Tutela della proprietà: legittime le misure degli Stati per proteggere il patrimonio culturale dall'export illecito a garanzia dell’accesso pubblico alle opere d’arte

La Redazione
20 Maggio 2024

Con sentenza del 2 maggio 2024, n. 35271/19, la Corte EDU, confermando le tutele previste dagli strumenti giuridici internazionali, ha concluso che non vi è stata violazione dell'art. 1 Protocollo n. 1 della Convenzione EDU su un caso inerente a una decisione di confisca emessa dalle autorità italiane per il recupero della statua "Giovane vincitore", parte del patrimonio culturale italiano, al museo della villa Getty, a Malibu. La Corte, sottolineando l'importanza della protezione dei beni culturali contro l'esportazione illecita, ha ritenuto proporzionata la confisca in quanto la nota fondazione d'arte ricorrente ha agito in modo negligente o in malafede nell'acquisto, essendo a conoscenza delle pretese dello Stato italiano e degli sforzi da esso intrapresi per recuperare la statua.

I richiedenti della causa sono un'organizzazione senza scopo di lucro di diritto americano e quattordici cittadini americani, membri del Consiglio di amministrazione.

Nel 1964, dei pescatori scoprirono il Giovane Vincitore (statua in bronzo anche conosciuta come Atleta di Fano o Lisippo di Fano) nel Mar Adriatico, al largo di Pedaso, nella regione delle Marche, in Italia. La statua fu venduta nel 1965 ad un acquirente non identificato. Furono aperte due indagini: una per ricezione e ricettazione di un oggetto archeologico rubato appartenente allo Stato (il processo non portò a una condanna definitiva) e l'altra per esportazione illegale, dopo che una società con sede nel Liechtenstein mise la statua all'asta a Monaco, in Germania (questa indagine fu chiusa).

Nel luglio del 1977, un'organizzazione non a scopo di lucro di diritto americano concluse un contratto nel Regno Unito per l'acquisto della statua, che si trovava a Monaco, per 3,95 milioni di dollari statunitensi. Aveva precedentemente ricevuto consulenze legali, durante le quali era stata informata delle sentenze e decisioni prese dalle autorità italiane riguardo alla statua.

La statua fu importata sul territorio americano al porto di Boston il 15 agosto 1977 e arrivò nel marzo del 1978 alla villa Getty a Malibu, California, Stati Uniti d'America.

Le autorità italiane tentarono più volte di recuperare la statua, tramite diverse modalità e tramite varie istituzioni: tra le altre cose, coinvolsero Interpol, condussero diverse indagini penali a livello nazionale e inviarono una rogatoria al governo del Regno Unito (dove la statua si trovava in transito) e successivamente un'altra alle autorità degli Stati Uniti. Tuttavia, i loro sforzi furono vani.

Successivamente, fu il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali italiano a cercare di ottenere il ripristino della statua. Inviarono richieste diplomatiche al governo degli Stati Uniti in tal senso, facendo riferimento alla Convenzione dell'UNESCO per prendere misure per vietare e prevenire l'importazione, l'esportazione e il trasferimento illeciti di beni culturali, di cui sia gli Stati Uniti che l'Italia erano firmatari. Tuttavia, queste richieste rimasero senza successo, anche se si era trovato un accordo per il ripristino di altri tesori archeologici: il museo G. rifiutò di restituire l'opera, sostenendo che le presunte violazioni erano prescritte e che l'organizzazione americana aveva acquistato la statua in buona fede.

Fu avviata una procedura di esecuzione e nel 2010 il Tribunale di Pesaro, respingendo un'eccezione sollevata dall'organizzazione americana, emise una decisione (di confisca) finalizzata al recupero della statua "ovunque si trovasse". Il tribunale affermò in particolare che la statua era stata scoperta nelle acque internazionali da una nave con bandiera italiana e che quindi era diventata proprietà dell'Italia. I richiedenti contestarono questa decisione, ma il loro ricorso fu respinto. La decisione di confisca fu confermata nel 2018.

L'organizzazione d'arte presentò due ricorsi in Cassazione. Il 2 gennaio 2019, la Corte di cassazione confermò la decisione di restituire la statua; considerò che da un lato la confisca non fosse una pena poiché mirava principalmente al recupero della statua e dall'altro che l'organizzazione avesse acquistato la statua senza averne determinato l'origine in modo adeguato, nonostante i dubbi che il signor G. Sr. dichiarava di avere avuto.

La Corte giudicò che il bronzo appartenesse all'Italia per diverse ragioni, tra cui il pavillon della barca da pesca, aggiungendo che "vi era una continuità tra la civiltà greca, che si era estesa nel territorio italiano, e l'esperienza culturale romana successiva, una continuità confermata dalla statua del Giovane Vincitore".

Il Ministero della Giustizia italiano ha inviato alle autorità degli Stati Uniti una rogatoria che fa riferimento a diversi strumenti internazionali, inclusa la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale. Questa rogatoria è attualmente in fase di elaborazione.

La statua si trova attualmente al museo della villa Getty, a Malibu.

Invocando l'art. 1 Protocollo 1 della Convenzione EDU, i ricorrenti sostenevano che la decisione di confisca era giuridicamente imprevedibile e pertanto illegittima, che la statua non faceva parte del patrimonio culturale dell'Italia e che lo scopo perseguito dalla decisione di confisca non era quindi legittimo, oltre ad imporre un onere eccessivo sugli stessi.

