Attestazione di conformità e art. 6 CEDU: quali limiti?

01 Luglio 2024

La sentenza della Corte EDU del 23 maggio 2024, Patricolo e altri c. Italia, è l'occasione per valutare il tasso di costituzionalità della complessa disciplina nazionale in tema di attestazione di conformità rispetto all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, nella parte in cui garantisce il diritto di ciascun individuo ad accedere all'organo giurisdizionale. Il contributo mira a valorizzare una interpretazione alla stregua della quale le norme giuridiche ante PCT non debbano essere obliterate e concorrano a tenere lontano il processo civile telematico da un vieto formalismo.

Introduzione. La c.d. sentenza Patricolo della Corte EDU

La sentenza del 23 maggio 2024, Patricolo e altri c. Italia solo apparentemente si è pronunciata su un tema di nicchia, vale a dire quello della compatibilità o meno con l'art. 6 CEDU della sanzione dell'improcedibilità del ricorso per Cassazione, in caso di inosservanza dell'onere di deposito, entro venti giorni dalla notifica del ricorso, dell'attestazione di conformità della relata di notificazione della decisione impugnata, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. La pronuncia, infatti, è stata l'occasione per procedere ad un complesso esame dei rapporti tra PCT e diritto di accesso alla giustizia ex art. 6 CEDU, scandagliando se e nella misura in cui la disciplina speciale del processo telematico sia giustificabile in relazione a tale disposizione sovranazionale. Di qui, da parte della Corte EDU, un'analisi dei principi che governano i rapporti tra forma e accesso alla giustizia, il cui possibile conflitto – possiamo aggiungere – è di gran lunga stemperabile quanto più si rilevi come le norme in tema di PCT non costituiscano un nucleo chiuso e separato, né inficino la rilevanza e l'applicabilità di disposizioni anche anteriori, sufficientemente elastiche, e perfettamente idonee a garantire la mancanza di incostituzionalità della disciplina processualcivilistica rispetto agli artt. 117 Cost. e 6 CEDU.

Finalità delle attestazioni di conformità e Corte EDU

All'alba dell'entrata in vigore del PCT, si è assistito all'ingresso di una pluralità di norme disciplinanti le attestazioni di conformità. La genesi di tali disposizioni si spiega con l'esigenza di coordinare il veicolo cartaceo, in passato esclusivo, con quello telematico: la conformità di ogni documento o atto proveniente dall'uno ma prodotto nell'altro è scandita da tali attestazioni, che, dunque, nell'ottica del legislatore, riportano ad unità il sistema, laddove si verifichi il passaggio da un “ambiente” all'altro.

La situazione suesposta si è verificata proprio nel giudizio dinanzi alla Suprema Corte, in particolare, ai fini dell'applicazione dell'art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. Il sereno e pacifico avvio delle notifiche telematiche anche di sentenze, allo scopo di far decorrere il termine breve per l'impugnazione delle stesse (artt. 325 e 326 c.p.c.), si è dovuto coordinare con un significativo periodo in cui il giudizio di Cassazione è rimasto integralmente cartaceo. Da tale disallineamento è sorta l'esigenza di attestare la conformità di quanto originariamente telematico abbia rilevanza dinanzi alla Suprema Corte: nel caso di specie, la relata di notifica telematica della sentenza impugnata ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., allo scopo di valutare la tempestività o meno del ricorso per Cassazione.

La sentenza Patricolo della Corte EDU ben comprende e non sindaca quest'ultima esigenza. La pronuncia sovranazionale è chiarissima nell'enunciare come l'interesse pubblico alla verifica della maturazione o meno del giudicato debba essere adeguatamente tutelato e possa essere demandato al deposito della relata di notifica della sentenza impugnata, in carenza della cui produzione, dunque, è legittimo pervenire alla pronuncia di improcedibilità del ricorso (così il par. 82 di tale pronuncia, nel rigettare il ricorso n. 37943/2017).

