Identità non binarie: si chiede l’intervento della corte costituzionale

22 Luglio 2024

È ammissibile riconoscere formalmente, accanto a quello maschile e a quello femminile, un terzo genere (neutro o diverso) per le persone non binarie?

Massima

È sollevata questione di legittimità costituzionale delle seguenti norme:

1) art. 1 della l. 14 aprile 1982, n. 164 in riferimento agli artt. 2,3,32 e 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 8 della CEDU, nella parte in cui afferma che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», anziché prevedere che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».

2) Art. 31, comma 4, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 in riferimento agli articoli 2,3 e 32 Cost., nella parte in cui prevede che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3».

Il caso

Una persona, biologicamente di sesso femminile, non si riconosce in tale genere, ma nemmeno in quello maschile, verso cui peraltro prova maggiori affinità, per essere portatrice di un'identità di genere non binaria. Acquisita con il tempo la consapevolezza di detta identità, muta nelle relazioni sociali il proprio nome di battesimo e con il nuovo nome è conosciuta anche nell'ambito universitario. Sulla scorta di una diagnosi specialistica di disforia di genere, dopo aver intrapreso una terapia ormonale mascolinizzante, chiede al tribunale l'autorizzazione a modificare i propri caratteri fisici (iniziando con una mastectomia) ed a rettificare l'atto di nascita, con l'attribuzione del genere “neutro” o “diverso” e il nome con cui è conosciuta.

Il Tribunale, alla luce di un'articolata disamina della disciplina normativa interna, di quella di altri ordinamenti europei così come declinata dalla relativa giurisprudenza, nonché delle pronunce della Corte EDU, ritiene di sollevare questione di costituzionalità degli artt. 1, l. 164/1982 e 31, l. 150/2011.

La questione

È ammissibile riconoscere formalmente, accanto a quello maschile e a quello femminile, un terzo genere (neutro o diverso) per le persone non binarie?

Le soluzioni giuridiche

Non è certo questa la sede per affrontare in maniera adeguata il tema delle c.d. identità non binarie: con questa terminologia ci si riferisce a quelle identità di genere che sono al di fuori del cosiddetto binarismo, ovvero non strettamente e completamente maschili o femminili. Le identità non binarie talvolta possono rientrare nel termine generale transgender, poiché le persone si identificano tipicamente con un genere diverso da quello assegnato dalla morfologia dei caratteri sessuali, ma possono anche essere soltanto non conformi a tale genere. Esse infatti possono identificarsi come appartenenti a più di un genere, a nessun genere o oscillanti tra generi; l'identità di genere è comunque distinta e indipendente dall'orientamento sessuale.

Come molti altri, anche l'ordinamento italiano si fonda su un dualismo per cui ogni persona, alla nascita, deve essere assegnata a uno dei due sessi (femminile-maschile), attribuendo un nome a esso corrispondente. Dispone l'art. 29, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 che, nell'atto di nascita, deve essere fra l'altro indicato il sesso del nato, declinato, all'evidenza, sulla base del predetto dualismo; a sua volta, l'art. 35 del medesimo d.p.r. prevede che il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso. In caso di scissione tra psiche e soma (il transessualismo nell'eccezione più comune), la l. 164/1982 prevede la possibilità di attribuzione di un sesso differente da quello enunciato nell'atto di nascita, ammissibile, secondo l'art. 1 della legge stessa “a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali”. Se il legislatore del 1982 non si era configurato la possibilità di un “terzo sesso”, è pur vero che non aveva nemmeno imposto una rigorosa corrispondenza fra caratteri sessuali primari e risultanze dello stato civile. L'art. 3 della legge, poi trasfuso nell'art. 31 della d.lgs. 150/2011, prevede la preventiva autorizzazione al trattamento medico chirurgico, solo quando esso risulti necessario per adeguare i caratteri sessuali.

Coerentemente, la Corte di cassazione ha ritenuto che, per ottenere la rettificazione dell'attribuzione di sesso nei registri dello stato civile, non sia obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, purché la serietà e l'univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale siano oggetto di accertamento anche tecnico in sede giudiziale (Cass. 20 luglio 2015, n. 15138).

A sua volta la Consulta, sempre nel 2015 ha affermato che la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizza la modificazione del sesso, porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l'adeguamento dei caratteri sessuali (Corte cost. 21 ottobre 2015, n. 221). Precisa la Corte che la prevalenza della tutela della salute dell'individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione degli atti di stato civile, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico. I medesimi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza 13 luglio 2017, n. 180).

Dalle pronunce or ora citate emerge un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, strutturato non più esclusivamente in relazione alla conformazione degli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero fisiologicamente evolutisi, sia pure con l'ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Muta dunque la concezione del sesso, inteso come dato complesso della personalità, determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l'equilibrio.

La necessità dell'intervento chirurgico demolitivo è stata così esclusa in funzione del passaggio della persona interessata dal genere maschile a quello femminile. Nella fattispecie sottoposta all'esame del Tribunale di Bolzano, era invece richiesta la rettificazione dal genere femminile a quello neutro; l'operazione chirurgica non era dunque finalizzata a realizzare la corrispondenza del sesso anatomico con quello di appartenenza, ma ad avvicinare l'aspetto esteriore al genere percepito come più vicino all'interessata, che rivendicava un'identità non binaria.

