Giurisdizione sull’affidamento dei contratti esclusi: contrasti giurisprudenziali nella dialettica fra Corte di cassazione e Consiglio di Stato

09 Ottobre 2024

Nell'approfondimento si svolge un'analisi articolata della sentenza della Cassazione Civile, sez. un., n.23453/2024, con cui la Suprema Corte, mostrandosi di contrario avviso rispetto alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 6824/2023, ha ritenuto che le controversie sull'affidamento del contratto di locazione passiva degli immobili da parte di una società in house andassero deferite alla giurisdizione ordinaria.

L'esame della citata pronuncia offre l'occasione di soffermarsi sui tratti più caratteristici e problematici della disciplina sostanziale recata dal Codice dei contratti per tale tipologia contrattuale e in generale per i contrattiesclusi”.

Introduzione

Con la pronuncia in commento, il giudice regolatore della giurisdizione, discostandosi dall'avviso espresso sul punto dal Consiglio di Stato, ha riaffermato, in continuità con il proprio orientamento tradizionale, la sussistenza della giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa da un privato e volta a contestare la procedura, indetta da una società in house a capitale interamente pubblico, per la stipula del contratto di locazione degli immobili da adibire all'attività istituzionale.

La pronuncia, che arricchisce la dialettica (già in atto) fra i due summenzionati Supremi Consessi giurisdizionali in punto di giurisdizione, dà anche il destro per soffermarsi, in sede di esame delle contrapposte posizioni, su alcuni tratti caratterizzanti della disciplina recata dal Codice dei contratti pubblici in tema di locazione di beni immobili nonché per inquadrare tale tipologia negoziale nell'ambito della citata normativa.

La vicenda

La vicenda che ha dato luogo alla pronuncia prende l'abbrivio dalla pubblicazione, da parte di una società in house interamente partecipata da un ente locale, di un avviso avente ad oggetto la ricerca di un immobile in locazione da adibire ad uso ufficio, con l'obiettivo di riunirvi tutto il personale.

La valutazione delle offerte è stata affidata ad una commissione che, esaminate quelle pervenute, ha redatto una graduatoria finale con l'individuazione della proposta immobiliare ritenuta più confacente alle esigenze della predetta società.

Gli atti relativi a tale procedura sono stati gravati con innumerevoli censure di legittimità davanti al TAR per il Lazio, Roma, sez. II-ter, che, con la sentenza resa in forma semplificata n. 9222/2022, ha dichiarato il difetto di giurisdizione.

In particolare, il giudicante ha preliminarmente dato atto della riconduzione della fattispecie nell'ambito dell'art. 17, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016 (norma questa applicabile ratione temporis e oggi trasfusa nell'art. 56, comma 1, lett. e), d.lgs n. 36/2023), a mente del quale «le disposizioni del presente codice non si applicano agli appalti e alle concessioni di servizi…aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni».

Sulla scorta di tale premessa, il medesimo giudicante ha applicato il tradizionale orientamento delle Sezioni Unite, seguito anche da una parte della giurisprudenza amministrativa, volto a ritenere in materia la giurisdizione del giudice ordinario; e ciò sul presupposto della non riconducibilità dello schema contrattuale della locazione di immobili né al contratto di appalto né tanto meno a quello di fornitura – e per conseguenza all'ambito oggettivo della normativa in tema di contratti pubblici.

E' seguito l'appello al Consiglio di Stato avverso la citata sentenza, volto, fra l'altro, a contestare il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla base di una diversa lettura dell'art. 17, comma, 1 lett. a), d.lgs. n. 50/2016: l'esenzione/esclusione sancita da tale norma non va intesa, per i contratti di locazione immobiliare, quale estraneità degli stessi al Codice degli appalti, ma solo quale inapplicabilità agli stessi della regole codicistiche inerenti al procedimento di gara, ferma restando la vincolatività dei tipici principi ispiratori dell'azione dei soggetti pubblici (riconducibili al buon andamento, all'imparzialità e alla trasparenza). Conseguentemente, si è concluso per il deferimento della controversia al giudice amministrativo.

La pronuncia del Consiglio di Stato

 Il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 6824/2023 ha accolto il ricorso e ha aderito alla summenzionata ricostruzione, sulla base di una serie di indici desunti dall'interpretazione dell'art. 17, comma 1, lett, a), d.lgs. n. 50/2016, riletto alla luce delle norme comunitarie di cui costituisce trasposizione (art. 10 direttiva 2014/24/UE; art. 21 direttiva 2014/25/UE e art. 10, § 8, direttiva 2014/23/UE).

