Ricorso privo di sottoscrizione digitale e possibilità di desumere aliunde la paternità dell’atto

Giuseppe Vitrani
03 Giugno 2024

Il ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ma privo di sottoscrizione digitale, deve considerarsi atto inesistente o nullo e, quindi, passibile di sanatoria?

Massima

“Alla luce dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e di strumentalità delle forme processuali, è possibile desumere la paternità certa dell'atto processuale da elementi qualificanti univoci, come la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella PEC dell'Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall'Avvocato dello Stato”.

Il caso

Il caso scrutinato trae origine da un contenzioso di natura tributaria nell'ambito del quale la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, aveva accolto l'appello proposto da una società a responsabilità limitata e aveva annullato un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate con il quale si contestava la detrazione di IVA per l'acquisto di autovetture usate in quanto attinenti a operazioni che venivano giudicate inesistenti dall'Agenzia.

Avverso tale pronuncia veniva proposto ricorso per cassazione da parte dell'Agenza delle Entrate, che si avvaleva dell'Avvocatura dello Stato.

Il ricorso veniva notificato a mezzo PEC ma risultava privo della firma digitale dell'avvocato dello Stato; si poneva così la questione della sua esistenza giuridica.

La questione

La questione che si è posta all'attenzione della Suprema Corte è stata giudicata di particolare importanza, tant'è che la sezione tributaria trasmetteva gli atti al primo Presidente ai sensi dell'art. 374 c.p.c., dovendosi giudicare su di un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico. Il tema da scrutinare era se, mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore, tale vizio fosse da ricondursi alla categoria dell'inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall'art. 161, comma 2, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c.

La Sezione rimettente evidenziava che, nel caso, trovava rilievo "un possibile deficit strutturale dell'atto processuale", richiedendo l'art. 365 c.p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall'art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione fosse "sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo".

In tal caso, sulla scorta di quanto ritenuto da Cass. n. 18623/2016, si riteneva che la causa di inammissibilità non potesse "essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.

Sennonché la Sezione rimettente rilevava che, esaminando altri precedenti della stessa Suprema Corte, la soluzione di cui sopra non poteva essere pacificamente applicata alla fattispecie di causa.

A tal proposito risultava emblematica la pronuncia resa da Cass. sez. un. n. 22438/2018 ove si affermava il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica doveva essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell'atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.

D'altro canto, secondo la sezione rimettente, sarebbe stato difficile desumere la paternità dell'atto da elementi esterni quali “l'utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all'avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso. In quest'ultima ipotesi, non potrebbe comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare", là dove, poi, è solo l'utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del CAD, non anche l'uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale” (così si afferma testualmente nell'ordinanza interlocutoria).

Si poneva dunque il dubbio se la fattispecie scrutinata integrasse un caso di inesistenza (e dunque di nullità insanabile) ovvero di nullità sanabile per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

La risposta fornita dalla Corte di Cassazione è articolata e prende le mosse dal caso specifico, che era relativo ad una fattispecie in cui (essendo consentito dalla legge vigente al tempo dell'avvio del giudizio di legittimità) l'iscrizione a ruolo del ricorso era stata effettuata in forma analogica, con deposito della copia cartacea attestata conforme (e sottoscritta) dall'Avvocato dello Stato.

Per espressa affermazione della Suprema Corte ci si trovava di fronte a una realtà ibrida in cui un ricorso nativo digitale veniva sottoposto al vaglio del giudice di legittimità in forma analogica. In questo contesto trovava differente forza il principio, più volte affermato, secondo cui “la funzione di rendere certa la paternità dell'atto processuale può essere assolta tramite elementi qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell'atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l'autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde”.

Nel caso di specie la ricerca di tali elementi qualificanti poteva essere effettuata anche sulla copia analogica depositata all'atto dell'iscrizione a ruolo, anche in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull'Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all'accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità.

Ragionando in quest'ottica si giungeva quindi alla conclusione che la sottoscrizione della copia analogica, con la quale si attestava la conformità rispetto all'atto digitale, era sufficiente ad attribuire paternità certa anche all'atto originale, il che determinava evidentemente l'ammissibilità del ricorso.