Ben altre e più complesse conclusioni, invece, devono imporsi laddove a mancare non sia il deposito della relata di notifica, bensì l'osservanza del termine ex art. 369 c.p.c. per la produzione della sua attestazione di conformità (della versione analogica a quella digitale ed inserita nella PEC di notifica): se non vi è nessun conflitto tra l'art. 6 CEDU e la lamentata giurisprudenza della Cassazione, laddove imponeva l'attestazione di conformità della relata in osservanza dell'art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. 21 gennaio 1994, n. 53 (parr. 96 e 97 della sentenza), la stringente correlazione tra mancato deposito di detta attestazione nel termine ex art. 369 c.p.c. e improcedibilità del ricorso per Cassazione contrasta con tale disposizione sovranazionale e con il principio di proporzionalità delle forme rispetto al summenzionato scopo di verifica del giudicato. Secondo la Corte EDU, infatti, l'art. 6 e il principio di proporzionalità succitato impongono che non si pervenga alla sanzione dell'improcedibilità laddove sia altrimenti garantita alla Suprema Corte tale conformità documentale necessaria per la verifica della tempestività dell'impugnazione: così, pur laddove non sia stata prodotta l'attestazione in questione entro il termine ex art. 369 c.p.c., il deposito di ciò entro l'udienza (eventualmente su invito della Suprema Corte), l'omessa contestazione della conformità dalla controparte costituitasi o, da parte di quest'ultima, la produzione di tale attestazione saranno parimenti idonei, deponendo in tal senso anche il successivo orientamento di sez. un., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 (parr. 99, 100 e 42 della sentenza Patricolo).

Da tale posizione della Corte EDU possiamo, dunque, trarre un primo ed importante punto fermo: le norme in tema di attestazione di conformità hanno un valore strumentale e non intrinseco, di talché le stesse non possono impedire l'accesso alla giustizia ed ad una pronuncia nel merito laddove l'assicurazione di tale conformità tra analogico e digitale sia altrimenti soddisfatta. Un assunto, quest'ultimo, sia di importanza primaria, specie se estensibile a tutte le norme tecniche e settoriali in tema di PCT, sia idoneo a manifestare corollari in ambiti di diritto processuale di vastissima applicazione. Vediamone alcuni.

L'indisponibilità dell'interesse non esclude la disponibilità della prova

Come indicato, la sentenza Patricolo, riprendendo le statuizioni di Cass. sez. un., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 (pubblicata successivamente alle pronunce della Suprema Corte oggetto di doglianze), valorizza una serie di comportamenti delle parti, come l'omessa contestazione da parte dell'una di quanto prodotto dall'altra, per ritenere soddisfatto l'onere probatorio attinente alla tutela di interessi sovraindividuali, quale quello della verifica della tempestività dell'impugnazione e, dunque, della mancata maturazione del giudicato. Nella succitata pronuncia delle Sezioni Unite, ciò è esemplificativamente veicolato dall'art. 23, comma 2, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale o CAD), laddove sancisce il medesimo valore probatorio e la conformità delle copie analogiche (conformi alle vigenti regole tecniche) del documento informatico rispetto all'originale digitale, “se la loro conformità non è espressamente disconosciuta”.