Il Giudice di Appello, infatti, cercando di sistematizzare il pregresso quadro giurisprudenziale, alquanto frammentario e sovente contrastante (cfr. sulla giurisdizione del G.O.: Cons. Stato, sez. V, n. 7127/2019 e in senso analogo, ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III, n. 9846/2021; id., n. 11208/2016; TAR Catania, Sicilia, sez. III, n. 9/2020; contra sulla giurisdizione del G.A.: Cons. Stato, sez. V, n. 5821/2019; Cons. Stato, sez. V, n. 4036/2015; Cons. Stato, sez. V, n. 6400/2012), ha proceduto alla confutazione articolata delle principali argomentazioni della sentenza di prime cure, mutuate dal tradizionale orientamento della Cassazione e ha creato le premesse teoriche per una sua rimeditazione.

In particolare, il Giudice di Appello ha ritenuto il radicamento della giurisdizione amministrativa nella controversia supportato da «imprescindibili (e decisivi) dati di ordine positivo» quali:

⎯ quello funzionale, secondo cui: i) i contratti di locazione di immobili sono ricompresi fra le “esclusioni specifiche” (cfr. rubrica dell'art. 17 citato) dal Codice dei contratti; ii) detta esclusione si spiega in ragione della tipica localizzazione spaziale propria dei beni immobili, con conseguente insussistenza di un rilevante interesse transfrontaliero;

– quello logico-letterale, in base al quale il contratto di locazione degli immobili è riconducibile al genus dell'appalto di servizi, alla stregua della nozione di “appalto pubblico” ampia e funzionale fatta propria dallo stesso codice in un'ottica promotiva dei suoi princìpi ispiratori di matrice eurounitaria;

– quello sistematico, evocante la distinzione concettuale introdotta dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 16/2011 fra contratti esclusi” e contratti “estranei”: la locazione degli immobili è ricomprensibile fra gli appalti “esclusi”, cioè rientranti in astratto nell'ambito di applicazione delle direttive ma specificamente “esentati” per ragioni latu sensu di politica comunitaria e non già fra gli appalti “estranei”, quelli cioè estranei agli ambiti di azione delle direttive perché sono del tutto al di fuori dei settori di intervento delle direttive o dello stesso ordinamento comunitario (tali sono, ad esempio, gli appalti da eseguirsi al di fuori del territorio dell'Unione nonché gli appalti aggiudicati dagli enti aggiudicatori dei settori speciali per fini diversi dall'esercizio delle attività nei settori speciali); dall'analisi del vigente assetto normativo emerge «una diversificazione delle cause di esclusione degli appalti dall'ambito di applicazione delle direttive» (cfr. Ad. plen., 1° agosto 2011, n. 16 e in relazione al nuovo quadro normativo sovranazionale C.g.a., sez. giur., n. 132/2023);

– quello normativo, per cui nei soli contratti “esclusi” e non in quelli “estranei” la selezione del contraente, pur essendo sottratta alle regole previste per le ordinarie procedure di evidenza pubblica, è comunque soggetta, ai sensi dell'art. 4 d.lgs. n. 50/2016 (e oggi dell'art. 13, comma 5, d.lgs. n. 36/2023), ai princìpi di buon andamento, trasparenza e imparzialità, princìpi questi idonei a vincolare l'azione del soggetto aggiudicatore (quale che sia la sua natura) sotto l'aspetto finalistico e procedimentale; la cogenza a tali princìpi è, poi, corroborata dal disposto dell'art. 3 r.d. n. 2440/2023, secondo cui «i contratti dai quali derivi una spesa» (c.d. contratti  passivi tra cui rientra quello oggetto della presente controversia) «debbono essere preceduti da gare»; a tale stregua, le modalità di selezione del contraente evidenziano nella specie, di là dal loro carattere semplificato, i tratti pubblicistici dell'attività amministrativa, deferita alla giurisdizione generale di legittimità ai sensi dell'art. 7, comma 2, c.p.a.

