Processo minorile

06 Giugno 2024

I reati commessi da persone di minore età, prima rientranti nella competenza del tribunale per i minorenni (art. 3, d.P.R. 448/1988), tribunale ordinario specializzato (Cass. pen., sez. I,  19 marzo 1991, n. 303,  Rv. 186668, CSM circ. 15098 del 30.11.1993 in tema di tramutamenti e assegnazione di sede per conferimento di funzioni) istituito dal r.d.l. 1404/1934, dopo l'introduzione della riforma Cartabia e modifiche successive, rientreranno nella competenza del Tribunale unico e specializzato per i minorenni e per le famiglie che, per quanto riguarda la competenza civilistica, risulterà articolato su base circondariale (presso ogni sede di Tribunale ordinario) e distrettuale (presso ciascuna sede di Corte d'appello).

Inquadramento

I reati commessi da persone di minore età dall'entrata in vigore di questa parte della c.d. riforma Cartabia, e successivi decreti applicativi, rientreranno nella competenza del TPMF (Tribunale unico e specializzato per i minori e per la famiglia). Non è ancora chiaro se la competenza penale sarà egualmente distribuita o resterà incardinata, come è ora, solo nelle sedi di Corte d'appello.

Se, dunque, da un lato il quadro normativo di riferimento per le norme processuali penali resta fermo nel corpus costituito dal d.P.R. 448/1988 e successive modifiche, che rimanda, per tutto quanto non previsto, all'impianto sistematico del c.p.p., secondo un principio di sussidiarietà che realisticamente rinvia non alla normativa in vigore nel 1988, ma al sistema processuale vigente al momento della celebrazione del processo, dall'altro lato indubbiamente esso sta vivendo un momento di grande transizione alla luce del rinnovamento del quadro sistematico che potrebbe vedere il nuovo Tribunale formato dagli attuali giudici del Tribunale per i minorenni ma anche da eventuali nuovi apporti costituiti dagli attuali giudici che operano presso i Tribunali ordinari, su loro domanda e, se è vero che la rivoluzione sistematica influirà soprattutto sul versante civile della giustizia minorile, non può non tenersene conto anche in relazione al processo penale.

La sezione distrettuale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto e la sua competenza, come anche quella del magistrato di sorveglianza per i minorenni (l. 354/1975 e l. 663/1986, competente anche per la materia dell'esecuzione in base al combinato disposto degli art. 665 c.p.p., che istituisce la competenza del tribunale per i minorenni in fase esecutiva, e art. 5 d.l. n. 92/2014 che, in modifica dell'art. 24 d.lgs. n. 272/1989, estende dai 21 ai 25 anni l'applicazione dell'ordinamento penitenziario minorile, quanto a tipologia, applicabilità e modalità di esecuzione di misure cautelari, misure alternative, sanzioni sostitutive, pene detentive e misure di sicurezza) cessa al compimento del venticinquesimo anno di età.

Premesso che gli istituti tipici del rito minorile propri della fase della cognizione si applicano anche all'imputato divenuto maggiorenne, proprio a causa di questo tipo di competenza generale ed esclusiva in ragione dell'età, questioni si pongono per il reato permanente e per il reato continuato allorché parte della condotta sia posta in essere prima della maggiore età ed un'altra dopo il conseguimento della stessa. L'ipotesi del reato permanente non è regolata espressamente. Secondo la Cassazione (Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 1996, n. 6025, Rv. 206626; Cass. pen., sez. I, 20 luglio 1995, n. 3369, Rv. 202179; Cass. pen., 9 ottobre 2003, n. 48516) se l'azione ha inizio prima della maggiore età e termina dopo che il soggetto è divenuto maggiorenne, la competenza spetta al giudice ordinario giacchè si tratta di condotta veramente unitaria, a differenza del reato continuato in cui l'unitarietà discende da una mera fictio iuris. Il reato continuato è espressamente normato dall'art. 14, comma 2 c.p.p. che ne esclude la connessione che discenderebbe ex art. 12, lett. b) c.p.p.