Tale pronuncia della Corte Suprema di Cassazione e la Corte EDU sono, dunque, da ultimo concordi nel ritenere che la sola esigenza di tutelare interessi sovraindividuali non muti di per sé la disciplina delle prove nel processo civile, né escluda in toto la disponibilità delle stesse, in capo alle parti, nei limiti riconosciuti dalla legge. Tale assunto, invero, non è stato accolto unanimemente e non è stato generalizzato dalla giurisprudenza nazionale: così, a proposito dell'art. 115 c.p.c., la Suprema Corte ha ritenuto che “una norma è imperativa o non lo è. Se è imperativa, come sul piano sostanziale non è derogabile dalla volontà delle parti, così sul piano processuale i fatti cui la norma imperativa conferisce rilevanza giuridica non possono essere esclusi dal novero di quelli bisognosi di prova perché non sono stati contestati. E quand'anche - come sembra peraltro preferibile - si fondi il principio di non contestazione non già sul principio dispositivo come proiezione processuale dell'autonomia privata delle parti, bensì sul principio di efficienza (in termini di economia e risparmio di attività processuali), il rispetto di norme imperative non può essere sacrificato sull'altare dell'economia e dell'efficienza processuale” (così Cass. civ., sez. II, sent., 9 febbraio 2023 n. 4019). Tuttavia, ben altri pacifici orientamenti, più condivisibilmente, escludono, di fatto, un rapporto di necessario collegamento tra indisponibilità della prova e indisponibilità dell'interesse sotteso al fatto da provarsi. Così, ad esempio, la dimostrazione di un negozio richiedente la forma scritta ad substantiam non è raggiungibile – tendenzialmente – non solo tramite testimoni o presunzioni semplici (artt. 2725 e 2729 c.c.), ma anche tramite confessione della controparte (in tema, ex multis, Cass. civ., sez. I, ord., 17 ottobre 2018 n. 25999); tuttavia, è sufficiente una volontaria omissione del disconoscimento della sottoscrizione della scrittura privata prodotta per assumere, sic et simpliciter, come provato il negozio interessato dall'art. 1350 c.c. Altrettanto, poi, può concludersi per un atto più prettamente processuale come la procura alle liti, l'autenticità delle cui sottoscrizioni poggia sul rilievo della mancata proposizione di querele di falso della controparte.

Alla stregua della sentenza Patricolo, quest'ultima conclusione, dunque, può estendersi al tema delle attestazioni di conformità: la mera postulabilità che le stesse siano surrogabili dalla carenza di doglianze avversarie esclude che tali attestazioni abbiano uno statuto normativo, speciale ed insostituibile, quantunque le stesse possano essere imposte dall'esigenza di tutela di interessi sovraindividuali.

I mezzi di prova sostitutivi delle attestazioni di conformità

La suesposta posizione della Corte EDU, laddove valorizza Cass. sez. un., sent., 25 marzo 2019, n. 8312, veicola implicitamente, nella fattispecie in esame, la rilevanza, conferita dalla Suprema Corte, all'art. 23, comma 2, CAD: è tramite tale disposizione, infatti, che è possibile sancire un'assimilazione di effetti dimostrativi tra attestazione di conformità e omesso disconoscimento della copia analogica del documento informatico. C'è da chiedersi se ciò sia una mera conseguenza dell'art. 2, comma 6, del CAD, laddove estende le norme del Codice dell'amministrazione digitale anche al processo civile telematico, salva espressa deroga, oppure se, più in generale, tali conclusioni implichino una generale sostituibilità delle attestazioni di conformità con i classici mezzi di prova contemplati in ambito processualcivilistico. Ancorché a tutt'oggi inespressa dalla giurisprudenza in termini così chiari, quest'ultima sembra essere la conclusione più probabile. In primo luogo, occorre evidenziare che la disciplina civilistica non solo non contempla un regime probatorio diverso per fatti di rilevanza processuale e per fatti di rilevanza sostanziale, ma anche evidenzia indici opposti e perimetranti uno statuto sostanzialmente unitario della prova: basti pensare che la fondatezza o meno di una querela di falso viene sancita alla stregua di medesimi mezzi di prova, tanto che la stessa interessi un negozio sostanziale come un atto pubblico di compravendita di proprietà su immobili, quanto che la medesima concerna un atto di carattere squisitamente processuale, come il verbale di udienza. Mutatis mutandis, un identico principio sarebbe sancibile per le attestazioni di conformità, surrogabili da alternativi mezzi di prova.