Sulla base di tali premesse, il giudicante ha proceduto alla confutazione dei postulati logici posti a base dell'orientamento delle Sezioni unite, osservando che:

– l'affermazione, secondo cui il contratto di locazione passiva immobiliare, per le sue caratteristiche funzionali, non sarebbe riconducibile né alla fornitura di cose né all'appalto, non tiene adeguato conto della sua riconducibilità all'alveo dell'appalto di servizi, sulla base della corrispondente nozione del codice dei contratti pubblici «che declina le tipologie negoziali in forme non del tutto sovrapponibili a quelle codicistiche»;

– l'argomentazione, secondo cui «la pubblica amministrazione che procede alla locazione di immobili da adibire alla propria attività istituzionale agisce secondo le regole del diritto privato», sconta l'obiezione secondo cui la stipulazione di tutti i contratti (e non solo di quello di locazione di immobili) è espressione dell'esercizio della sua autonomia contrattuale (da sempre riconosciuta, già ex art. 11 c.c. e oggi, in modo specifico, dall'art. 8  d.lgs. n. 36/2023);

– il rilievo per cui la gara per l'affidamento del contratto in esame è facoltativa, non tiene conto delle norme surrichiamate e in particolare dell'art. 3, comma 2, r.d. n. 2440/2023, che richiama una procedura evidenziale che, pur non essendo disciplinata dal Codice dei contratti, si svolge pur sempre secondo le regole del diritto amministrativo.

Di qui la sussistenza nella fattispecie all'esame di interessi legittimi da deferire alla cognizione del giudice amministrativo.

Nella chiusa della pronuncia, si soggiunge che tale approdo è anche coerente, in un'ottica costituzionalmente orientata, con le esigenze della pienezza della tutela della sfera giuridica delle effettive posizioni di controinteresse: queste ultime, a fronte delle opzioni negoziali operate da soggetti pubblici, non possono venire dequotate, come accade tipicamente e coerentemente nei rapporti interprivati, ad interessi di mero fatto e come tali suscettibili, al più, di essere ristorate in via risarcitoria in relazione danno precontrattuale da lesione dell'affidamento, nei limiti dell'interesse negativo; per converso, la qualificazione di tali posizioni in termini interesse legittimo comporta l'azionabilità di rimedi avverso l'illegittimo operato dell'amministrazione dinanzi al giudice amministrativo specifici e maggiormente satisfattivi.

I successivi sviluppi del giudizio e la questione della tardività del ricorso per Cassazione

 Successivamente alla citata pronuncia del Consiglio di Stato, l'appellante (originario ricorrente nel giudizio di primo grado) ha proceduto alla riassunzione del giudizio dinanzi al TAR per il Lazio e ha proposto istanza di sospensione degli atti impugnati, accolta con decreto cautelare monocratico.

È seguita la costituzione della parte controinteressata, che ha proposto istanza di revoca di tale decreto e successivamente ha notificato il ricorso per Cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato, chiedendo che fosse affermata la giurisdizione del giudice ordinario.

Nel giudizio in Cassazione, l'originaria ricorrente nel giudizio amministrativo ha eccepito la tardività del ricorso in Cassazione proposto dalla controinteressata: a quest'ultima non sarebbe stato applicabile il terminelungo” previsto dall'art. 327 c.p.c., in quanto è emerso agli atti che la stessa ha avuto conoscenza della sentenza del Consiglio di Stato fin dal momento della riassunzione della causa e comunque dalla proposizione dell'istanza di revoca del decreto cautelare monocratico e, in ogni caso, dalla ricezione della diffida all'adempimento all'ordine cautelare del TAR per il Lazio.

Tale eccezione è stata respinta, in quanto la Suprema Corte ha applicato alla fattispecie il proprio orientamento (cfr. in tal senso Cass., sez. un., n. 25476/2021, riferito all'atto di riassunzione nell'ambito di un giudizio avverso una sanzione CONSOB), secondo cui l'applicazione del principio di equivalenza tra notificazione e conoscenza legale della sentenza attraverso l'atto di riassunzione del giudizio conseguente alla pronuncia in punto di giurisdizione opera a condizione che il contenuto dell'atto di riassunzione sia tale da realizzare le medesime finalità conoscitive garantite dalla notifica della sentenza. Infatti, la decorrenza del termine breve d'impugnazione presuppone la necessità che il provvedimento da impugnare sia tutto, e nella sua interezza, nella disponibilità del soccombente per le valutazioni inerenti alla possibilità di efficacemente impugnarlo (cfr. Cass., sez. III, n. 23642/2019).

A tale stregua, l'atto di riassunzione dell'originaria ricorrente non è stato ritenuto idoneo a determinare la decorrenza del termine breve di impugnazione, in quanto non ha recato il contenuto integrale della sentenza del Consiglio di Stato.

