottile distinzione nell'ambito del progressivo sviluppo del relativo procedimento cognitivo.

In altre parole,  non si può configurare l'attività “pregiudicante” in quanto manca una vera e propria valutazione di merito  (e ciò preclude l'operatività delle conclusioni formulate nella sentenza n. 16 del 2022), atteso che la pena illegalmente indicata dal pubblico ministero non può essere modificata dal giudice, «con la conseguenza che l'errore in cui è incorso il rappresentante dell'accusa esclude  a priori  la possibilità di accoglimento della richiesta».

Appare evidente come la Corte giunga a distinguere  due diversi momenti afferenti al controllo giurisdizionale: uno preliminare, che prescinde dalla formazione di un convincimento sul tema della responsabilità, e quello centrato sull'accertamento del fatto, tant'è che ha affermato come la vicenda in esame metta in evidenza «una mera valutazione  ab externo, che non richiede al giudice di entrare nel merito dell'accertamento del fatto e della responsabilità dell'imputato».

Se ciò è vero, il rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna per le ragioni indicate  non possiede una  «forza pregiudicante  tale da perturbare la terzietà e l'imparzialità del giudice chiamato a svolgere una funzione di giudizio nella sede pregiudicata».

Però, aggiunge la Corte, resta sempre al «giudice la possibilità di allegare – ove ne ricorrano i presupposti concreti – la sussistenza delle ‘gravi ragioni di convenienza' che legittimerebbero la sua astensione a norma dell'art. 36, comma 1, lettera h), c.p.p.».

    

*Fonte: DirittoeGiustizia

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