La questione salariale nei Paesi europei
19 Giugno 2024
* Si pubblica il testo della Relazione svolta nell’ambito del Convegno nazionale organizzato dal Centro studi di diritto del lavoro “Domenico Napoletano”, sul tema “salario e dignità”, che si è tenuto a Torino il 14 e 15 giugno 2024. Premessa. Ricordando i Maestri La premessa deve doverosamente partire dall’insegnamento dei Maestri. Rodolfo Sacco, che insieme ad Antonio Gambaro ha scritto la quarta edizione sui “sistemi giuridici comparati” (in Trattato di diritto comparato, Milano, 2018), elabora, nella voce Comparazione giuridica (in. Dig. priv., Sez. civ., III, 1988, 48 ss.) cinque tesi che devono guidare chi si accosta alla materia. Nell’economia di questo breve scritto è sufficiente ricordare le prime tre affermazioni. PRIMA TESI: «Il compito della comparazione giuridica, senza il quale essa comparazione giuridica non sarebbe scienza, è l’acquisizione di una migliore conoscenza del diritto, così come in genere il compito di tutte le scienze comparatistiche è l’acquisizione di una migliore conoscenza dei dati appartenenti all’area a cui essa si applica. L’ulteriore ricerca e promozione del modello legale o interpretativo migliore sono risultati considerevolissimi della comparazione, ma quest’ultima rimane scienza anche se questi risultati fanno difetto». Riecheggia in queste parole l’insegnamento di Gino Gorla che, nel lontano 1963, nella voce Diritto comparato, dell’Enciclopedia del diritto, scriveva che «gli interessi immediati del comparatista sono interessi di conoscenza pura». SECONDA E TERZA TESI: «La comparazione rivolge la sua attenzione ai vari fenomeni giuridici concretamente realizzati nel passato e nel presente (…)» e «non produce risultati utili finché non si misurano le differenze che intercorrono fra i sistemi giuridici considerati». Avvertimento, di metodo, essenziale per non effettuare tentativi di “trapianto” di istituti giuridici in ordinamento giuridici caratterizzati da profonde differenze strutturali. Monito che riecheggia, anche questa volta, il pensiero di Gino Gorla (nella citata voce Diritto comparato, in Enc. dir., 1981, 941) laddove ammonisce il “comparatista” a «considerare sempre con riserva o beneficio di finale inventario ogni giudizio comparativo, come imperfetto e da perfezionare mediante l’integrazione di altri studi, o dell’opera di altri studiosi». Dopo queste premesse di metodo si possono fissare i due approcci attraverso i quali si intende esaminare il tema in esame attraverso lo strumento della comparazione. Il primo approccio metodologico è quello di esaminare alcuni dei modelli europei sul salario minimo “alla ricerca del modello migliore” (cfr. V. DENTI, Diritto comparato e scienza del processo, in L’apporto della comparazione alla scienza giuridica a cura di R. SACCO, Milano, 1980, 199 ss.). Il secondo approccio è quello di usare la comparazione come “strumento di interpretazione” (il dialogo delle Corti Supreme è al centro della meditazione contenuta nel volume di S. CASSESE, I tribunali di babele, Roma, 2009). La ricerca del “modello migliore” Il primo approccio (la comparazione come strumento di ricerca del modello migliore) è quello classico. Non intendo, in questa sede, esaminare la molteplicità dei modelli normativi europei in tema di salario minimo. Basti richiamare la Relazione sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea, del 28 ottobre 2020, che ricorda come la tutela garantita dal salario minimo «può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in ventuno Stati membri». Esistono, sul tema, vari studi, anche di carattere monografico (ad es. E. MEGATTI, Il salario minimo legale. Aspettative e prospettive, Torino, 2017), che hanno approfondito questo tipo di approccio. Studi ai quali faccio rinvio (si veda, tra i più recenti, S. LEONARDI, La direttiva europea sul salario minimo adeguato e le sue ripercussioni sul quadro italiano, in Lav. e dir., 2014, n. 