Ciò premesso, può ritenersi, col conforto dei precedenti giurisprudenziali in materia, che la Suprema Corte abbia fatto un'applicazione eccessivamente rigorosa dei surrichiamati princìpi, probabilmente non del tutto coerente con la particolarità della fattispecie in discorso; e ciò tenuto conto:

– della generalità della costante affermazione giurisprudenziale, secondo cui «la conoscenza legale consegue quale “effetto di un'attività svolta nel processo, della quale la parte sia destinataria o che essa stessa ponga in essere e che sia normativamente idonea a determinare da sé detta conoscenza o tale, comunque, da farla considerare acquisita con effetti esterni rilevanti sul piano del rapporto processuale» (cfr. ex multis, Cass., sez. I, n. 19654/2006);

– dell'applicazione di tale affermazione al caso della «riassunzione del giudizio dinanzi al giudice inizialmente adito, che abbia declinato la propria giurisdizione in favore di un altro, atto questo idoneo a far decorrere il termine breve per l'impugnazione, non solo nei confronti della destinataria dell'atto di riassunzione, ma nei confronti della stessa parte che lo pone in essere» (cfr. ex multis, Cass., sez. un., n. 8673/2019; Cass., sez. II, ord. n. 15626/2018);

– del carattere circoscritto dell'affermazione giurisprudenziale, effettuata nella sentenza Cass., sez. III, n. 23642/2019, volta a richiedere, ai fini dell'applicazione della surrichiamata regola, che il provvedimento da impugnare sia tutto, e nella sua interezza, nella disponibilità del soccombente per le valutazioni in merito alla sua impugnativa: tale affermazione, infatti, è stata compiuta in un caso - del tutto peculiare e diverso da quello in discorso – in cui si è posta la questione dell'idoneità o meno a far decorrere il termine breve di impugnazione della notifica della sentenza da impugnare in una versione precedente al provvedimento di correzione intervenuto; nel caso deciso, quindi, la sentenza notificata era effettivamente incompleta, in quanto non conteneva alcune statuizioni oggetto di correzione;

– del rilievo per cui, evidentemente, del tutto diversa era la fattispecie in commento, in cui: i) la sentenza del Consiglio di Stato si è limitata a statuire sulla questione della giurisdizione; ii) l'originaria ricorrente, ad integrale esecuzione di quest'ultima, ha proceduto alla tempestiva e rituale riassunzione del giudizio dinanzi al Giudice indicato come provvisto della giurisdizione; iii) la controinteressata, successivamente all'atto di riassunzione, nell'istanza di rettifica del decreto monocratico nelle more concesso dal TAR per il Lazio, ha, fra l'altro, fatto espressa menzione della sentenza del Consiglio di Stato; inoltre, l'originaria ricorrente ha anche inserito, in calce alla diffida indirizzata alla controinteressata per l'adempimento all'ordine cautelare del T.A.R. per il Lazio, l'annotazione concernente l'allegazione della copia della sentenza del Consiglio di Stato;

– in ogni caso, della circostanza, secondo cui la prova che il provvedimento da impugnare sia tutto, e nella sua interezza, nella disponibilità del soccombente per le valutazioni in merito alla sua impugnativa, non necessariamente postula indefettibilmente la sua integrale trasposizione nell'atto di riassunzione, potendo la medesima prova essere raggiunta anche in via indiziaria, alla stregua della considerazione delle scansioni della fattispecie concreta alla luce del contenuto più o meno complesso della pronuncia da gravare.

La sentenza di Cassazione

Venendo al cuore della questione decisa nella pronuncia in commento, la Cassazione ha riconfermato il proprio tradizionale orientamento, secondo cui l'Amministrazione e i soggetti privati costituenti organismo di diritto pubblico che procedono alla locazione di immobili da adibire alla loro attività istituzionale agiscono secondo le regole del diritto privato, con la conseguenza che ogni controversia attinente al contratto di locazione stipulato e/o alla fase precontrattuale concerne diritti soggettivi e, per questo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Il riferimento è, fra l'altro: i) a  Cass., sez. un., n. 5051/2022, riferita ad una procedura indetta da un Comune per la ricerca di un immobile in locazione passiva da adibire ad uso deposito-archivio; ii) a  Cass., sez. un., n. 14185/2015, relativa ad una procedura indetta da un'ASL, per il reperimento di locali da destinare a distretto socio-sanitario territoriale; iii) a  Cass., sez. un., n. 124/2001, in relazione ad una fattispecie afferente al pagamento dei canoni di locazione di un immobile di un Comune in cui veniva in rilievo la rinnovazione tacita del contratto; iv) a Cass., sez. un., n. 332/2019, che ha sancito il deferimento alla giurisdizione ordinaria della controversia riguardante la legittimità degli esiti della procedura di gara, volta ad individuare i contraenti per i contratti di locazione da stipularsi da parte del concessionario del trasporto locale (società in house totalmente partecipata dall'ente locale).