In secondo luogo, la sostituibilità delle attestazioni di conformità con altri mezzi di prova è implicitamente ammessa, se non imposta dalla sentenza Patricolo. Quest'ultima, infatti, nei parr. da 44 a 46, sussume a “PERTINENTI STRUMENTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE” il parere n. 14 (2011) del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) sulla giustizia e le tecnologie dell'informazione (IT), anche laddove recita che “Le IT non devono diminuire i diritti procedurali delle parti”. Trattasi di un precetto, a ben vedere, realizzato dal nostro ordinamento – quantomeno nell'ambito de quo – che in tutte le disposizioni processualcivilistiche dedicate alle attestazioni di conformità non deroga espressamente alle altre norme parimenti vigenti.

Tale conclusione consente importanti sviluppi proprio nell'ambito elettivo delle attestazioni di conformità, vale a dire la veicolazione in contesto analogico di quanto digitale, o viceversa. Proprio analizzando la fattispecie della produzione della relata di notifica e della relativa attestazione di conformità, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., non v'è dubbio che la sentenza Patricolo legittimi la declaratoria di improcedibilità in caso di omesso deposito della relata (così il par. 82 di tale pronuncia, nel rigettare il ricorso n. 37943/2017), ma non escluda comunque alternative probatorie che, a ben vedere, parimenti (se non più significativamente) potrebbero consentire la verifica giudiziale della tempestività o meno dell'impugnazione. Si pensi, ad esempio, ad un video su supporto cd-rom o ad una serie di stampe delle videate del software di posta elettronica dell'avvocato impugnante, riportanti la PEC, la sentenza e la relata ivi contenute, nonché la data di tale comunicazione: dal punto di vista dimostrativo, tali riproduzioni comproverebbero ancor più significativamente il dies a quo del termine breve per l'impugnazione rispetto ad una relata anche potenzialmente suscettibile di errore di redazione; dal punto di vista giuridico, tali produzioni sarebbero pacificamente sussumibili all'art. 2712 c.c., anche laddove non fosse rispettato il perimetro dell'art. 23, comma 2, del CAD (deponendo in tal senso l'applicazione analogica al caso di specie del richiamo di tale art. 2712 c.c. da parte di Cass. civ., sez. VI, ord., 14 maggio 2018 n. 11606 a proposito della e-mail, oppure di Cass. civ., sez. I, sent., 29 gennaio 2024 n. 2607 e di Cass. civ., sez. III, ord., 26 agosto 2020 n. 17810 a proposito delle pagine web). La pertinenza dell'art. 2712 c.c., inoltre, implicherebbe il riconoscimento di una attitudine probatoria non indifferente, dovendo richiamarsi l'efficacia dimostrativa fino al disconoscimento della controparte, il quale, tuttavia, richiede una formulazione non solo tempestiva, chiara, circostanziata ed esplicita, ma anche indicante gli “elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta” (così Cass. civ., sez. VI, ord., 13 maggio 2021 n. 12794), da vagliarsi con qualunque mezzo di prova, anche presuntiva (in tema, ex multis, Cass. civ., sez. l., sent., 17 febbraio 2015 n. 3122); in via di risoluzione è poi il contrasto giurisprudenziale circa i tempi di tale disconoscimento, essendo oramai risalente l'indirizzo che ammetteva la sua formulazione nel corso dell'intero giudizio (come altresì sostenuto da Cass. civ., sez. l, sent., 18 dicembre 1998 n. 12715, laddove esclude i termini dell'art. 215 c.p.c.), prediligendosi la sua ammissione solo nella prima difesa utile e successiva alla produzione (così, ex multis, Cass. civ., sez. II, ord., 24 febbraio 2023 n. 5755 anche in base all'art. 157, comma 2, c.p.c.).