1, 185 ss.). Mi limito, in questo contesto, a fornire qualche indicazione che prende spunto dall'esame dell'ordinamento svedese e tedesco (per l'esame del modello del Regno Unito e della Francia, v. E. MEGATTI, Il salario minimo legale, cit., 38-52). La Svezia è il paese che si presenta più simile all'Italia (in proposito J.J. VOTINIUS, Sources of Labour Law in Sweden, in The Sources of Labour Law a cura di T. GYULAVARI, E. MENEGATTI, Milano, 2020, 343): a) per l'inesistenza di un salario minimo fissato per legge; b) per l'esistenza di una copertura contrattuale stimata intorno al 90%, ancorché non munita di efficacia erga omnes. c) per la presenza di una forte opposizione di principio del sindacato verso una interferenza del legislatore. Le parti sociali hanno cercato di garantire competitività alle imprese svedesi, rispetto ai principali partner commerciali stranieri, impostando le negoziazioni salariali su un “decentramento coordinato” che consente di bilanciare la competitività delle imprese, garantendo al contempo salari tradizionalmente molto alti, i cui minimi si collocano abbondantemente al di sopra della soglia del lavoro povero (60% del lavoro mediano) (cfr. E. MENEGATTI, Oltre il Far West contrattuale, verso salari minimi adeguati: spunti di diritto comparato, in Lav. dir. Europa, 2024, n. 2). Il caso svedese, però, si distingue da quello italiano, perlomeno, sotto due profili. La presenza di un solido e coeso sistema di relazioni industriali. Una contrattazione collettiva che garantisce un salario minimo. Il modello tedesco è decisamente diverso. Quando è entrato in scena il salario minimo legale (gennaio 2015) la copertura contrattuale era scesa sotto il 50%, a causa dell'indebolimento del sindacato e al processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro (O. DEINERT, Wage-setting in a Sistem of Self-Regulation through Collective Private Autonomy, in ILLeJ, 2019, n. 2, 7 ss.). La situazione dei salari, in questo contesto, si presentava preoccupante (circa un lavoratore su quattro aveva una retribuzione al di sotto del 60% del salario mediano) con notevoli disparità tra lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva e lavoratori esclusi da tale copertura. L'intervento della magistratura, con meccanismi simili all'applicazione del nostro art. 36 della Cost., non ha eliminato i problemi elencati risolvendo i casi più eclatanti. In questo contesto, viene introdotta “la legge di sostegno alla contrattazione collettiva” che, oltre a rivitalizzare il meccanismo di estensione dell'ambito di efficacia dei contratti collettivi, ha previsto l'istituzione e la regolamentazione del salario minimo con un minimo inderogabile direttamente fissato per legge in euro 8,50 orari. La legge ha prodotto benefici ai lavoratori con un innalzamento dei salari che ha riguardato circa il 15% dei lavoratori tedeschi e con una riduzione delle disuguaglianze retributive. Il modello tedesco si distingue da quello italiano: a) Per la presenza di un salario minimo fissato per legge; b) Per una copertura collettiva molto inferiore a quella italiana; c) per un sistema di relazioni industriali diverso dal nostro. Basti riflettere sul meccanismo di adeguamento periodico del salario minimo previsto dalla legge che prevede una proposta di una commissione consultiva tripartita, composta da tre commissari indipendenti e sei membri nominati dalle maggiori confederazioni (tre di provenienza sindacale e tre datoriale) che il Governo è libero di accettare o meno (senza possibilità di modificarla) (cfr. E. MENEGATTI, Oltre il Far West contrattuale, cit.). Lo studio di questi modelli (e di altri modelli europei) può certamente aiutare il Legislatore italiano nella ricerca del modello “migliore” da applicare nel nostro paese. Ma questo approccio opera sul piano della politica del diritto. La comparazione come strumento interpretativo Il secondo approccio (che utilizza la comparazione come