Libertà di espressione ed equo processo: viola i diritti di un giornalista la condanna per diffamazione da parte di un giudice che non garantisce il principio di imparzialità

La Redazione
10 Giugno 2024

Con sentenza del 4 giugno 2024, la Corte EDU ha condannato la Bulgaria per violazione del diritto ad un processo equo e alla libertà di espressione di un giornalista investigativo che aveva messo in discussione l'integrità di un giudice coinvolto nella sua condanna e, nonostante richieste di ricusazione respinte, la decisione finale era stata emessa in modo controverso in quanto dettata al cancelliere durante l'udienza dal giudice stesso e non soggetta a ricorso in cassazione. Pertanto, la Corte ha ritenuto che la corte d'appello bulgara non costituisse un “tribunale imparziale”, che il modo in cui la pena è stata inflitta al ricorrente non rispettasse una delle garanzie essenziali di un processo equo e che la restrizione alla libertà di espressione non fosse accompagnata da garanzie effettive e adeguate contro l'arbitrarietà.   

Fatti principali

Il ricorrente, un cittadino bulgaro e giornalista specializzato negli affari giudiziari, all'epoca dei fatti lavorava per il settimanale di proprietà di una casa editrice bulgara. 

Nel 2013, un sito d'informazione appartenente alla predetta casa editrice aveva pubblicato informazioni secondo le quali il direttore della Commissione di vigilanza finanziaria («C.S.F») all'epoca era stato citato a comparire come testimone in un processo penale per riciclaggio di denaro, in quanto avrebbe firmato documenti che agevolavano il trasferimento di somme di denaro generate dal traffico di droga.

Il ricorrente spiega che in seguito a questa pubblicazione, a varie date tra il 2013 e il 2015, la Commissione di vigilanza finanziaria impose all'azionista di maggioranza della casa editrice  nonché ad altre società di sua proprietà una serie di ammende che sarebbero state successivamente annullate dai giudici bulgari. Poi, nel 2015, la C.S.F. inflisse due ammende alla casa editrice in ragione della pubblicazione sul suo settimanale di due articoli nei quali vedeva tentativi di manipolazione dei mercati finanziari. Le sanzioni imposte ammontavano a circa 76.000 euro (EUR).

È in questo contesto che il ricorrente ha partecipato, il 15 e 16 gennaio 2015, a due trasmissioni televisive in cui si è espresso in merito alla pronuncia delle sanzioni e all'eventuale coinvolgimento del direttore della C.S.F. negli eventi in questione. Alcuni mesi dopo, il direttore presentò al tribunale distrettuale di Sofia una denuncia penale per diffamazione contro il ricorrente a causa delle affermazioni che aveva fatto su di lui durante le due trasmissioni.

Nel 2017, il tribunale distrettuale di Sofia ha riconosciuto il ricorrente colpevole di diffamazione nella seguente frase − « [S.]M. (...) ha deciso di utilizzare l'istituzione che governa per reprimere «C.» e «D.» −pronunciata dal ricorrente in occasione della trasmissione del 15 gennaio 2015, condannandolo al pagamento di un'ammenda di circa 511 euro nonché a spese di importo equivalente a 320 euro.

Il ricorrente fece appello,  e, nel corso del procedimento dinanzi al tribunale di Sofia, presentò due domande di ricusazione rivolte contro P.K., giudice relatore e presidente del collegio giudicante, sostenendo che P.K. era inadatto a sedere nella causa in quanto, in passato, aveva pubblicato diversi articoli di stampa criticando il suo lavoro e mettendo in discussione la sua integrità come magistrato.

Entrambe le richieste di ricusazione furono respinte.

Nel 2019, il tribunale di Sofia ha confermato la condanna per diffamazione del ricorrente riprendendo i motivi esposti dal tribunale distrettuale. Egli riconobbe inoltre il ricorrente colpevole di un'ulteriore diffamazione a causa di un'altra frase pronunciata nel corso della stessa emissione, ossia: «Il signor [S.]M. era legato allo schema di riciclaggio di denaro di cui E.B. era accusato. Attraverso le sue azioni, ha facilitato il riciclaggio di somme di denaro generate dal traffico di droga».

Quanto alla pena da infliggere al ricorrente, il tribunale d'appello riteneva che una pena più elevata del minimo previsto dalla legge fosse sembrata più appropriata, ma in mancanza di una domanda espressa al riguardo da parte di S.M. egli infliggeva al ricorrente la stessa ammenda del primo grado di giudizio.

Su tale decisione era inammissibile un ricorso per Cassazione.

Decisione della Corte

Art. 6 CEDU

La Corte osserva che il ricorrente, in qualità di giornalista specializzato in cause giudiziarie, ha scritto e pubblicato articoli in merito a P.K. tra il 2012 e il 2015, diversi anni prima che la presente causa fosse portata dinanzi al tribunale di Sofia. Non si trattava quindi di un tentativo deliberato da parte sua di screditare il giudice P.K. per escluderlo dall'esame del suo caso penale attraverso una campagna mediatica malevola.