Non v'è dubbio che, tuttavia, l'avvalimento di mezzi di prova alternativi alle attestazioni per comprovare la conformità sconti gli eteronimi limiti processuali legati alle preclusioni istruttorie, al rito ed al grado del giudizio. Così, ad esempio, se assai poco osta ai suesposti esempi di produzione ex art. 2712 c.c. specie laddove di particolare efficacia dimostrativa, in assenza di ammissibile disconoscimento di controparte o in presenza di un disconoscimento vagliabile in base a presunzioni semplici, ben più difficile sarebbe ipotizzare l'ammissibilità di una capitolata prova per testi sul punto ed in gradi che escludano in toto una attività istruttoria, come quello dinanzi alla Suprema Corte. In generale, è possibile affermare che, alla pari di una qualunque istruzione della causa, la fattispecie de qua potrà avere massima latitudine in primo grado e scontare le preclusioni istruttorie via via maturatesi all'interno dello stesso, nonché quelle sempre più stringenti nei gradi successivi, temperate solamente dal rilievo di come alcune produzioni possano incolpevolmente sopravvenire (ad es., la relata di notifica della sentenza di primo grado rispetto al successivo appello) e, per tale ragione, richiedere ed ammettere una nuova prova della conformità.

La considerazione del regime normativo dei mezzi di prova anche in alternativa alle attestazioni di conformità comporta un ulteriore effetto processuale: sarebbe possibile giungere ad affermare la relativa conformità anche in presenza della contumacia della controparte, così superando il limite sancito da sez. un. civ., sent., 25 marzo 2019 n. 8312, laddove ritiene che la mancata costituzione escluda la presunzione di conformità della copia anche in assenza di relativa attestazione. Al contrario, fatta salva l'osservanza dell'art. 292 c.p.c. (per come anche intaccato dalle pronunce della Corte costituzionale), l'efficacia probatoria dei mezzi di prova civilistici non viene meno in caso di contumacia della controparte, mancando una norma che sancisca tale limite ed essendo anzi quest'ultimo dichiaratamente escluso dalla giurisprudenza maturata proprio a proposito dell'art. 2712 c.c. (così, in tema, Cass. civ., sez. III, sent., 23 novembre 2000 n. 15148).

Anche laddove poi la controparte si sia costituita, la postulabilità di alternative probatorie alle attestazioni di conformità apre, inoltre, il campo all'argomento di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c., specie quello derivato dal comportamento processuale della parte avversa a quella producente copia analogica del documento informatico (o viceversa). Se, infatti, secondo la giurisprudenza, il principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. non si applica ai documenti, avendo per oggetto solo i “fatti storici sottesi a domande ed eccezioni” (così, ex multis, Cass. civ., sez. III, sent., 5 marzo 2020 n. 6172), ben possono assurgere ad argomento di prova non solo l'omessa doglianza circa l'avversaria produzione, unitamente “all'intero complesso di tesi difensive esposte” (così Cass. civ., sez. I, sent., 24 aprile 2008 n. 10650) – che, per vero, porterebbe ad esiti non dissimili da quelli già raggiunti da Cass. sez. un., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 –, bensì anche la contraddittorietà delle difese rispetto al documento prodotto senza attestazione (in tema, Cass. civ., sez. I, sent., 8 febbraio 2006 n. 2815). Discutibile, poi, sarebbe limitare la rilevanza ex art. 116, comma 2, c.p.c. sulla base del tradizionale rilievo di come l'argomento di prova “non può essere posto da solo a fondamento della decisione, ma deve essere valutato insieme all'intero materiale probatorio acquisito al processo” (così, ex multis, proprio Cass. civ., sez. I, sent., 24 aprile 2008 n. 10650). Invero, anche a non voler valorizzare il contrapposto orientamento, esemplificativamente sorto a proposito del rifiuto della parte a sottoporsi ad esami ematologici nel giudizio di accertamento della paternità naturale, nell'ambito del quale è stato sancito come “il comportamento processuale delle parti (…) può costituire unica e sufficiente prova di convincimento, e non soltanto un elemento di valutazione delle prove già acquisite” (così, ex multis, Cass. civ., sez. I, sent., 18 dicembre 1998 n. 12679), in ogni caso l'argomento di prova nella fattispecie in esame non è sotteso a dimostrare recta via il merito della controversia, bensì la conformità della copia del documento alla versione originale; ne consegue che la valutazione del comportamento processuale si salda sempre ed inequivocabilmente con la circostanza di tale produzione documentale, corroborando, dunque, un giudizio più complesso, che deve necessariamente considerare quest'ultima e che non si limita all'isolato riscontro dell'argomento di prova.