Ciò detto, va subito osservato che il predetto orientamento, pur tradizionalmente prevalente, non può tuttavia dirsi del tutto consolidato, tenuto conto che l'attento esame diacronico delle pronunce della Suprema Corte in materia mette in luce la presenza di più di una sentenza di tenore dissonante.

Il riferimento è, ad esempio, alla sentenza delle Sezioni Unite n. 28209/2004, in cui si è affermato che l'annullamento in autotutela dell'autorizzazione alla stipula di un contratto di locazione e i provvedimenti preventivi per la scelta del contraente avvenuta con procedura di evidenza pubblica incidono su posizioni di interessi legittimi, con la conseguente giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo.

Nello stesso senso, si sono espresse le Sezioni Unite n. 5179/2004, secondo cui «ove la pubblica amministrazione, ravvisando profili di illegittimità nel procedimento amministrativo di scelta del contraente privato, incidenti direttamente sulla delibera di autorizzazione alla stipula del contratto con il soggetto in tal guisa selezionato, annulli in via di autotutela la delibera di autorizzazione alla stipula del contratto, la posizione soggettiva del privato, a fronte del relativo atto autoritativo, si connota in termini di interesse legittimo, di tal che la controversia promossa per ottenere l'annullamento del suddetto atto di autotutela rientra nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo»: nel caso di specie, si trattava della delibera autorizzativa a seguito della quale il Comune aveva stipulato, quale conduttore, un contratto di locazione avente ad oggetto un'area di proprietà altrui, che l'ente locale intendeva adibire a mercato cittadino.

Orbene, il profilo per cui in entrambi i precedenti delle Sezioni Unite si è fatto anche riferimento all'annullamento in autotutela del provvedimento di individuazione del contraente con cui concludere il contratto di locazione non incide sulla loro significatività nell'ambito in esame, tenuto conto che: i) difficilmente potrebbe concepirsi l'esercizio di un potere di autotutela pubblicistico incidente su un atto privatistico; ii) detto potere, quale potere di secondo grado, non può che intervenire su di un potere pubblicistico di primo grado.

L'argomento poggiante sulle caratteristiche del contratto di locazione immobiliare

Il primo argomento della pronuncia in commento su cui vale la pena soffermarsi è quello che fa leva sulla peculiarità dell'oggetto e delle caratteristiche causali del contratto di locazione di immobili per pervenire a ritenere quest'ultimo estraneo all'alveo oggettivo del Codice degli appalti, con conseguente configurabilità della giurisdizione ordinaria.

In particolare, la Suprema Corte ha sempre affermato in modo tralatizio e riafferma nella fattispecie in esame, che la locazione, fattispecie tipica di negozio di godimento di un bene per un dato periodo di tempo dietro il pagamento di un canone, non è riconducibile:

i) né ai "contratti di fornitura" di cose, sia perché la res locata rimane nel patrimonio del proprietario locatore e non si trasferisce in quello della controparte (come, invece, nella fornitura), sia perché diversa è la causa giuridica dei due contratti, che solo nel primo caso è rappresentata dal godimento della cosa per un tempo determinato con l'obbligo di custodia, da parte del conduttore, con la diligenza del buon padre di famiglia; ii) né alla fornitura di servizi, atteso che manca da parte del locatore (a differenza che da parte del fornitore) una prestazione di attività in favore del destinatario, avendo il primo solo l'obbligo di consegnare la cosa oggetto di contratto e di mantenere, eventualmente, la stessa in stato idoneo all'uso convenuto.

In sostanza, la Cassazione, in continuità con la sua pregressa linea di pensiero, parte dalla nozione civilistica del contratto di locazione (con i relativi connotati caratterizzanti) e la assume quale metro per conformare in via ermeneutica il perimetro applicativo della normativa in tema di contratti pubblici.

Ciò premesso, può osservarsi che la Suprema Corte avrebbe potuto tenere maggior conto:

– del profilo metodologico, per cui, atteso che nella specie importanza cruciale ai fini della giurisdizione ha assunto la questione ermeneutica della ricomprensibilità o meno del contratto di locazione degli immobili nell'ambito della disciplina del codice dei contratti, era a quest'ultimo plesso normativo e non già alle norme e alle nozioni civilistiche che andava attribuita valenza dirimente per risolvere detta questione; 