Osservazioni

Il ragionamento della Suprema Corte appare certamente corretto e in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali, che tendono sempre di più a valorizzare il principio cardine di "strumentalità delle forme" degli atti del processo, prescritte dalla legge non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell'atto intende conseguire.

Nel caso di specie questo ragionamento è stato certamente agevolato, per espressa affermazione della Suprema Corte, dalla già affermata natura ibrida del ricorso, stante che proprio nella copia analogica è stato rinvenuto l'elemento decisivo per attribuire paternità effettiva al ricorso, vale a dire la sottoscrizione “per autentica” apposta dall'avvocato dello Stato.

Molto probabilmente, infatti, non sarebbe bastato attribuire all'utilizzo della casella PEC la funzione di elemento identificativo dell'identità digitale del difensore dal momento che questa, per l'Avvocatura dello Stato, è impersonale, così come del resto è impersonale il carattere della difesa da parte dell'avvocatura erariale.

Ad avviso di chi scrive va letta proprio in questo senso la massima enunciata dalle Sezione Unite, all'interno della quale si valorizza il primo elemento (la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella PEC dell'Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE) ma si conferisce efficacia decisiva al secondo elemento, vale a dire il deposito della copia del ricorso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall'avvocato dello Stato. La somma di tali elementi porta dunque a desumere la paternità dell'atto, rimanendo così superato l'eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell'originale informatico del ricorso.

La sentenza resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione appare espressione di un indirizzo ormai consolidato che tende a valorizzare sempre di più il principio del raggiungimento dello scopo degli atti che si discostano dai requisiti formali che sarebbero loro propri ma la cui mancanza non ha impedito alla controparte di difendersi.

Tale orientamento appare certamente corretto, anche alla luce delle recenti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che è più volte intervenuta censurando sentenze esclusivamente in rito emesse dalla Corte di Cassazione, che sono state giudicate espressione di un orientamento eccessivamente formalistico.

Il processo telematico e il mondo del digitale applicato al diritto sembrano invero il terreni in cui questo orientamento “sostanzialistico” ha trovato più fertile applicabilità; basti ricordare che recentemente si è affermato, sempre in tema di mancanza della firma digitale, che l'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (nella specie, era stata contestava la notifica, in quanto effettuata con un file con estensione "pdf" anziché 'p7m', priva di firma digitale e di attestazione di conformità – Cass. 2212/2024).

In termini più generali si è affermato anche che la violazione delle forme digitali non integra l'inesistenza della notifica del medesimo bensì la sua nullità che, pertanto, può essere sanata dal raggiungimento dello scopo (Cass. 16778/2023).

Va inoltre considerato che siffatto orientamento appare farsi strada in altri ambiti della giurisdizione; anche il Consiglio di Stato ha infatti affermato che il ricorso privo di firma digitale non diverge in modo così radicale dallo schema normativo di riferimento da dover essere considerato del tutto inesistente, tanto da dover trovare applicazione anche per il processo amministrativo il principio generale sancito dall'art. 156, comma 1, c.p.c., secondo il quale l'inosservanza di forme comporta la nullità degli atti del processo solo in caso di espressa comminatoria da parte della legge (Cons. Stato. 5541/2022).

L'orientamento in questione, certamente da condividersi, deve peraltro considerarsi espressione dell'indirizzo altrettanto consolidato della Corte di Cassazione, secondo cui la mancanza della sottoscrizione del difensore nella citazione o nel ricorso introduttivo del giudizio, non determina la nullità dell'atto, quando la sua provenienza da un difensore provvisto di valido mandato sia desumibile da altri elementi indicati nell'atto stesso, come il conferimento della procura alle liti, perché in tal caso la sottoscrizione apposta dal difensore per certificare la firma di rilascio, redatta in calce o a margine dell'atto stesso, assolve al duplice scopo di certificare l'autografia del mandato e di sottoscrivere l'atto.

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