La Cassazione ribadisce la prevalenza delle ragioni del Fisco sugli interessi della procedura concorsuale (ma i dubbi rimangono)

Ciro Santoriello
10 Settembre 2024

In tema di rapporto di prevalenza tra sequestro preventivo finalizzato alla confisca e procedura concorsuale, la V sezione penale aderisce all’indirizzo già tracciato dalle sezioni unite con la pronuncia 40797 del 2023. Con il presente commento, l’Autore espone la questione evidenziando alcune perplessità in relazione a tale indirizzo.

Massima

L'avvio della procedura fallimentare non osta all'adozione o alla permanenza, ove già disposto, del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari

Il caso

In sede di indagini era disposto, ai sensi dell'art. 12-bis d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, il sequestro di una somma di denaro in danno di una società fallita. Il provvedimento cautelare era confermato anche in sede di riesame, laddove si evidenziava come il fallimento della società fosse avvenuto in epoca posteriore all'apposizione del vincolo cautelare sui beni della persona giuridica, sicché non poteva trovare applicazione il più recente indirizzo giurisprudenziale secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all'art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito attribuendo al curatore il compito di gestire tale il patrimonio al fine di evitarne il depauperamento. Inoltre, il tribunale richiamava il prevalente indirizzo giurisprudenziale che riteneva prevalente – sulle esigenze della procedura concorsuale – il sequestro laddove quest'ultimo fosse intervenuto prima della dichiarazione di fallimento della società, nonché l'orientamento secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto di un reato tributario poteva essere eseguito, ove questo fosse stato commesso nell'interesse di una società dichiarata fallita, su beni societari compresi nell'attivo fallimentare, non potendosi attribuire alla dichiarazione del fallimento effetti preclusivi rispetto all'operatività della cautela reale.

In sede di ricorso per cassazione, la difesa del curatore del fallimento argomentava nel senso che non andava riconosciuto un particolare rilievo alla circostanza che il vincolo cautelare fosse antecedente o successivo alla dichiarazione di fallimento, essendo in ogni caso necessario provvedere ad un bilanciamento degli interessi contrastanti, rappresentati dall'esigenza di tutelare l'erario unitamente alla posizione del terzo estraneo al reato, nel caso di specie il fallimento. Infatti, si faceva osservare che, se all'epoca della commissione dell'illecito la persona giuridica era la beneficiaria del profitto del reato, una volta aperta la procedura di liquidazione chi agisce per la restituzione dei beni in caso di fallimento non è l'ente beneficiario del risparmio fiscale, ma la massa dei creditori concorsuali a mezzo dell'organo della procedura e quindi il giudice penale, richiesto di dissequestrare il denaro sottoposto a sequestro, nella prospettiva di bilanciamento di interessi, dovrebbe verificare nel caso concreto le ragioni del credito e la spettanza di questo, escludendo i casi nei quali la restituzione possa operare in favore del reo o di soggetti titolari di crediti fittizi.

Veniva infine denunciata l'illegittimità costituzionale - per contrasto con gli artt. 3 e 47 Cost. -  degli artt. 321, comma 2, c.p.p. nonché dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 e 317 c.c.i.i. nella parte in cui rinviano alla disciplina del decreto legislativo n. 159 del 2011, finendo per equiparare il denaro che proviene dal circuito criminale come preso in considerazione dal decreto legislativo del 2011, al denaro che proviene da fattispecie criminose di tutt'altro genere ed indipendentemente dall'effettiva esigenza di tutela della collettività che si rinviene, invece, nell'eliminare dal circuito economico il denaro della criminalità mafiosa: con questa scelta il legislatore avrebbe finito per regolare allo stesso modo fattispecie tra loro intrinsecamente diverse con un ingiustificato sacrificio di tutela del credito correlato alla posizione di creditori concorsuali che in buona fede hanno contrattato con l'imprenditore.

La questione

La questione circa la rilevanza che ha l'intervenuta dichiarazione di fallimento di una società nel frattempo interessata da un provvedimento di sequestro preventivo avente ad oggetto suoi beni è stata per lungo tempo all'attenzione della giurisprudenza e della dottrina, e, come si vede, essa mantiene tuttora una sua attualità, pur dopo la decisione delle Sezioni Unite di cui si dirà più innanzi.