strumento di interpretazione) ha incontrato, storicamente, maggiori resistenze. Hans Dolle, esaminando la giurisprudenza tedesca fino agli anni Sessanta, osservava che, mentre la comparazione era diventata un canone sempre più diffuso per il Legislatore, l'uso della comparazione nella giurisprudenza aveva incontrato maggiori resistenze. Ma queste resistenze sono ormai superate. Basti pensare all'uso della comparazione nella giurisprudenza costituzionale (sul tema v. P. PASSAGLIA, Il diritto comparato nella giurisprudenza della Corte costituzionale: un'indagine relativa al periodo gennaio 2005-giugno 2015, in ConsultaOnline, 13 luglio 2015) che progressivamente utilizza l'argomento comparatistico come precedente o, addirittura, come componente essenziale di una (futura) decisione (sul tema v. A. SOMMA, L'uso giurisprudenziale della comparazione nel diritto interno e comunitario, Milano, 2001). Ragionando dal punto di vista dei sistemi, la comparazione giuridica supera i limiti di sistema perché, come ci ha insegnato Gino Gorla (in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, 79 ss.), richiede a chi la pratica di prendere le distanze dalla dogmatica e dal retroterra culturale di un determinato ordinamento. In questo senso la comparazione attinge al livello più profondo dell'interpretazione «nel senso che essa dilata le opzioni argomentative del giudice ed amplia il raggio delle esperienze che prende in considerazione di fronte ad alternative di decisione» (cfr. P. RIDOLA, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, 297). In questo contesto, è utile segnalare un'evoluzione del diritto dell'Unione e, in particolare, della natura del procedimento pregiudiziale avanti la Corte di giustizia. Un procedimento inizialmente concepito come una procedura di collaborazione giudiziaria tra pari si è sviluppata progressivamente «in una procedura che pone maggiormente l'accento sulla costruzione del precedente ai fini dell'uniformità sistemica» (conclusioni dell'Avv. Gen. M. Bobek, pronunciate il 15 aprile 2021 nella causa C-561/19). Ciò pone l'accento sulla finalità di ampio respiro della pronuncia della Corte di giustizia come forma di garanzia dell'interpretazione uniforme e dell'ulteriore sviluppo del diritto. Un approccio, metodico, di estremo interesse, che può essere certamente utilizzato nella materia in esame. Vediamo come. Con le pronunce della Cassazione (a partire dalla Cass. 10 ottobre 2023, n. 28321) la stagione del CCNL come autorità salariale entra in crisi. Il punto di svolta è costituito (al di là del pacifico potere del giudice di potere valutare la retribuzione dovuta in modo conforme all'art. 36 Cost.) dall'avere messo in dubbio la conformità a costituzione dei trattamenti previsti da vari CCNL (ad esempio quello che disciplina la vigilanza privata e servizi fiduciari) stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative dal lato datoriale e sindacale. In questo modo si scardina «la presunzione di conformità all'art. 36 Cost. dei minimi tabellari fissati dai CCNL maggiormente rappresentativi, presunzione che da assoluta viene degradata a semplice e ammette la prova contraria» (cfr. S. CIUCCIOVINO, Salario minimo, salario dignitoso, salario giusto: temi per un dibattito sul futuro della contrattazione collettiva, in federalismi.it, 1° novembre 2023). Il cambio di paradigma riguarda la possibilità che il giudice possa verificare la conformità a costituzione dei parametri minimi in base a parametri quali la soglia di povertà individuata dall'Istat, il salario medio o mediano individuabile attraverso i dati Uniemens censiti dall'INPS, il costo della vita differente da zona a zona e altri ancora. A sostegno di questa svolta si richiama il diritto dell'Unione europea. Nelle recenti sentenze della Cassazione, in particolare, si fa riferimento al considerando n. 28 della direttiva (UE) 2022/2041 per convalidare «il riferimento in questa materia (“salari minimi