Una volta intervenuto il mutamento di sesso, seguirà quello del nome; se inizialmente era richiesto il mantenimento dello stesso nome, con la sola variante maschile/femminile (o viceversa), con possibilità di modifica per quei soli nomi privi di declinazione nell'altro genere, oggi si ammette una scelta autonoma; si precisa però essere necessaria una corrispondenza assoluta tra sesso anatomico e nome, manifestando preferenza per l'interesse alla certezza nei rapporti giuridici rispetto all'interesse individuale alla coincidenza tra il sesso percepito e il nome indicato nei documenti di identità (Cass. 17 febbraio 2020, n. 3877).

Osservazioni

Il profilo pregiudiziale sotteso all'ordinanza in esame riguarda il riconoscimento di un “terzo sesso” negli atti di stato civile. In questo senso, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della l. 164/1982 coinvolge anche il d.P.R. 396/2000 ed in particolare il già rammentato art. 29. Ad oggi, il tema è stato affrontato in Italia solo in maniera parziale, in relazione alla c.d. carriera alias nelle scuole, con il permesso di modificare il nome anagrafico con quello di elezione nel registro elettronico, negli elenchi e in tutti i documenti interni alla scuola aventi valore non ufficiale. Ciò, del resto, risulta essersi verificato anche nella fattispecie su cui si è pronunciato il Tribunale di Bolzano. Come è noto, in Italia il ministero dell'Istruzione non ha ancora provveduto a emanare linee guida specifiche per l'attivazione della carriera alias, alle quali le scuole possano fare riferimento per redigere appositi protocolli.

Una recente decisione della Cassazione, per parte sua, ha ritenuto legittima la distinzione delle persone, in uomini e donne, nelle liste elettorali, con esclusione di identità non binarie, senza dover sollevare la richiesta questione di costituzionalità, non risultando pregiudicato il diritto al voto (Cass. 9 aprile 2024, n. 9428).

L'ordinanza in commento approccia un tema molto discusso, afferente uno dei profili più delicati dei diritti della personalità, relativo all'identità di genere. Il Tribunale offre un quadro ampio della situazione normativa e giurisprudenziale in diversi Paesi dell'Unione europea, anch'essa assai fluida. In particolare, la Corte costituzionale tedesca il 10 ottobre 2017 aveva dichiarato l'illegittimità della disciplina nazionale nella parte in cui non consentiva alle persone, che ne avessero fatto richiesta, di essere iscritte come appartenenti ad un “terzo sesso” distinto da quello maschile e femminile; ciò avuto riguardo anche ad una normativa che legittima l'iscrizione senza indicazione di sesso. Osserva il Bundesverfassungsgericht che, una volta scelto di non indicare nello stato civile il sesso della persona, sarebbe discriminatorio non dare positiva annotazione dell'appartenenza ad un terzo genere.

Preme qui rammentare come la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha di recente accertato la violazione dell'art. 8 CEDU da parte della Georgia, poiché l'insufficiente chiarezza della legge nazionale sul riconoscimento del cambio di genere comporta la non effettività del diritto di rettifica del genere riconosciuto ai cittadini transgender (sentenza 1° dicembre 2022, nn. 57864/17 - 79087/17 - 55353/19). La legislazione italiana è invece chiara in materia; le criticità riguardano se mai la stessa impostazione dell'ordinamento dello stato civile, che presuppone una rigorosa distinzione tra genere maschile e femminile, senza attribuire così dignità giuridica alle persone non binarie. Da questa impostazione deriva il riconoscimento di soli due generi da parte di tutto l'ordinamento. Si comprende in questo modo il significato della pronuncia in esame, là dove ritiene costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della l. 164/1982, che non prevede l'attribuzione ad una persona di altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali.

È però lecito porsi il dubbio se la Corte costituzionale possa affrontare il merito delle questioni sollevate dai giudici bolzanini, che, pur incidendo su diritti fondamentali della persona, rientrano nell'ambito di quella discrezionalità propria del legislatore. Del resto, come ricorda lo stesso Tribunale, è questa la conclusione cui è pervenuto l'ordinamento belga. È innegabile, peraltro, che prima o poi dovrà essere adottata una disciplina, anche per garantire la circolazione degli status, quanto meno all'intero dell'Unione Europea.

Il riconoscimento di un “terzo genere”, nel rispondere a fondamentali esigenze delle persone non binarie, darebbe all'evidenza luogo a problematiche assai rilevanti, a cominciare dalla stessa possibilità di costituire formalmente una famiglia, attualmente possibile per il tramite del matrimonio o dell'unione civile, a seconda della diversità, o dell'uguaglianza, di sesso tra i componenti della coppia. Una ragione in più per poter pensare, in un prossimo futuro, all'introduzione del matrimonio ugualitario, già sperimentata in molti altri ordinamenti, che prescinderebbe funditus dal genere.

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