– della reale portata della definizione di “appalto”, recata dalla normativa eurounitaria (cfr. art. 1 e 2, § 1, n. 5), direttiva 2014/24/UE e art. 1 direttiva 2014/25/UE) e mutuata da quella interna, che – come aveva correttamente notato il Consiglio di Stato – assume una geometria e una portata che travalicano le categorie giuridiche di matrice civilistica interne ai singoli Stati dell'Unione, proprio perché si muovono in un'ottica sovranazionale e funzionale all'efficace perseguimento princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di concorrenza, da traguardarsi in un'ottica transnazionale; in questa chiave, nella citata disciplina l'appalto è configurato, in termini assai generali, quale contratto a titolo oneroso concluso dall'Amministrazione (o da altro soggetto tenuto all'applicazione di tale corpus normativo, come, ad esempio, le società in house) e avente ad oggetto l'esecuzione, da parte di un operatore economico, di lavori, della fornitura di prodotti e della prestazione di servizi, concetti questi ultimi aventi una latitudine diversa rispetto a quella assunta nel diritto interno; proprio tali coordinate hanno condotto il Consiglio di Stato a ricomprendere la locazione di immobile nell'alveo dell'appalto di servizi, intesi come prestazioni di facere comportanti un'utilità per l'Amministrazione (nella specie, la messa a sua disposizione di immobili contro il pagamento di un canone);

– dell'ineludibile e chiaro dato normativo sia unionale che interno, volto a qualificare inequivocabilmente anche la locazione degli immobili quale “appalto” e segnatamente quale “appalto pubblico di servizi”; depongono in tal senso:

i) innanzitutto, l'art. 10, § 1, lett. a), direttiva 2014/24/UE, secondo cui «La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi…aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni»;

ii) l'art. 17 comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 56 d.lgs. n. 36/2023), a mente del quale «Le disposizioni del presente codice non si applicano agli appalti…aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni».

In questa prospettiva, il ragionamento della Cassazione non convince del tutto:

– da un lato, nella parte in cui il giudicante ha preteso di giustificare l'esclusione del contratto di locazione degli immobili dall'ambito della normativa sui contratti pubblici sulla base della mera dimostrazione della sua non riconducibilità allo schema causale civilistico della fornitura di beni e servizi; mette, infatti, conto considerare che tale dimostrazione è stata fondata – come già anticipato - sulla non condivisibile premessa metodologica poggiante sull'utilizzo delle categorie giuridiche civilistiche interne per perimetrare l'ambito di applicazione della disciplina degli appalti pubblici di matrice unionale; per di più, la Suprema Corte non ha neppure offerto alcuna valida argomentazione circa l'impossibilità di ricondurre il contratto in discorso all'appalto di servizi, secondo quanto argomentato dalla sentenza del Consiglio di Stato, n. 6824/2023;

– d'altro lato, nella misura in cui la Suprema Corte si è limitata affermare, senza alcun consistente argomento di supporto, che «Nessun argomento in contrasto può trarsi dal disposto dell'art. 17, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016 poiché la norma esclude espressamente dalla disciplina in tema di appalti quelli che abbiano ad oggetto... l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni».

Difatti, per un verso, va osservato che detta norma, nel sancire l'impermeabilità di tale contratto alle previsioni del Codice degli appalti, qualifica espressamente quest'ultimo quale “appalto”, tant'è che sia l'art. 10, § 1, lett. a), direttiva 2014/24/UE che l'art. 17 d.lgs. n. 50/2016 (e oggi l'art. 56 d.lgs. n. 36/2023) nella loro rubrica fanno riferimento alle “esclusioni specifiche” per gli appalti, cioè all'esenzione dall'osservanza della disciplina in tema di contratti pubblici per tipologie contrattuali che costituiscono a tutti gli effetti appalti e che, in assenza dell'esclusione (perciò “specifica”) vi sarebbero soggetti integralmente.

E del resto è lo stesso art. 4 d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 13, comma 2, d.lgs. n. 36/2023) che, nel prevedere i princìpi applicabili all'affidamento di tali contratti, fa significativo riferimento ai «contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture…esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice».

Per altro verso, non può neppure mancarsi di evidenziare che il regime previsto dall'art. 4 citato per l'affidamento dei contratti pubblici esclusi è chiaro indice del fatto che, nella normativa in tema di appalti pubblici, le peculiarità che connotano l'oggetto e la struttura del contratto di locazione degli immobili hanno assunto rilievo non già – come ritenuto dalla Cassazione – al fine di impedire la qualificazione di tale tipologia negoziale quale appalto e di espungerla del tutto dall'ambito di rilevanza del codice dei contratti, bensì al diverso e più circoscritto fine di introdurre per l'affidamento di tale contratto una disciplina specifica.

Detta disciplina, infatti, se non contempla l'applicazione puntuale delle norme del Codice degli appalti, sancisce comunque la vincolatività e la centralità dei princìpi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica.