Ai fini dell'accertamento del dato anagrafico, elemento fondante la competenza degli organi giudiziari minorili, il giudice minorile può disporre, anche d'ufficio, una perizia (art. 8 d.P.R. 448/1988). L'autorità giudiziaria ordinaria, sulla base del semplice dubbio, trasmette gli atti al P.M. minorile (Cass. pen., 10 dicembre 1990, n. 3945, Rv. n. 186094): è stato così interpretato l'art. 67 c.p.p. che regola la fattispecie.

Il processo minorile non ha natura e funzione prioritariamente educativa: sarebbe incostituzionale una educazione/rieducazione che prescindesse dalla presenza di una condanna e di una pena ma, conformemente all'art. 27 Cost., persegue le finalità tipiche della giurisdizione penale. I suoi principi ispiratori sono quello di adeguatezza, secondo cui le misure devono essere applicate in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne; quello di minima offensività con la sua estensione nel principio di destigmatizzazione, per cui bisogna evitare che il contatto del minore con il circuito penale possa compromettere lo sviluppo armonico della sua personalità e l'immagine sociale che comportano il rischio di una marginalizzazione; il principio di residualità della detenzione secondo cui davvero la carcerazione è la extrema ratio delle misure da applicarsi a fronte di tutta una serie di alternative tese a ridurre l'impatto costrittivo e afflittivo nei confronti del minore e garantire il primato delle esperienze educative del minore sulla stessa prosecuzione del processo penale che deve essere limitato in comparazione con le esigenze di difesa sociale.   

Gli organi giudiziari

Specificità degli organi giudiziari del rito minorile è (art. 50 comma 2 ord. giud.) la presenza di una componente onoraria privata, due esperti, un uomo e una donna, aventi i requisiti richiesti dalla legge (art. 2 r.d.l. 1404/1934, modificato dalla l. 1441/1956), persone esperte nelle problematiche minorili chiamate ad integrare con gli apporti delle loro professionalità, quella giuridica dei magistrati togati, dandosi così attuazione al principio di partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia (art. 102, commi 2 e 3, Cost.) e contribuendosi alla formazione del magistrato che si occupa di minori anche nel corso della decisione dei singoli casi. Allo stesso scopo di formazione pratica ed estesa del magistrato minorile mira l'assegnazione degli affari tale da favorire la diretta esperienza di ciascun giudice nelle diverse attribuzioni della funzione giudiziaria minorile. Il magistrato, attraverso la trattazione congiunta degli affari sia civili che penali, guadagna una visione completa della devianza minorile, sotto i profili della prevenzione e della repressione e si evitano carenze di specializzazione dell'organo giudiziario nel periodo feriale, potendo peraltro anche assumere provvedimenti civili a tutela dei minori nel corso del processo penale qualora emergessero necessità ed urgenza.

Considerata la mancata previsione (art. 71 ord. giud. come modificato dall'art. 21 d.lgs. 51/1998) della figura di vice procuratori onorari nei tribunali per i minorenni, non è ancora ben chiaro se invece tale figura sarà introdotta nel futuro TPMF anche in relazione ai processi minorili; comunque le differenze significative finora hanno riguardato il Giudice per l'udienza preliminare, dinanzi al quale si definiscono la maggior parte dei procedimenti. Il G.u.p. nel rito minorile è collegiale (art. 50-bis comma 2, ord. giud.) pur avendo composizione più snella del collegio dibattimentale: due membri togati e due onorari nel secondo caso, un togato e due onorari nel primo caso; lo scopo è quello di minimizzare le occasioni di incompatibilità fruendo però di un organo decisorio collegiale per una fase processuale che, in casi delimitati, può portare anche ad una condanna.

I soggetti

Quanto ai soggetti protagonisti del processo minorile va considerato che il diverso approccio processuale e i principi che informano la giustizia minorile, determinano delle differenze anche sui soggetti che, obbligatoriamente o facoltativamente, partecipano al processo penale a carico di soggetto minore (all'epoca della commissione del reato) e sull'approccio complessivo all'imputato.