Invece, l'alternativo ricorso a mezzi di prova d'ufficio, come la richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c., per surrogare l'attestazione di conformità non prodotta sarebbe di dubbia ammissibilità. Nella fattispecie de qua, gli stessi sanerebbero l'omissione individuale del difensore che non abbia depositato tale attestazione, quando, invece, tradizionalmente i medesimi non sono esperibili per supplire all'osservanza di un onere in capo alla parte (così, ex multis, circa l'inidoneità della richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c. a superare l'onere probatorio, Cass. civ., sez. l., sent., 13 marzo 2009 n. 6218).

La minaccia della sanzione non sostituisce l'attestazione

In alcuni passaggi della sentenza Patricolo (parr. 99 e 42), la Corte EDU valorizza anche la previsione di sanzioni penali e disciplinari quale deterrente alla produzione di copie non conformi, menzionando la posizione in tal senso di sez. un. civ., sent., 25 marzo 2019 n. 8312. Più precisamente, quest'ultima ha incidentalmente rilevato come la “fedeltà documentale” del ricorso per Cassazione o della sentenza impugnata sia salvaguardata anche dalla vigenza di illeciti penali o disciplinari, come l'art. 50 del codice deontologico forense, sottesi a reprimere la produzione di copie apocrife (così i parr. 19 e 28).

Dalle argomentazioni suesposte, pare, anzitutto, escludersi che forme di “sanzioni civili” siano ritenute giurisprudenzialmente sufficienti per assumere che la condotta processuale delle parti possa presumersi regolare o, comunque, debitamente indirizzata da illeciti di tale natura. Ne consegue che l'art. 88 c.p.c., la disciplina delle spese processuali o l'eventuale condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. possono essere applicati in caso di produzioni non autentiche, ma non consentono di perimetrare esegeticamente la regolamentazione pertinente per ritenere dimostrata la genuinità documentale.

Quanto ad una possibile rilevanza delle sanzioni amministrative, né la sentenza Patricolo, né sez. un. civ., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 prendono espressa posizione sul punto, ma è possibile presumere che rientrino nel principio evidenziato da tali pronunce: le sanzioni disciplinari dirette agli avvocati hanno natura amministrativa (così, ex multis, sez. un. civ., sent., 18 aprile 2018 n. 9558), sicché quanto affermato per l'illecito disciplinare è estensibile a quello amministrativo.