adeguati”) agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà» (cfr. A CASU, Brevi note in tema di salario minimo, in diritticomparati.it, 2024). Nel considerando n. 28, afferma la Cassazione, la Direttiva prevede che «un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso» e aggiunge che «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali». Nello stesso considerando, aggiunge la Suprema Corte, è inoltre previsto che, nell'individuazione di parametri utili per determinare l'adeguatezza del salario, «la valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a livello nazionale, come il confronto tra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere di acquisto dei salari minimi». Ai fini dell'accertamento giudiziale ex art. 36 Cost. possono venire in rilievo, prosegue la cassazione, i criteri, menzionati nel considerando n. 28 (e richiamati anche nell'art. 5 della direttiva), degli indicatori e dei valori di riferimento associati per orientare la valutazione degli Stati associati circa l'adeguatezza dei salari minimi legali («Gli Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale e/o gli indicatori utilizzati a livello nazionale. La valutazione potrebbe basarsi su valori di riferimento comunemente impiegati a livello internazionale, quali il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50% o il 60% del salario netto medio»). Il riferimento ai considerando e al testo della direttiva richiede sei approfondimenti. Sotto il primo profilo, rileva la natura giuridica dei considerando. La Cassazione, nell'ordinanza del 7 marzo 2022, n. 7280, ha precisato che questi «non contengono enunciati di carattere normativo» ma svolgono, piuttosto, la funzione di «spiegare le ragioni dell'intervento normativo». Affermazioni pienamente condivisibili e in linea con il consolidato orientamento della Corte di giustizia (ad es. nella sentenza 19 novembre 1998, C-162/97) la quale, in più occasioni, ha chiarito che i considerando degli atti normativi europei non hanno valore giuridico vincolante, sicché non possono essere fatti valere «né per derogare alle disposizioni stesse dell'atto di cui trattasi né al fine di interpretare tali disposizioni in un senso manifestamente in contrasto con la loro formulazione». Sotto un secondo profilo andrebbe chiarito, da parte della Corte di giustizia, se gli enunciati attengono alla “sufficienza” della retribuzione o, viceversa, al profilo della “proporzionalità” (sul tema v. U. CARABELLI, Considerazioni sull'interpretazione dell'art. 36, co 1, Cost., in Riv. giur. lav., 2023, n. 4, 647 ss., nonché E. GRAGNOLI, La recente giurisprudenza di legittimità e la dissociazione fra sufficienza e proporzionalità della retribuzione, in Lav. dir. Europa, 2024, n. 2, e M. MISCIONE, Minimi retributivi e libertà sindacale nel controllo giurisdizionale imposto dall'art. 36 della Costituzione, ivi). Sotto un terzo profilo, andrebbe approfondita la portata “precettiva” di tali enunciati considerato che gli stessi lasciano un ampio margine di applicazione agli Stati membri («gli Stati membri possono scegliere»). Sotto un quarto profilo (con riferimento al testo della direttiva) sarebbe importante chiedere alla Corte di giustizia la portata dell'adeguatezza salariale enunciata dalla direttiva. Sulla direttiva si vedano P. ALBI (a cura di), Salario minimo e salario giusto, Torino, 2023; T. VETTOR, Il lavoro dignitoso nell'ordinamento euro-unitario, in M. BROLLO, C. ZOLI, P. LAMBERTUCCI, M. BIASI (a cura di), Dal lavoro povero al lavoro dignitoso. Politiche, strumenti, proposte, Bergamo, 2024, 36 ss.; G. PALMISANO, L'Europa dei diritti sociali. Significato, valore e prospettive della Carta sociale europea, Bologna, 2022; P. LAMBERTUCCI, Il lavoro povero: un itinerario per la ricerca, in Lav. dir. Europa, 2022, n. 1, 1 ss.; A. BELLAVISTA, Il contrasto alla povertà lavorativa e il salario minimo legale all'italiana, ivi. Sulla direttiva in una prospettiva