A tale stregua, il passo della sentenza in cui la Suprema Corte afferma che «il sottile distinguo tra estraneità ed esclusione…» - utilizzato nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 6824/2023 sulla scorta di quanto ben argomentato nella sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 16/2011 - «non sembra sostenuto da alcuna positiva determinazione legislativa e neppure da una lettura di sistema..» non considera adeguatamente che, a ben vedere, detta distinzione trova un solido fondamento in specifiche disposizioni del Codice dei contratti (cfr. art. 1 e 4 d.lgs. n. 50/2016 e oggi art. 13, commi 1 e 2, d.lgs n. 36/2023).

Nello stesso senso depone la sistematica del d.lgs. n. 50/2016: all'interno della Parte I, “Ambito di applicazione, principi, disposizioni comuni ed esclusioni”, il titolo I è stato dedicato ai “Principi generali e disposizioni comuni” e il titolo II è stato riservato significativamente ai “Contratti esclusi in tutto o in parte dall'ambito di applicazione”.

Tali disposizioni:

i) calibrano in modo distinto lo statuto normativo valevole rispettivamente per gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in toto soggetti alle regole ivi stabilite, e per i contratti di appalto (come la locazione passiva degli immobili) sottoposti, per le loro peculiarità, ad una disciplina specifica (applicazione dei princìpi generali stabiliti dall'art. 4 del medesimo decreto):

ii) non recano, ovviamente per motivi di coerenza logica, alcuna previsione per i contratti che, non essendo ricomprensibili nel genusappalti”, sono del tutto estranei alla normativa.

In questa prospettiva, merita rilevare che la sottrazione dei contratti “esclusi” alle regole stabilite dal codice dei contratti non può costituire indice della loro estraneità a tale ambito, proprio perché l'art. 4 d.lgs. n. 50/2016 detta per essi una disciplina specifica, connotata da minore formalità.

Se così è, allora la distinzione fra contratti di appalto, contrattiesclusi” e contratti “estranei”, lungi dall'essere un esercizio teorico: i) risulta ben radicata nell'ambito della disciplina unionale e interna, che in più punti menzionano, accanto agli appalti di lavori servizi e forniture, anche gli appalti “esclusi”, non rinunciando a conformare comunque la regolamentazione di questi ultimi; al riguardo, si consideri quanto affermato da T.A.R. Campania, Salerno, I, n. 2528/2021, secondo cui «Ai sensi degli artt. 4 e 17, lett. a), d.lgs. n. 50/2016 (ma anche sulla base del previgente art. 19 del d.lgs. n. 163/2016), sono esclusi dalla procedura di evidenza pubblica i contratti attivi (dai quali derivi un'entrata alla P.A.) ed i contratti passivi aventi ad oggetto l'acquisto o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili. Ciò, tuttavia, non significa che la pubblica amministrazione possa liberamente, al pari del contraente privato;

iii) è foriera di conseguenze giuridicamente rilevanti.

L'argomento della natura privatistica dell'attività posta in essere dalla società in house

L'altro pilastro argomentativo, sulla cui base la Suprema Corte giunge a confutare la fondatezza delle conclusioni del Consiglio di Stato, è rappresentato dalla qualificazione sostanziale dell'attività posta in essere dalla società in house che ha indetto la gara, al fine di individuare il contraente.

Secondo il giudicante, detta attività, in quanto posta in essere da un soggetto privato, è necessariamente da qualificarsi come attività non pubblicistica.

A supporto di tale conclusione, viene, innanzitutto, richiamato l'orientamento giurisprudenziale (cfr. in tal senso Cass., sez. un., n. 7759/ 2017; Cass., sez. un., ord., n. 28330/2011; id., n. 24591/2016 e in giurisprudenza amministrativa  TAR Toscana, sez. I, n. 1094/2018) in tema di reclutamento del personale da parte delle società in house, secondo cui:

i) queste ultime costituiscono soggetti privati, che agiscono in veste privatistica (cfr. Cass., sez. un. id., n. 8186/2022; id., nn. 5346/2019, 7799/2005, 3196/2017, 392/2011; Cass., sez. un. nn. 7759/2017; Cass. n. 7222/2018; Cass. n. 21658/2021);

ii) le norme vigenti in tale ambito (cfr. art. 19, comma 2,  d.lgs. n. 175/2016) costituiscono indice della volontà legislativa di assoggettare dette società a sistemi selettivi predeterminati, a garanzia di trasparenza dell'azione amministrativa, pur in contesti che lascino inalterata la natura privatistica dei rapporti e la presenza di diritti soggettivi.

Su tali basi, le società in house sono state ritenute non soggette all'obbligo di svolgere un pubblico concorso per assumere il relativo personale.