In proposito, l'iniziale orientamento della giurisprudenza è stato nel senso che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevalesse sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della dichiarazione di fallimento, attesa la obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro e dovendosi inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso", in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato (Cass., sez. III, 7 giugno 2017, n. 28077). Secondo questa impostazione, la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, sarebbe destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene non potendosi attribuire alla procedura concorsuale effetti preclusivi rispetto alla operatività della misura reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell'ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato (Cass., sez. III, 25 maggio 2020, n. 15776 e 15779 in pari data).

Da ultimo, si è fatto anche richiamo alla disciplina contenuta nel codice della crisi dell'impresa agli artt. 317 e ss., che per l'appunto prevedono la prevalenza della misura cautelare rispetto alle esigenze della procedura fallimentare (Cass., sez. III, 26 novembre 2021, n. 3575).

In prosieguo, tuttavia, si sono affacciate decisioni di segno radicalmente opposto (anche sulla scorta di riflessioni dottrinarie; in tal senso, Massari, Note minime in materiali sequestro probatorio sui beni del fallito, in Giur. It., 2005, 1507; Iacoviello, Fallimento e sequestri penali, in Fall., 2005, 1265; Compagna, Obbligatorietà della confisca di valore e profili di discrezionalità nell'eventuale sequestro: il necessario contemperamento degli interessi costituzionali in gioco e l'ipotesi di fallimento, in Cass. Pen., 2009, 3034; Bontempelli, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, in Arch. pen., 2015, n. 3 (versione Web); Capraro, Disponibilità della res e tutela del terzo estraneo, in Sequestro e confisca, a cura di Montagna, Torino, 2017, 315; Bontempelli – Paese, La tutela dei creditori di fronte al sequestro ed alla confisca, in Dir. Pen. Cont., 2/2019, 123), peraltro riferite specificatamente alla disposizione di cui all'art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, nelle quali si afferma che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui al citato art. 12-bis non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Cass., sez. III, 29 maggio 2018, n. 45574; Cass., sez. III, 16 novembre 2021, n. 47299; Cass., sez. II, 19 maggio 2022, n. 19682).

Le decisioni che meglio ricostruiscono le ragioni di questa posizione sono le pronunce Cass., sez. III, 18 marzo 2022, n. 11068 e Cass., sez. III, 8 luglio 2022, n. 26275.

Secondo la prima, la necessità di evitare che le conseguenze latu sensu sanzionatorie connesse alla violazione della legge penale da parte dell'amministratore della società poi fallita non va ricondotta solo agli interessi privatistici di carattere creditorio che concernono il fallimento, posto che i «riflessi pubblicistici cui lo stesso procedimento, attraverso l'indisponibilità dei beni del fallito, è sotteso - correlati alla necessità che il tracollo dell'impresa non si estenda a macchia di leopardo ai soggetti che con questa abbiano avuto rapporti e dunque posti a salvaguardia delle esigenze economiche della collettività (... ) - non ne consentono l'assoggettabilità al vincolo penale per effetto del sequestro finalizzato alla confisca».

Alla stregua della seconda delle due pronunce menzionate, invece, il carattere obbligatorio della confisca in materia tributaria recede, per espresso dettato legislativo, laddove la misura dovesse cadere o su beni appartenenti ad un soggetto estraneo al reato, anche in caso di confisca per equivalente, su beni non nella disponibilità del reo: posto che una volta dichiarato il fallimento, interviene il fenomeno dello spossessamento dei beni del fallito, può concludersi che questi non sia più nella disponibilità del medesimo, che degli stessi non può più disporre né godere in termini giuridicamente rilevanti, essendo esso oramai funzionalizzati alla soddisfazione dei creditori del fallito e idonei ad rientrare nella sua disponibilità solo dopo che costoro fossero, in una eventualità invero piuttosto remota, stati tutti soddisfatti; di conseguenza, detti beni, essendo oramai estranei alla disponibilità del soggetto nei cui confronti dovrebbe essere adottato il provvedimento ablatorio, non possono essere legittimamente attinti da esso. La stessa sentenza precisò come la posizione dell'Erario non è ontologicamente dissimile da quella dei soggetti che si siano insinuati nel fallimento, i quali vantano una posizione creditoria insoddisfatta nei confronti del fallito, il che determina la conseguenza, da un punto di vista strettamente sostanziale, di attribuire un evidente privilegio al creditore tributario (peraltro non a tutti i creditori tributari ma solamente a quelli per i quali l'adempimento della prestazione in favore è presidiata dalla sanzione penale) rispetto agli altri creditori, anche quelli per i quali il legislatore ha previsto il cosiddetto beneficio della prededuzione, il tutto con possibile compromissione del principio della par condicio creditorum, reso ancora più sensibile dal fatto che dalla stessa, oltre alla violazione della regola della eguaglianza sostanziale, deriverebbe anche una sorta di privilegium Fisci, indicativo della attribuzione di una posizione dominante all'Erario, rispetto a quella degli altri operatori economici.