Per quanto concerne le sanzioni espressamente considerate dalle pronunce suesposte, vale a dire quelle disciplinari e penali, c'è da chiedersi che rilevanza abbia la previsione delle stesse nell'economia argomentativa di tali sentenze e, dunque, nel tema delle attestazioni di conformità. Un primo punto fermo deve essere esplicitato: la minaccia di tali sanzioni, per quanto realizzante uno scopo di deterrenza di false produzioni, non sostituisce, di per sé, la disciplina delle attestazioni di conformità, né rende giuridicamente irrilevante la loro osservanza. Del resto, né la sentenza Patricolo, né sez. un. civ., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 sanciscono un automatismo tra previsioni di sanzioni e autenticità della produzione anche in assenza di attestazione di conformità, ma si limitano ad evidenziare l'esistenza delle stesse come un ulteriore argomento a suffragio delle rispettive ricostruzioni esegetiche. Tale conclusione può sembrare scontata, ma, invero, non è tale: in altri campi dell'ordinamento, come in tema di parcella vistata dall'Ordine, la giurisprudenza di legittimità è giunta ad esiti esattamente opposti, sancendo che “La parcella dell'avvocato costituisce una dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, in quanto l'iscrizione all'albo del professionista è una garanzia della sua personalità; pertanto, le "poste" o "voci" in essa elencate, in mancanza di specifiche contestazioni del cliente, non possono essere disconosciute dal giudice” (così, ex multis, sez. un. civ., sent., 18 giugno 2010 n. 14699), anche a prescindere dall'analisi dell'apparato sanzionatorio previsto nell'ipotesi di inosservanza del tariffario da parte della parcella redatta. Invece, l'ambito delle produzioni di copie cartacee di documenti digitali – e viceversa – non è assistito, di per sé, da una presunzione di corrispondenza in assenza di attestazione di conformità o delle altre suesposte situazioni processuali. Tale assunto è interpretativamente corretto: da un lato, opinare diversamente rischierebbe di determinare una interpretatio abrogans della disciplina normativa in tema di attestazioni di conformità; dall'altro, l'imposizione di queste ultime - pur temperata dalle alternative suesposte – è ragionevole sul piano dell'art. 3 Cost. e proporzionale sulla base dell'art. 6 CEDU, vista l'afferenza della relativa regolamentazione anche ad interessi sovraindividuali (come nell'esaminato caso dell'art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.), assenti invece nella obbligazione pecuniaria del compenso del difensore.

Escluso, dunque, che la minaccia di sanzioni penali o disciplinari sia di per sé sostitutiva della disciplina delle attestazioni di conformità, è lecito chiedersi quale sia la rilevanza giuridica di tali previsioni sul problema della autenticità o meno delle copie prodotte. Sul punto, l'approccio della sentenza Patricolo e di sez. un. civ., sent., 25 marzo 2019 n. 8312 è chiarissimo nel conferire importanza non dirimente, ma concorrente alla regolamentazione di tali illeciti. Anche se allora non vi è una posizione espressa sul punto da tali pronunce, è possibile osservare che la previsione di questi ultimi avalla un margine di discrezionalità interpretativa, consentendo di ritenere che le attestazioni di conformità possano essere sostituite dalle altre suesposte alternative parimenti idonee allo scopo, quali la mancanza di doglianze della controparte costituitasi, alternativi mezzi di prova, ecc. Ne consegue che l'elaborazione di un assetto sanzionatorio penale o disciplinare, sotteso a reprimere la produzione di copie mendaci, lungi da conferire maggiore formalismo al sistema del PCT, consente a quest'ultimo maggiore elasticità e discrezionalità interpretativa, concorrendo ad escludere un conflitto tra l'attuale disciplina processuale e l''art. 6 CEDU.

In conclusione

L'intera regolamentazione del processo civile telematico e delle attestazioni di conformità non costituiscono un ramo scisso e indipendente dall'intero ordinamento, ma si coordina continuamente con quest'ultimo, con sviluppi esegetici già manifestatati, come quelli suesposti, ma anche non ancora espressi in giurisprudenza e, nondimeno, ipotizzabili. Quanto sopraindicato a proposito dell'art. 2712 c.c. o dell'art. 116, comma 2, c.p.c. è solo un esempio, ma da considerarsi adeguatamente non solo sul versante applicativo, ma anche e soprattutto sul profilo sistemico: quanto più la disciplina del PCT sarà analizzata dalla giurisprudenza nazionale in termini non casistici e troverà alternative nelle disposizioni anche pregresse e non espressamente abrogate o derogate, tanto più il sistema processualcivilistico troverà per ogni fattispecie clausole di elasticità idonee alla realizzazione della finalità (prima ancora che costituzionale o sovranazionale, storicamente) chiovendiana del processo: il diritto ad una decisione nel merito della controversia.

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