generale v. G. SIGILLÒ MASSARA, Prime osservazioni sulla direttiva europea sul salario minimo, in Mass. giur. lav., 2022, n. 3, 603 ss. Sulla proposta originaria v. V. BAVARO, S. BORELLI, G. ORLANDINI, La proposta di direttiva sul salario adeguato nell'Unione europea, in Riv. giur. lav., 2022, n. 1, I, 111 ss. La stessa, secondo parte della dottrina (V. BAVARO, «Adeguato», «sufficiente», «povero», «basso», «dignitoso»: il salario in Italia fra princìpi giuridici e numeri economici, in Riv. giur. lav., 2023, n. 4, I, 510 ss., spec. 515.) è declinata secondo due differenti prospettive: «Da una parte, selezionando la fonte di determinazione del salario (presumendo che la retribuzione dei contratti collettivi settoriali e intersettoriali è adeguata); dall'altra parte, nel caso di determinazione legale del salario minimo, determinando un valore economico di riferimento (coincidente con la soglia di povertà per com'è rilevata dagli indicatori internazionali o comunque da altri indicatori)». Sotto un quinto profilo un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sarebbe prezioso per verificare se sia corretta l'affermazione, contenuta nelle sentenze della Cassazione, che «lo scopo della direttiva […] è quello di ottenere un miglioramento dei minimi bassi, perché si avvicinino ai più alti». Sotto un sesto profilo, sarebbe importante chiedere alla Corte di giustizia se il cambio di paradigma, sul piano del diritto vivente, può essere fatto valere in modo retroattivo (cfr. Corte Cost. 8 marzo 2024, n. 38, p.8.4). Un esempio, sotto questo profilo, può essere illuminante. In un contezioso, pendente avanti il Tribunale del lavoro di Milano, circa 500 lavoratori hanno avanzato pretese, per epoche pregresse, per un importo complessivo che supera i 10 milioni di euro. In questo contesto, si pone il tema della tutela del legittimo affidamento e, più in generale, della certezza del diritto. In realtà, nelle stesse sentenze della cassazione (ad es. a pag. 12 della sentenza n. 28320 del 10 ottobre 2023) si richiama il principio della “certezza del diritto e di irretroattività” ma non è chiaro come, nei diversi fori, questo richiamo venga recepito. Sul tema torneremo nel prossimo paragrafo. Su tutte le questioni accennate, comunque, l'utilizzo del metodo comparato risulta utilissimo considerato che le argomentazioni giuridiche sono legate al caso concreto, quindi gli ordinamenti da confrontare dipendono dalla questione in esame. Proceduralmente, attraverso il rinvio alla Corte di giustizia, si potrebbe stimolare un lavoro di comparazione da parte dell'Alta Corte, specie a supporto di decisioni critiche. Si parla di “comparazione valutativa” in K. LENAERTS, Le droit comparè dans le travail du juge communautaire, in F.R. VAN DER MENSBRUGGHE (a cura di), L'utilisantion de la methode comparative en droit europèen, namur, 2003, 111. L'art. 61 del regolamento di procedura della Corte di giustizia prevede uno strumento prezioso che consente alla Corte di giustizia di invitare gli Stati membri, in un caso specifico, «a rispondere per iscritto a taluni quesiti, entro un termine da essa stabilito». La Corte di giustizia, con riferimento ai problemi evidenziati, potrebbe, quindi, richiedere “materiali di studio” agli Stati membri e, sulla base del servizio di ricerca e documentazione presso la Corte, avere un quadro “comparato” da analizzare ai fini della sua decisione. La retroattività del “diritto vivente”. La tutela del legittimo affidamento e la certezza del diritto Il tema della retroattività dell'applicazione del cambio di paradigma, per effetto del diritto vivente, richiede un approfondimento. Il principio del legittimo affidamento non è espressamente contemplato nei Trattati dell'Unione Europea. Il suo riconoscimento come principio cardine del diritto europeo è dovuto all'attività creativa della Corte di Giustizia, la quale, con la sentenza Töpfer del 3 maggio 1978, C-12/77, ha per la prima volta