Da un lato, infatti, soggetti della vicenda processuale minorile sono anche i genitori o gli esercenti la responsabilità genitoriale dell'indagato/imputato così come i rappresentanti dei servizi socioassistenziali, ministeriali o territoriali, incaricati di fornire valutazioni ed assistenza al minore. Di contro indebolito risulta il ruolo della persona offesa. Sotto il primo profilo, per accertare l'imputabilità e il grado di responsabilità del minore in relazione al fatto presumibilmente commesso, sono necessari (art. 8 d.P.R. 448/88) accertamenti sulla personalità del soggetto indagato/imputato, sulle sue condizioni personali, familiari, sociali, sul grado di sviluppo cognitivo ed emotivo, aspetto sostanzialmente vietato nel processo a carico degli adulti se non nei limiti delle valutazioni concesse e dovute ai sensi dei criteri di cui all'art. 133 c.p. Sotto il secondo profilo, è esclusa la costituzione di parte civile e in generale la richiesta di risarcimento da parte della vittima del reato nell'ambito del processo penale minorile, onde non fare della conflittualità privata uno dei fulcri del processo a carico di un minore.

Istituti tesi alla rieducazione del minore

Diverso punto di vista orienta invece il netto favor legislativo per gli istituti che, anche attraverso un percorso di mediazione e di riparazione, favoriscono comunque la rieducazione del minore e ne consentono una fuoriuscita dal circuito penale senza conseguenze a lungo termine. Oltre agli istituti preesistenti (perdono giudiziale, non doversi procedere per irrilevanza sociale del fatto, messa alla prova e correlativa dichiarazione di estinzione del reato) il c.d. decreto Caivano ha introdotto uno specifico articolo, il 27-bis d.P.R. 448/88, con riferimento al percorso di rieducazione del minore che, nel corso delle indagini preliminari, il P.M. può proporre al minore e agli esercenti la responsabilità genitoriale su di lui, se la pena è contenuta entro il limite dei cinque anni di reclusione e i fatti non rivestono particolare gravità. Durante questo percorso, il processo è sospeso e, in caso di esito positivo, il reato viene dichiarato estinto con sentenza all'esito dell'udienza di valutazione in camera di consiglio. In caso di esito negativo, o di interruzione del programma, gli atti vengono restituiti al P.M. che può chiedere un giudizio immediato anche al di fuori dei casi previsti dalla legge nel corso del quale sarà precluso anche il ricorso all'istituto della messa alla prova, visto l'esito fallimentare già ottenuto.

Presupposti edittali ed esclusioni

Se, da un lato, anche la recente riforma ha rinforzato il panorama degli istituti minorili orientati al significato rieducativo della vicenda penale a carico di minorenni, la recrudescenza, reale o solo percepita, di una certa delinquenza minorile particolarmente violenta ed incontrollata, ha spinto il legislatore (in particolare con il c.d. decreto Caivano) ad introdurre limiti di gravità di pena o di reato, ad istituti che rappresentano questa finalità al massimo grado, come è accaduto per la messa alla prova che, come detto, oltre ad essere preclusa da un precedente fallimento di un percorso di rieducazione del minore avviato nel corso delle indagini preliminari, è stata vietata in relazione ai delitti di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 576 c.p., di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis e octies c.p. limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 609-ter c.p., e di rapina aggravata ai sensi dell'art. 628 comma 3 numeri 2), 3) e 3-quinquies) c.p.  

Stesso approccio ha ispirato l'abbassamento dei limiti edittali minimi di applicabilità delle misure precautelari e cautelari: per l'accompagnamento a seguito di flagranza (con successivo trattenimento del minore fino a dodici ore in vista della richiesta di convalida da parte del P.M.) il limite attuale riguarda i reati punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, in luogo dei precedenti cinque, nonché per alcuni reati specificamente indicati tra cui anche contravvenzioni come il porto di armi o oggetti atti ad offendere, e reati puniti con pene edittali basse come il danneggiamento aggravato; per le misure cautelari diverse dalla custodia cautelari, il limite di pena si abbassa a quattro anni in luogo dei precedenti cinque; per la custodia cautelare in carcere il limite diventa, in luogo dei precedenti nove, quello di sei anni e viene anche diminuita la misura della riduzione dei termini di durata massima della custodia cautelare, previsti dall'art. 303 c.p.p., fissata ad un terzo (anziché la metà) per i reati commessi da minori degli anni diciotto, e alla metà (anziché due terzi) per i minori degli anni sedici.

