Identità di genere e tutela dei diritti in carcere: il diniego di cure per la riassegnazione di genere a un detenuto transgender viola la sua autodeterminazione ex art. 8 CEDU

La Redazione
19 Luglio 2024

La Corte EDU (11 luglio 2024, ric. n. 31842/20) ha affermato che vi è stata una violazione dell'art. 8 CEDU nel caso di una detenuta transgender, nata uomo (la cui richiesta di riconoscimento legale era stata accolta nel 2023), alla quale il carcere aveva impedito di proseguire le cure ormonali necessarie per la transizione, nonostante vi fossero «elementi forti dinanzi alle autorità nazionali che indicavano che la terapia ormonale era un trattamento medico appropriato per lo stato di salute della ricorrente con un effetto benefico su di lei». Tale decisione delle autorità penitenziarie, secondo la Corte, avrebbe leso la capacità di autodeterminazione personale della donna, un soggetto vulnerabile in quanto trans, compromettendo la sua libertà di definire la propria identità di genere.

Nel caso in esame, la ricorrente è una donna transgender che al momento della presentazione della domanda era legalmente riconosciuta come maschio. La sua richiesta di riconoscimento legale è stata accolta nel 2023. Tra il 2013 e il 2024 ha scontato diverse pene detentive in carceri maschili. Nel giugno 2018 la ricorrente è stata ricoverata in ospedale dopo aver eseguito su se stessa un'orchiectomia bilaterale. Su richiesta del direttore del carcere in cui era detenuta, è stata visitata da un esperto medico che le ha raccomandato di sottoporsi a una terapia ormonale sostitutiva associata al cambiamento di genere. Il direttore della prigione ha consentito alla ricorrente di sottoporsi a tale trattamento.

Nel maggio 2020 la ricorrente è stata trasferita nel carcere di Siedlce. La sua richiesta al direttore di quella prigione affinché le venissero inviate le medicine necessarie per continuare il trattamento è stata lasciata senza esame in attesa di un ulteriore parere di un endocrinologo. La ricorrente ha presentato un parere in cui le è stata prescritta una terapia ormonale. La ricorrente ha esaurito i farmaci il 18 luglio 2020 e a partire da tale data il suo trattamento ormonale è stato interrotto.

Il 30 luglio 2020, ai sensi dell'art. 39 del Regolamento della Corte, la Corte ha indicato al governo convenuto di somministrare alla ricorrente gli ormoni prescritti dal suo endocrinologo nelle dosi prescritte, a sue spese, fino a diversa decisione di un endocrinologo.

La richiedente ha ricevuto il farmaco il 31 luglio 2020.

La decisione delle autorità penitenziarie, che riguardava l'accesso al trattamento ormonale, aveva toccato la libertà della ricorrente di definire la propria identità di genere, uno degli elementi essenziali dell'autodeterminazione. A questo riguardo, la Corte ha anche sottolineato l'impatto di tale decisione sul diritto della ricorrente all'autodeterminazione sessuale, alla quale era stata diagnosticata una disforia di genere dopo che aveva praticato un'automutilazione genitale e le era stato prescritto un trattamento ormonale sostitutivo che, secondo i referti medici, aveva avuto effetti benefici sulla sua salute fisica e mentale. I medici che avevano prescritto la terapia ormonale sostitutiva l'avevano ritenuta necessaria.

Pertanto, le autorità nazionali avevano a disposizione forti elementi che indicavano che la terapia ormonale era un trattamento medico appropriato per lo stato di salute della ricorrente. Quella terapia le era stata somministrata in precedenti carceri e aveva avuto su di lei un effetto benefico. Nella prigione di Sieldlce il trattamento era stato interrotto prima che potesse essere consultata. L'onere imposto alla ricorrente di dimostrare la necessità del trattamento medico prescritto sottoponendosi ad un ulteriore consulto con un endocrinologo appariva sproporzionato date le circostanze. In ogni caso, il parere dell'endocrinologo da lei presentato alle autorità penitenziarie confermando la necessità della terapia ormonale non aveva portato all'accoglimento della sua richiesta.

Il Governo non aveva fatto riferimento ad eventuali effetti dannosi che la terapia avrebbe potuto avere sulla salute fisica e mentale della ricorrente, né aveva sostenuto che consentirle di continuare la terapia avrebbe causato difficoltà tecniche e finanziarie alle autorità penitenziarie. In effetti, la ricorrente aveva sostenuto lei stessa il costo dei medicinali, senza imporre allo Stato alcun costo aggiuntivo. Sebbene il suo trattamento ormonale fosse stato interrotto solo per un periodo relativamente breve, tra il 18 luglio e il 31 luglio 2020, la ricorrente aveva affermato che dall'inizio di luglio 2020 assumeva la metà della dose di farmaco prescritta. La cosa più importante è che alla fine aveva ricevuto il farmaco, non a causa di un improvviso cambiamento di approccio da parte delle autorità, ma in conseguenza dell'indicazione da parte della Corte di misure provvisorie ai sensi dell'art. 39.

Di conseguenza, le autorità non erano riuscite a trovare un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti in gioco, compresa la tutela della salute della ricorrente e il suo interesse a continuare la terapia ormonale associata al cambiamento di genere. Concludendo in tal modo, la Corte ha tenuto presente la particolare vulnerabilità della ricorrente in quanto persona transgender detenuta sottoposta a una procedura di riassegnazione di genere, che aveva richiesto una maggiore protezione da parte delle autorità. L'eccezione preliminare del Governo relativa allo status di vittima della ricorrente, che era stata unita al merito, è stata pertanto respinta.

Tenendo conto che la ricorrente aveva ricevuto le cure mediche necessarie a partire dal 31 luglio 2020, la Corte ha deciso, all'unanimità, di revocare la misura provvisoria indicata al Governo convenuto ai sensi dell'art. 39 del Regolamento della Corte.