sancito che «il principio della tutela dell'affidamento fa parte dell'ordinamento giuridico comunitario» (sul tema v. S. BASTIANON, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell'Unione Europea, Milano, 2012). Il principio del legittimo affidamento, così come non trova riconoscimento esplicito nei Trattati dell'Unione Europea, non lo trova neppure nella Costituzione italiana. Dottrina e giurisprudenza hanno fatto inizialmente riferimento al principio di buona fede, a sua volta non espressamente menzionato nel dettato costituzionale, ma il quale troverebbe riconoscimento nel principio di solidarietà sociale espresso dall'art. 2 Cost., secondo cui «la Repubblica […] richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Successivamente, in seguito all'affermazione dell'affidamento a livello comunitario ed alla sua espansione al diritto pubblico, dottrina e giurisprudenza hanno spostato l'accento sui principi di legalità, di certezza del diritto e di uguaglianza comuni a tutti i moderni Stati di diritto (R. SESTINI, Legittimo affidamento e certezza giuridica, in agatif.org, 2-3). Nell'ambito della giurisprudenza dell'Unione Europea il legittimo affidamento costituisce un corollario del più ampio principio della certezza del diritto. In riferimento a quest'ultimo, ritenuto un cardine per ogni moderno Stato di diritto, ne è stata sottolineata la natura “una e trina”. Secondo questa dottrina (S. BASTIANON, op. cit., 52), il principio della certezza del diritto si comporrebbe infatti di tre sottoprincipi: l'irretroattività degli atti normativi, la tutela del legittimo affidamento e la protezione dei diritti quesiti. Secondo altra impostazione (G. TESAURO, Manuale di diritto dell'Unione europea, Napoli, 2020, 160; sul tema v. CGUE 9 ottobre 2014, C-492/13) il principio della certezza del diritto si distingue da quello del legittimo affidamento anche in riferimento all'irretroattività della legge. Il primo serve a definire la regola, il secondo ne limita l'eccezione. I tre leading cases che hanno portato alla definizione dell'attuale orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia in materia di irretroattività della legge (nel nostro caso, però, si tratta di mutamento di orientamento giurisprudenziale) sono le sentenze Brock, Irca e Racke. La prima ha fissato la regola generale dell'irretroattività delle leggi, affermando che «il principio della certezza del diritto osta, come norma generale, a che l'efficacia nel tempo di un atto comunitario decorra da una data anteriore alla sua pubblicazione» (CGUE 14 aprile 1970, C-68/69). La seconda ha introdotto la possibilità di derogare alla regola generale, affermando il principio per cui il diritto comunitario non esclude del tutto la retroattività degli atti normativi (CGUE 7 luglio 1976, C-7/76). La terza (sentenza Racke) ha limitato l'eccezione introdotta dalla sentenza Irca alla regola generale imponendo il rispetto di due condizioni: una disposizione di legge può essere retroattiva soltanto se ciò è richiesto dallo scopo perseguito dalla norma ed a condizione che sia salvaguardato il legittimo affidamento degli interessati (CGUE 25 gennaio 1979, C-98/78). Nella pronuncia Meiko (CGUE 14 luglio 1983, C-224/82) la Corte di Giustizia è stata chiamata, in particolare, a valutare la legittimità di un regolamento, il quale era intervenuto modificando con efficacia retroattiva le condizioni stabilite da parte di un precedente regolamento per poter beneficiare di alcune agevolazioni previste in favore dei produttori ortofrutticoli. In particolare, il Regolamento n. 1530/78 prevedeva degli aiuti alla produzione in favore dei soggetti che avessero stipulato contratti entro il 31 luglio 1980, a condizione che una copia del contratto fosse stata trasmessa al competente ufficio nazionale anteriormente alla prima consegna. Successivamente, il Regolamento n. 2546/80 è intervenuto con efficacia retroattiva prevedendo l'erogazione dei