Le sezioni unite hanno aderito al primo orientamento, sostenendo che l'avvio della procedura fallimentare non osta all'adozione o alla permanenza, ove già disposto, del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari (Cass., sez. un., 22 giugno 2023, n. 40797. A commento, si veda DI VIZIO, La prevalenza della confisca tributaria sul fallimento, in Fall., 2024, 17). In proposito, nella menzionata pronuncia delle Sezioni Unite si legge che a partire dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 14 del 2019 «vige una unitaria disciplina di carattere generale che regola i rapporti tra sequestro preventivo a fini di confisca e dichiarazione di liquidazione giudiziale, ovvero quella contenuta negli artt. 63 ss. d.lgs n. 159 del 2011, anch'essi opportunamente rimodulati, con inequivocabile prevalenza dello strumento penale. La tutela dei crediti può assumere rilevanza, rispetto al sequestro penale, nei ristretti limiti indicati dall'art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011, anch'essi rivisitati, in base al richiamo contenuto nell'art. 68».

Sulla legittimazione del curatore fallimentare a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale cfr. Cass., sez. un., 13 novembre 2019, n. 45936.

La decisione della Cassazione

Il ricorso è stato giudicato infondato.

La motivazione della decisione è assai scarna, in quanto si limita a ribadire il dictum delle Sezioni Unite sopra menzionato, sottolineando come lo stesso dato letterale dell'art.12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 confermi il principio della prevalenza della misura ablatoria penale, anche in ragione del fatto che la natura del profitto dei reati tributari, e, quindi, l'interesse dell'Erario al recupero di quanto evaso, giustifica, da un lato, l'obbligatorietà della confisca e, dall'altro, il sacrificio dei creditori "privati". Questo assetto degli interessi in conflitto non è modificato dalla circostanza che si è riconosciuta la legittimazione del curatore a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale «non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all'operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell'ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato».

Quanto invece alla questione di costituzionalità, la stessa non viene sollevata ritenendola irrilevante, tenuto conto che la dichiarazione di fallimento della società era avvenuta nel gennaio 2022 e, dunque, in data antecedente al 15 luglio 2022, data di entrata in vigore del codice della crisi di impresa, sicché la disciplina contenuta in questo testo normativo non poteva trovare applicazione al caso concreto. 

Osservazioni

La decisione in commento, come detto, si limita a ribadire il principio affermato da Cass., sez. un., 22 giugno 2023, n. 40797 e quindi la condivisibilità o meno della conclusione ivi presente dipende dalla valutazione che si ritiene di dover formulare con riferimento al principio formulato dalle Sezioni Unite.

In proposito, evidenziamo qualche perplessità.

In primo luogo, ci pare contraddittorio riconoscere al curatore fallimentare la legittimazione a richiedere la revoca del provvedimento cautelare o ad impugnare lo stesso, in quanto soggetto che ha la disponibilità dei beni rientranti nella massa fallimentare, e dall'altro sostenere che i beni facenti capo al soggetto fallito vanno comunque confiscati, anche a scapito degli interessi della procedura concorsuale e dei creditori che si sono insinuati nella stessa, in quanto la titolarità degli stessi fa capo, per l'appunto, al fallito e non alla procedura. Detto altrimenti, se si ha ragione di ritenere che il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro il provvedimento di sequestro in quanto terzo attinto e danneggiato da tale atto cautelare, perché misconoscere questa conclusione sostenendo – come per l'appunto sostengono le sezioni unite e come si legge nella presente decisione – che «i beni restano nella titolarità del fallito e non "passano" al curatore, essendo quindi necessario sottrarli al primo, non potendosi applicare la deroga del "terzo estraneo" di cui all'art. 12-bis, d.lgs. n. 74 del 2000»?