Decisione della Corte

La Corte EDU ritiene che la decisione di confisca presa nei confronti della statua avesse una base legale chiara (art. 174 ,§ 3, d.lgs. n. 42/2004), che i ricorrenti avrebbero dovuto prevedere che una tale decisione potesse essere presa e che la stessa fosse compatibile con la preminenza del diritto. Sottolinea, tra l'altro, che l'Italia non è l'unico Paese in cui le azioni volte al recupero di beni culturali perduti o rubati non sono soggette a prescrizione, che la legislazione di diversi altri Stati europei prevede disposizioni in tal senso e che inoltre è opportuno accordare alle autorità una certa flessibilità in questo campo.

La Corte ritiene che l'assenza di un limite di prescrizione non sia di per sé sufficiente per concludere una violazione. La Corte ricorda che la protezione del patrimonio culturale e artistico di un paese rappresenta un obiettivo legittimo ai sensi della Convenzione. Osserva inoltre che diversi strumenti internazionali sottolineano l'importanza della protezione dei beni culturali contro l'export illecito, tra cui la Convenzione dell'UNESCO del 1970 concernente le misure da adottare per vietare e impedire l'importazione, l'esportazione e il trasferimento illeciti di beni culturali, la Convenzione dell'UNIDROIT del 1995 sui beni culturali rubati o esportati illecitamente, nonché, nell'ambito dell'Unione europea, la direttiva 2014/60/UE relativa alla restituzione dei beni culturali che hanno lasciato il territorio di uno Stato membro illecitamente ed il regolamento (CE) n. 116/2009 concernente l'esportazione di beni culturali.

Per quanto riguarda la protezione garantita dalla Convenzione, la Corte ritiene che non si possa mettere in discussione la legittimità in base a questo strumento delle misure adottate dagli Stati allo scopo di proteggere il patrimonio culturale dall'export illecito al di fuori del proprio paese d'origine o, in caso di export illecito, di garantirne il recupero e la restituzione a tale Paese, misure che mirano, in entrambi i casi, a favorire il più efficacemente possibile un ampio accesso del pubblico alle opere d'arte.

Tenendo conto del ragionamento della Corte di cassazione, la Corte ritiene che le autorità italiane abbiano dimostrato in modo ragionevole che la statua facesse parte del patrimonio culturale italiano e che, al momento in cui le giurisdizioni nazionali avevano emesso la decisione di confisca, la statua apparteneva legalmente allo Stato italiano. Per i giudici di Strasburgo, la decisione della Corte di cassazione non era né manifestamente erronea né arbitraria, in quanto presa per motivi di utilità pubblica e nel rispetto dell'interesse generale, ai sensi dell'art.1 Protocollo n. 1, mirando a proteggere il patrimonio culturale italiano.

La Corte ritiene che la natura della transazione, ovvero l'acquisizione di un bene culturale, giustifichi l'applicazione di un elevato standard di diligenza in questo caso. Sottolinea, in questo contesto, che l'acquirente di un bene dovrebbe verificare attentamente la sua origine per evitare possibili misure di confisca. Riguardo specificamente all'acquisizione dei beni culturali, prende atto dell'alto standard di diligenza imposto dall'art. 4 Convenzione dell'UNIDROIT del 1995 e dall'art. 10, § 2, direttiva 2014/60/UE, nonostante tali testi non siano applicabili nel caso di specie.

Per quanto riguarda le circostanze specifiche del caso, la Corte osserva che le autorità interne hanno concluso che nel momento in cui l'organizzazione non a scopo di lucro di diritto americano ha acquisito la statua senza alcuna prova che la sua provenienza fosse legittima e consapevole delle rivendicazioni avanzate dalle autorità italiane, l'ente aveva violato i requisiti legali, almeno per negligenza o forse in malafede. La Corte ritiene che l'interpretazione delle giurisdizioni nazionali non fosse arbitraria né manifestamente irragionevole.

Inoltre, dato che l'organizzazione era consapevole che non vi era alcun limite di prescrizione per adottare provvedimenti di confisca al fine di recuperare beni culturali esportati illegalmente, non poteva avere alcuna speranza legittima di conservare la statua, che diverse istituzioni statali italiane avevano cercato instancabilmente di recuperare, né di ottenere un risarcimento. La Corte conclude pertanto che l'organizzazione non ha esercitato la dovuta diligenza nell'acquisizione della statua.

La Corte EDU afferma inoltre che in questo caso le autorità italiane agivano in un vuoto giuridico, poiché nessuno degli strumenti internazionali che avrebbero potuto aiutarle a recuperare un bene culturale illegalmente esportato era in vigore al momento dei fatti (vedi, ad esempio, i procedimenti stabiliti nella Convenzione dell'UNIDROIT del 1995 e nella direttiva 2014/60/UE, quando applicabili).

Nel complesso, considerando l'ampia discrezionalità ("margine di apprezzamento") di cui gode lo Stato nel determinare cosa sia di utilità pubblica, il forte consenso esistente nel diritto internazionale ed europeo sulla necessità di proteggere i beni culturali contro l'esportazione illecita e di restituirli al loro paese d'origine, nonché il comportamento negligente dell'ente in questione, la Corte conclude che la decisione di confisca era proporzionata.

Di conseguenza, non vi è stata violazione dell'art. 1 Protocollo n. 1.