Imputabilità e immaturità

Immutati sono rimasti i limiti di imputabilità ed il concetto per cui l'imputabilità del minore che commetta un reato tra i quattordici e i diciotto anni non si presume mai. Il minore che commette un fatto punibile come reato è considerato ex lege non imputabile se al momento del fatto non aveva compiuto i 14 anni (art. 97 c.p.). Se il fatto è stato commesso tra i 14 e i 18 anni, l'imputabilità non è mai presunta ma deve essere oggetto di prova come ogni altro elemento oggettivo e soggettivo del reato: in mancanza di prova piena o univoca (artt. 425, comma 3, e 530 cpv., c.p.p.) l'indagato/imputato va ritenuto non imputabile per immaturità (art. 98 c.p.).

L'art. 8 d.P.R. 448/88, dunque, deroga esplicitamente alla normativa del c.p.p. che vieta approfondimenti sulla moralità dell'imputato (art. 194, comma 1) e la perizia psicologica e criminologica nel processo di cognizione (art. 220, comma 2). Gli approfondimenti sulla personalità del minore sono necessari sia per garantire la piena conoscenza del soggetto minorenne, di per sé in evoluzione ed un processo guidato dal principio di individualizzazione che consenta di trovare le risposte più adeguate alle difficoltà personali e sociali che lo hanno portato alla devianza, sia per esaminare la sua maturità, cognitiva ed emotiva, ed il quantum di responsabilità, di comprensione del disvalore sociale del fatto e di autodeterminazione rispetto alla condotta tenuta, per giungere a dimostrarne l'imputabilità ex art. 98 c.p. A questo fine P.M. e giudice acquisiscono obbligatoriamente elementi da persone comuni che abbiano avuto rapporti col minore e da esperti, anche senza alcuna formalità. L'omissione degli approfondimenti da parte del P.M. può essere pacificamente sanata in fase di giudizio non essendo certo configurabile una nullità ex art. 179, comma 1, c.p.p., ma solo una nullità a regime intermedio. Vengono a tal fine richieste relazioni all'ufficio del Servizio Sociale ministeriale e ai servizi socio-sanitari territoriali facenti capo agli enti locali. Nei casi dubbi di sospetti disturbi di personalità o patologie psichiatriche del minore, si ricorre allo strumento della consulenza tecnica psicologica o psichiatrica di parte o di ufficio.

Per minimizzare la conflittualità e concentrare l'attenzione sulla figura del reo, come detto, non è prevista la costituzione di parte civile e la sentenza penale non ha efficacia vincolante nel giudizio civile di danno (art. 10, d.P.R. 448/88). L'offeso però partecipa alla fase processuale (artt. 31, comma 5, e 33, comma 4, d.P.R. 448/1988) con valenza informativa circa la personalità dell'autore del reato e ruolo di impulso per i congegni di definizione anticipata del processo. La persona offesa può essere sentita in udienza preliminare e in alcuni momenti di definizione anticipata (art. 27 d.P.R. 448/88); anche se non chiamata a testimoniare in dibattimento, che nel rito minorile si svolge sempre a porte chiuse (d.lgs. 12/1991; Cass. pen., 1° luglio 1991; Cass. pen., n.  3104/1992), ha diritto di assistere e può in ogni momento indicare elementi di prova e presentare memorie scritte.

In evidenza

Grande spazio la vittima del reato trova nel campo della mediazione penale. Non esistono riferimenti normativi diretti alla mediazione nella disciplina del rito minorile, ma il principale spazio operativo è costituito dall'art. 9 d.P.R. 448/88 che consente al P.M. di rivolgersi all'ufficio per la mediazione penale al fine di valutare l'opportunità che il minore si attivi per riparare le conseguenze del reato. I risultati di questa attività confluiscono nel processo attraverso le informazioni sulla personalità e possono indurre il P.M. alla prospettazione di quel percorso di rieducazione dell'imputato anche nella fase delle indagini preliminari, introdotto all'art. 27-bis d.P.R. 448/88.