Essa constata inoltre che il giudice P.K. era espressamente menzionato in tali articoli e che le sue qualità professionali e la sua integrità vi erano fortemente rimesse in discussione. Pertanto, il ricorrente poteva nutrire dubbi obiettivi e ragionevoli quanto all'imparzialità con cui P.K. eserciterebbe le sue funzioni nell'ambito dell'esame dell'appello che aveva proposto contro la condanna pronunciata in primo grado.

La Corte osserva che l'art. 29 del codice di procedura penale bulgaro prevede che il giudice debba espellersi dall'esame di un procedimento penale qualora sussistano circostanze tali da mettere in discussione la sua imparzialità. Poiché la situazione denunciata dal ricorrente rientrava potenzialmente nel campo di applicazione di tale disposizione, l'interessato ha chiesto l'astensione del giudice P.K.

Esaminata, come previsto dal diritto interno, dal collegio giudicante di cui faceva parte il giudice P.K. la sua domanda è stata definitivamente respinta. Il testo della decisione indica che è stata lo stesso giudice P.K. a dettarla al cancelliere durante l'udienza. Questa confusione dei ruoli tra giudice e parte in causa può ovviamente suscitare timori oggettivamente giustificati quanto alla conformità della procedura al principio secondo cui nessuno può essere giudicato nella propria causa e, di conseguenza, quanto all'imparzialità del tribunale.

Risulta infatti dalla giurisprudenza della Corte che un procedimento interno in cui − come nel caso di specie − il giudice si pronuncia personalmente su una domanda diretta a far valere la ricusazione non è conforme all'art. 6, § 1, CEDU che solo in casi eccezionali, in particolare quando i motivi invocati dalle parti sono abusivi o privi di qualsiasi pertinenza. Orbene, nella fattispecie, l'argomento sollevato dal ricorrente non era né abusivo né irrilevante.

Certo, la giurisprudenza della Corte suprema di cassazione bulgara prevedeva una garanzia supplementare consistente nel fatto che la persona che riteneva che il suo caso fosse stato giudicato da un tribunale di parte potesse sollevare tale questione nell'ambito di un ricorso per cassazione e di ottenere, se del caso, l'annullamento della condanna e il rinvio della causa a un altro collegio giudicante per il riesame. Nella fattispecie, tuttavia, tale ricorso era impossibile per il ricorrente, in quanto le sentenze pronunciate in materia di diffamazione da parte di un tribunale regionale, livello di giurisdizione al quale appartiene il tribunale di Sofia, erano escluse dal campo di applicazione del ricorso per cassazione. Pertanto, le carenze della procedura di ricusazione seguita dal tribunale di Sofia non hanno potuto essere sanate da un giudice superiore.

Di conseguenza, la Corte conclude che il collegio giudicante del Comune di Sofia non costituiva «un tribunale imparziale» ai sensi dell'art. 6, § 1, CEDU e che vi è stata violazione di tale disposizione.

Art. 10 CEDU

La Corte ritiene che l'inflizione al ricorrente di un'ammenda amministrativa si configuri alla luce dell'art. 10 CEDU come un'ingerenza nell'esercizio da parte di quest'ultimo della sua libertà di espressione. Tale misura era prevista dalla legge (artt. 148 e 78a Codice penale bulgaro) e mirava alla «tutela della reputazione o dei diritti altrui».

Per quanto riguarda la necessità della misura in una società democratica, la Corte ha ritenuto che le osservazioni per le quali il ricorrente era stato condannato, sebbene riguardassero un problema generale, contenevano comunque affermazioni di fatto che mettevano in dubbio l'integrità professionale dell'allora direttore del C.S.F. Era quindi ragionevole richiedere al ricorrente, nel procedimento per diffamazione, di fornire la prova della realtà dei fatti denunciati.

La Corte ha anche osservato che la sanzione inflitta dai tribunali è stata una multa amministrativa dell'importo minimo previsto dalla legge, oltre a una somma per le spese legali e le spese sostenute dalla controparte, che è apparsa relativamente moderata.

Tuttavia, la Corte ricorda che ha ritenuto che il Tribunale di Sofia, che ha esaminato e respinto il ricorso del ricorrente in ultima istanza, non fosse “un tribunale imparziale” a causa della partecipazione del giudice P.K. a tale esame.

Alla luce delle considerazioni che l'hanno portata a concludere che vi è stata una violazione dell'art. 6, § 1, CEDU, la Corte ritiene che il modo in cui la pena è stata inflitta al ricorrente non abbia rispettato una delle garanzie essenziali di un processo equo.

La restrizione posta al diritto alla libertà di espressione del ricorrente, tutelato dall'art. 10 CEDU, non era quindi accompagnata da garanzie effettive e adeguate contro l'arbitrarietà. Anche se le ragioni addotte dallo Stato convenuto fossero state rilevanti, non potrebbero essere sufficienti a dimostrare che l'interferenza lamentata fosse “necessaria in una società democratica”.