benefici soltanto a coloro che avessero trasmesso il contratto entro e non oltre il termine del 31 Luglio 1980. In questo caso la Corte di Giustizia ha riconosciuto la violazione del principio del legittimo affidamento da parte della Commissione, affermando che: «nel subordinare a posteriori il beneficio dell'aiuto alla trasmissione dei contratti entro e non oltre il 31 Luglio 1980 la Commissione ha trasgredito il principio del legittimo affidamento degli interessati che, tenuto conto delle disposizioni in vigore al momento della conclusione dei contratti, non potevano ragionevolmente presumere di vedersi opporre retroattivamente l'inosservanza di un termine per la notifica dei suddetti contratti la cui scadenza coincide con il termine ultimo della loro stipulazione». Analogamente: «al fine di rispettare i principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento, le norme sostanziali del diritto dell'Unione devono, in linea di principio, essere interpretate come applicabili solo a situazioni createsi successivamente alla loro entrata in vigore [CGUE 24 settembre 2002, cause riunite C-74/00 P e C-75/00 P, punto 119]. […] Pertanto, il principio della certezza del diritto osta, in linea di massima, a che l'efficacia nel tempo di un atto dell'Unione decorra da prima della sua pubblicazione o della sua notifica, a seconda dei casi, posto che la Corte ha statuito che può avvenire diversamente, in via eccezionale, qualora lo esiga uno scopo di interesse generale e sia debitamente rispettato il legittimo affidamento degli interessati […]» (CGUE 28 novembre 2006, C-413/04, punto 75). Dunque, la Corte, pur riconoscendo la generale operatività del principio di irretroattività, ne ammette la deroga in un numero chiuso di casi. Infine, la soccombenza del legittimo affidamento del privato rispetto alla retroattività è ancorata al requisito della prevedibilità, oggetto di valutazione attraverso il canone prospettico dell'«operatore economico prudente e accorto». Alla luce di questi principi, appare possibile sostenere che, nella specie, l'applicazione retroattiva dell'orientamento di legittimità possa ledere il principio del legittimo affidamento in quanto l'impresa al momento del cambio di giurisprudenza non era in grado di prevedere il mutamento della situazione giuridica da cui originava il suo affidamento. Un rinvio alla Corte di giustizia, sotto questo profilo, appare opportuno anche per chiarire la portata del richiamo alla certezza del diritto menzionato nelle sentenze della Cassazione sul tema del salario minimo. Conclusioni: un auspicio L'utilizzo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con riferimento alla questione in esame, è estremamente prezioso. Ma l'utilizzo della comparazione all'interno del percorso motivazionale che viene sollecitato alla Corte di giustizia trascende, ovviamente, il tema in esame e apre scenari, in molte materie in cui vengono in gioco diritti sociali, non ancora sufficientemente esplorati. La creazione di un “precedente” che abbia un respiro “comparato” contribuirà certamente alla creazione di una uniformità sistemica. Ciò pone l'accento, come già detto, sulla finalità di ampio respiro della pronuncia della Corte di giustizia come forma di garanzia dell'interpretazione uniforme e dell'ulteriore sviluppo del diritto. Non si tratta, come pure è stato sostenuto, di una forma alternativa all'integrazione europea (finalità ribadita nei preamboli dei Trattati) ma di un percorso, complementare all'integrazione, che deve garantire uno “spazio giuridico europeo” (A. von BOGDANDY, Il diritto europeo oltre “l'Unione sempre più stretta”: ricostruzione del concetto e della metodologia comparativa della Corte di giustizia, in Il diritto dell'Unione europea, 2017, n. 1, 9 ss.). Uno spazio che prevede un rapporto di interazione e dipendenza strutturale reciproca tra ordinamenti pur mantenendo tra di essi e le loro istituzioni un grado di autonomia adeguato. |