Il coinvolgimento degli esercenti la responsabilità genitoriale è reso obbligatorio dalla previsione di notificare, a pena di nullità anche a loro atti significativi del procedimento (art. 7 e art. 12 d.P.R. 448/1988) al duplice scopo di garantire assistenza affettiva e psicologica al minore nel processo e integrare la sua capacità di difendersi provando (C. cost. 99/1975; Cass. pen., sez. un., 8 maggio 1965, R. pen. 66, II, 1100). Non a caso la prima disposizione fa riferimento all'esercente la responsabilità genitoriale e la seconda ai genitori o altra persona indicata dal minore.

Le misure cautelari

Nonostante l'ampliamento del ricorso alle misure cautelari, anche custodiali, introdotto dal c.d. decreto Caivano, resta fermo il principio per cui in ambito minorile, si applicano solo le misure cautelari tassativamente previste nel d.P.R. 448/1988, che non costituisce un sistema chiuso ed autonomo, rinviando esplicitamente in parte alle norme del codice di procedura penale, ma delinea una serie di deroghe in melius alla normativa ordinaria. Spesso non si limitano ad imporre obblighi negativi e passivi ma contengono obblighi di fare per sollecitare il minore verso un impegno sociale e personale. I termini di durata, sia massima che di fase, (art. 303 c.p.p.) sono ridotti di un terzo per gli ultrasedicenni e della metà per gli infrasedicenni. Nonostante il contenuto fortemente educativo di alcune misure, anche in ambito cautelare il processo penale è luogo di accertamento di responsabilità penali e non luogo di rieducazione tout court (C. cost. 4/1992). Occorrono dunque i presupposti generali per l'applicazione di misure cautelari, ma anche presupposti speciali: la prognosi negativa sulla concedibilità di misure premiali quale il perdono giudiziale o l'irrilevanza del fatto e la prova dell'imputabilità del minore.

Oltre alla introduzione di misure preventive atte ad arginare il fenomeno delle baby gang (il c.d. DASPO urbano, l'estensione ai minorenni dei provvedimenti dell'avviso orale e della procedura dell'ammonimento del Questore), il decreto Caivano, come detto, ha abbassato i limiti di pena previsti per l'applicazione di misure cautelari ed ha previsto, tra le ipotesi in cui, ai sensi dell'art. 23 comma 2, il giudice può disporre la custodia cautelare nei confronti del minorenne, anche i casi in cui l'imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che si dia alla fuga (nuova lett. a-bis). Nella legge di conversione del suddetto decreto, si prevede anche che la misura della custodia cautelare in caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni imposte in sede di collocamento del minore in comunità o di allontanamento ingiustificato dalla comunità, possa essere disposta, ai sensi dell'art. 22 comma 4 d.P.R. 448/88 per i delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni (e non più cinque anni) e senza limiti di tempo e non più, dunque, per un massimo di un mese, nonché, ai sensi del nuovo comma 4-bis inserito nello stesso art. 22, nei casi di aggravamento delle esigenze cautelari, alle condizioni di cui all'art. 23 e su richiesta del P.M. Quanto al resto, resta valida la regola generale secondo cui, in caso di gravi e ripetute violazioni della misura in atto, in deroga all'art. 276 c.p.p., è possibile al P.M. richiedere l'applicazione della misura immediatamente più afflittiva, con esclusione di un aggravamento per saltum e con esclusione dell'applicabilità dell'art. 650 c.p. in quanto norma in bianco e a valore sussidiario che cede di fronte a specifica disciplina “sanzionatoria”.

Permane, pur nell'inasprimento del ricorso alla extrema ratio della misura detentiva, il principio di non interrompere i processi educativi in atto e di non obbligatorietà della custodia in carcere anche se è evidente l'ispirazione normativa della modifica all'art. 23 d.P.R. 448/88 nella parte in cui prevede la possibilità di richiedere la misura cautelare della custodia in carcere in ogni caso per alcuni reati dettagliatamente elencati (uno dei delitti, consumati o tentati, di cui all'art. 380 comma 2 lett. e), e-bis) e g) c.p.p., nonché per uno dei delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 336 comma 1 e 337 c.p. e di cui all'art. 73 d.P.R. 309/90). Nella determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari si tiene conto dei criteri di cui all'art. 278 c.p.p. e della diminuente obbligatoria della minore età (art. 98 c.p.) pur nella misura minima di un giorno. Dottrina e giurisprudenza maggioritaria ritengono doveroso anticipare, seppure con maggiore sommarietà, il giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti, sicuramente sussistenti (almeno la diminuente obbligatoria della minore età) con le aggravanti, anche alla fase precautelare e cautelare, essendo il bilanciamento l'unico metodo di calcolo della pena in caso di concorso di circostanze di segno opposto (Cass. 6 dicembre 1997, p.m. in c. Salkanovic, C 7.7.93, Gaini).

