E-commerce: viola la direttiva sul commercio elettronico l’imposizione di obblighi supplementari a un fornitore di servizi online stabilito in un altro Stato membro

La Redazione
05 Giugno 2024

La CGUE (30 maggio 2024, cause riunite C-662/22, C-667/22, C-663/22, C-664/22, C-666/22 e C-665/22), in merito alla regolamentazione dei servizi di intermediazione e di motori di ricerca online, ha chiarito che, secondo la Direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico, spetta allo Stato UE d'origine della società che fornisce servizi della società d'informazione disciplinare la prestazione di questi ultimi e gli Stati membri di destinazione non devono, salvo eccezioni, limitarla. Pertanto, nel caso di specie l'Italia non può imporre a fornitori di tali servizi stabiliti in altri Stati membri obblighi supplementari che, pur essendo richiesti per l'esercizio di detti servizi in tale paese, non sono previsti nello Stato membro in cui sono stabiliti, in quanto non rientrano tra le eccezioni consentite dalla direttiva sul commercio elettronico.

In Italia, i fornitori di servizi di intermediazione e di motori di ricerca online, in forza di disposizioni nazionali sono soggetti a determinati obblighi. Tali disposizioni sono state adottate nel 2020 e nel 2021, al fine dichiarato di garantire l'adeguata ed efficace applicazione del Regolamento (UE) 2019/1150 che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online. I fornitori di tali servizi devono, in particolare, iscriversi in un registro tenuto da un'autorità amministrativa (AGCOM), trasmetterle periodicamente un documento sulla loro situazione economica, comunicarle una serie di informazioni dettagliate e versarle un contributo economico. Sono previste sanzioni in caso di mancato rispetto di tali obblighi. 

Dette società contestano tali obblighi dinanzi ad un giudice italiano, in quanto l'aggravamento degli oneri amministrativi che ne deriverebbe sarebbe in contrasto con il diritto dell'UE (con il Regolamento 2019/1150 e con varie direttive, soprattutto con la Direttiva 2000/31/CE, c.d. direttiva sul commercio elettronico). Tutte queste società – salvo una che ha sede negli Stati Uniti – invocano in particolare il principio della libera prestazione dei servizi e sostengono di essere soggette principalmente alla normativa dello Stato membro in cui sono stabilite (nel caso di specie, l'Irlanda o il Lussemburgo). Pertanto, esse ritengono che il diritto italiano non possa imporre loro altri requisiti per l'accesso ad un'attività di servizi della società dell'informazione. In tale contesto, il giudice italiano ha deciso di rivolgersi alla Corte di giustizia.

La Corte dichiara che il diritto dell'Unione osta a misure come quelle adottate dall'Italia.

Secondo la direttiva sul commercio elettronico, spetta allo Stato membro di origine della società che fornisce servizi della società dell'informazione disciplinare la prestazione di questi ultimi. Gli Stati membri di destinazione, tenuti al rispetto del principio di reciproco riconoscimento, non devono, salvo eccezioni, limitare la libera prestazione di tali servizi. Pertanto, l'Italia non può imporre a fornitori di tali servizi stabiliti in altri Stati membri obblighi supplementari che, pur essendo richiesti per l'esercizio di detti servizi in tale paese, non sono previsti nello Stato membro in cui sono stabiliti. 

Secondo la Corte, tali obblighi non rientrano tra le eccezioni consentite dalla direttiva sul commercio elettronico. Infatti, da un lato, essi hanno, fatta salva la verifica da parte del giudice italiano, una portata generale e astratta. Dall'altro lato, gli stessi non sono necessari al fine di tutelare uno degli obiettivi di interesse generale previsti da tale direttiva. Inoltre, l'introduzione di tali obblighi non è giustificata dalla finalità, invocata dalle autorità italiane, di garantire l'adeguata ed efficace applicazione del regolamento summenzionato.