A conferma di quanto questa conclusione – secondo cui l'apertura della procedura concorsuale non determinerebbe uno spossessamento in capo al fallito dei beni di cui lo stesso aveva in precedenza la disponibilità – non sia corretta può evidenziarsi come gli artt. 318, 319 e 320 del codice della crisi prevedono che la misura cautelare non possa essere disposta dal giudice penale allorché penda una procedura di liquidazione  giudiziale, mentre (come prevede il comma 2 dello stesso art. 318) se la gestione concorsuale riguarda un bene già in precedenza assoggettato a vincolo penale, quest'ultimo deve essere revocato dietro richiesta del curatore, con restituzione delle cose in favore della procedura e ciò in quanto con l'apertura della liquidazione giudiziale il debitore perde quella "libera disponibilità" dei propri beni – ivi compresi quelli qualificabili come "cose pertinenti al reato" – suscettibile di aggravare, protrarre o favorire la commissione di illeciti. È vero che i citati artt. 318, 319 e 320 fanno riferimento a forme di confisca diverse da quella obbligatoria da disporre per gli illeciti tributari, essendo relativi al sequestro conservativo ed a quello impeditivo, ma ci pare, tuttavia, che la situazione di fatto su cui tale disciplina si fonda – l'intervenuta dichiarazione d'insolvenza con conseguente spossessamento del fallito – sia la medesima che può riscontrarsi anche quando si discuta di un provvedimento cautelare destinato alla confisca.

In secondo luogo, la recisa affermazione di assoluta prevalenza delle ragioni connesse alla confisca obbligatoria – ed al relativo sequestro preventivo – rispetto agli interessi del ceto creditorio non pare pienamente conforme al dato normativo. Se, infatti, l'art. 317 del codice della crisi (non a caso rubricato «Principio di prevalenza delle misure cautelari e tutela dei terzi») sancisce la prevalenza dei provvedimenti ablatori presenti nel codice di procedura penale, a prescindere dalla loro natura facoltativa o obbligatoria, sulla gestione concorsuale, è altresì da considerare che gli interessi dei creditori, “soccombono a monte … vengono recuperati a valle, attraverso una pur parziale soddisfazione sui beni confiscati, alle condizioni e secondo le modalità collaudate del d.lgs. n. 159 del 2011” (Leuzzi, I rapporti fra misure ablatorie penali e liquidazione giudiziale nel CCII, in Fall., 2019, 1440. Si veda anche Bontempelli, La tutela dei creditori di fronte al sequestro e alla confisca dalla giurisprudenza “Focarelli” e “Uniland” al nuovo codice della crisi d'impresa, in Dirittopenalecontemporaneo, Riv. Trim., 2/2019, 123), come dimostrato dalla previsione di cui al nuovo art. 104-bis, comma 1-bis, secondo periodo, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 373, lett. a), d.lgs. n. 14 del 2019, che per l'appunto fa riferimento alla disciplina contenuta del codice antimafia ed in particolare a quanto dispone il Titolo IV del Libro I del codice antimafia con riferimento alla salvaguardia dei diritti dei terzi (in senso critico verso questa scelta, D'amore-Florio, Il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza: l'attuazione della legge delega in materia di sequestri penali ovvero un "monstrum iuris", in Giur. Pen. web, 2019, 1).

Ciò significa, dunque, che alla luce del combinato disposto di cui all'art. 104-bis disp. att. c.p.p. e 52 d.lgs. n. 159/2011, è tutt'altro che pacifica la prevalenza del provvedimento di sequestro o confisca – pur se obbligatoria - sui diritti dei terzi, giacché alla luce della disciplina presente nel codice antimafia “la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro …. Nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi” (commi 1 e 4 del citato art. 52). Questa disciplina va ritenuta operante anche in pendenza di procedura fallimentare e ciò significa che, se da un lato il solo fatto che la società è in liquidazione giudiziale non impedisce l'adozione di provvedimenti ablatori sul patrimonio della società insolvente, dall'altro è ben possibile che tali provvedimenti non possano pregiudicare le posizioni dei creditori della società fallita in buona fede e che siano insorti prima del sequestro o della confisca secondo la complessa disciplina che in proposito detta il Codice antimafia (Cesaroni, La liquidazione giudiziale dell'imprenditore con patrimonio sequestrato, in AA.VV., Patrimonio dell'imprenditore e Codice antimafia, a cura di Chionna, Bari, 387; Lenoci, Il sequestro del patrimonio dell'imprenditore successivo all'apertura della liquidazione giudiziale, ibidem, 215).

Certo…. se si pensa che la tutela dei creditori della massa fallimentare dipenda dalla tipologia del loro credito e dalla loro buona fede, la conseguenza è che gli stessi debbano agire uti singoli contro i provvedimenti di sequestro e confisca che hanno ad oggetto i beni della massa fallimentare su cui avrebbero diritto di soddisfarsi. In questa ottica, la legittimazione del curatore fallimentare a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale viene a perdere ogni giustificazione, nonostante quanto sostenuto in senso contrario dalle Sezioni Unite.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.