La detenzione e la sicurezza degli IPM

Resta dunque, in linea di principio, valido il criterio per cui la custodia in Istituto Penitenziario Minorile resta extrema ratio ed il collocamento in comunità vi è equiparato solo quanto ai termini di durata massima e alla computabilità del presofferto. Da preferire lo strumento precautelare parallelo dell'accompagnamento a seguito di flagranza (art. 18-bis d.P.R. 448/1988) in cui la condizione dell'accompagnato non è equiparabile allo status dell'arrestato: vige infatti solo l'obbligo dell'affidatario di tenere il minore a disposizione del P.M. e di vigilare sul suo comportamento, mentre non vige alcun obbligo in capo al minore ed il suo allontanamento non costituisce evasione. Tuttavia, l'inasprimento della disciplina introdotto specialmente dal c.d. decreto Caivano, in evidente risposta al diffuso senso di insicurezza sociale quanto all'incremento di crimini giovanili, è evidente anche sotto il profilo dell'abbassamento della soglia di pericolo relativa alla permanenza in carcere e ad un'altra ulteriore modifica normativa: l'art. 9 del citato decreto, in materia di “Disposizioni in materia di sicurezza degli istituti penali per minorenni”, inserisce un nuovo comma 3-bis nell'art. 10 d.lgs. 2 ottobre 2018 n. 121 che la legge di conversione ha spostato all'interno di un nuovo art. 10-bis rubricato “Trasferimento presso un Istituto penitenziario per adulti”. Le novità rilevanti sono la possibilità, per il magistrato di sorveglianza, di consentire, su istanza del direttore dell'Istituto penale per i minorenni, al trasferimento presso un istituto per adulti del detenuto che abbia compiuto ventuno anni, in espiazione di pena per reati commessi durante la minore età, il quale alternativamente a) con i suoi comportamenti comprometta la sicurezza ovvero turbi l'ordine dell'istituto, ovvero b) con violenza o minaccia impedisca le attività degli altri detenuti, o ancora c) nella vita penitenziaria si avvalga dello stato  di soggezione da lui indotto negli altri detenuti. Il detenuto che realizzi tutte e tre tali condotte cumulativamente, peraltro, può essere sottoposto al trasferimento fin da quando abbia compiuto diciotto anni; trasferimento che può essere negato dal magistrato di sorveglianza solo per ragioni di sicurezza, anche del detenuto stesso.

In evidenza

Il legislatore ordinario ha di recente importato istituti del rito minorile quali la messa alla prova e la richiesta di non punibilità per tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.). Pur nella condivisione delle finalità deflattive e di reinserimento sociale, restano sensibili differenze, essendo sconosciuta al processo minorile la natura prettamente contrattualizzata del progetto di messa alla prova del rito ordinario come anche la possibilità che ad esso si addivenga su iniziativa dell'imputato e in sede preprocessuale nonché il non esercizio dell'azione penale sottostante alla richiesta ex art. 131-bis c.p. La ratio di queste differenze va cercata nella necessità tipica del rito minorile di osservare la personalità del minore anche nella sua evoluzione dal fatto reato al momento del giudizio in un contesto quanto mai adeguato (processuale), anche se talvolta semplificato come nel rito camerale, e possibilmente collegiale. Alla stessa ratio risponde la persistenza della mancata previsione di un istituto quale l'applicazione della pena su richiesta delle parti nell'ambito del processo minorile che, se risponderebbe bene alle esigenze di velocità della risposta penale e di deflazione del carico processuale, sembra non rispondere alle esigenze educative e di necessario approfondimento della personalità dell'imputato minorenne.

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