Sempre ad avviso della Suprema Corte, poi, a connotare in termini pubblicistici l'attività in questione non sarebbe neppure sufficiente il richiamo, compiuto dal Consiglio di Stato nella più volte citata sentenza n. 6824/2023, all'art. 3 r.d. n. 2440/1923, a mente del quale «I contratti dai quali derivi una spesa per lo Stato debbono essere preceduti da gare mediante pubblico incanto o licitazione privata, a giudizio discrezionale dell'amministrazione» (cfr. anche l'art. 37, comma 1, r.d. n. 827/1924 e l'art. 192 d.lgs. n. 267/2000, concernente l'attività contrattuale degli enti locali).

Tale norma, infatti, nata in un periodo in cui le società in house non esistevano, non è stata ritenuta dalla Cassazione ad esse autonomamente applicabile.

Inoltre – si è affermato – i princìpi di trasparenza e di buona amministrazione possono essere realizzati anche con le procedure di matrice privatistica adottate dalle società in house.

Fin qui la pronuncia della Suprema Corte.

Al riguardo, è, innanzitutto, il caso di puntualizzare che nella fattispecie in discorso l'applicazione dei surrichiamati princìpi generali non è stata frutto dell'autovincolo del soggetto che ha indetto la gara ma è stata piuttosto conseguenza diretta della previsione stabilita dall'art. 4 d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 13, comma 2, d.lgs. n. 36/2023) nonché portato dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923 (ove ritenuto applicabile).

Pertanto, correttamente la Suprema Corte ha fatto applicazione del costante insegnamento giurisprudenziale, secondo cui la sottoposizione o meno dell'appalto al regime pubblicistico fissato dal Codice dei contratti pubblici e la sua consequenziale sottoposizione alla giurisdizione del giudice amministrativo “discendono dalle caratteristiche oggettive dell'appalto e dunque dall'esistenza di un vincolo “eteronomo” e non dalla dichiarazione della stazione appaltante (c.d. autovincolo)”, attesa l'inderogabilità dalle parti delle regole sulla giurisdizione (Cfr. ex multis, nella giurisprudenza amministrativa:  Cons. Stato, sez. IV, n. 6088/2018; sez. IV, n. 2639/2015; id., n. 2008/2015; id., n. 497/2015; Ad. Plen. n. 16/2011; nella giurisprudenza della Cassazione: Cass., sez. un., nn. 17782/2013, n. 8511/2012, n. 6771/2009, n. 7800/2005, n. 17635/2003).

Rilevanza centrale, dunque, ha assunto, quindi, la qualificazione dell'attività del soggetto che ha indetto la procedura di affidamento, concretizzatasi nell'applicazione dei princìpi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità evocati dall'art. 4 d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 13, comma 2, d.lgs. n. 36/2023).

A tal fine, la Suprema Corte ha annesso valenza dirimente ad un duplice aspetto.

In primis, è stata ritenuta decisiva la considerazione della natura privatistica della società in house, senza però considerare appieno che, come fatto palese dagli artt. 1, commi 1-bis e 1-ter l. n. 241/1990 e dall'art. 7, comma 2, c.p.a., i soggetti privati ben possono essere soggetti ai princìpi dell'attività amministrativa e in tal caso le connesse controversie sono sottoposte alla giurisdizione generale di legittimità, così come i soggetti pubblici possono agire secondo le norme del diritto privato ed essere soggetti alla giurisdizione ordinaria.

La considerazione della natura del soggetto risultava, quindi, nella specie tutt'altro che decisiva, ai fini della qualificazione dell'attività esplicata, ritenendosi che un peso decisivo a tal fine dovesse assumere la considerazione delle caratteristiche di tale attività come desumibili dal corpus normativo che la regolamenta.

In secondo luogo, la Suprema Corte si è richiamata al surrichiamato orientamento giurisprudenziale volto a sancire la giurisdizione ordinaria sul reclutamento del personale delle società in house, non apprezzando, tuttavia, appieno la diversità contesto normativo in cui detto orientamento è maturato.

In tale ambito, infatti, il richiamo ai princìpi generali di trasparenza, pubblicità e imparzialità in materia di selezione del personale è stato effettuato dall'art. 19, comma 2, d.lgs n. 175/2016 per tutte le società pubbliche, in un contesto caratterizzato dalla privatizzazione del rapporto di lavoro e dalla sua soggezione alla disciplina privatistica (art. 19, comma 1).

Diversamente, l'art. 16, comma 7, del medesimo d.lgs n. 175/2016, specificamente riferito alle sole società in house, è stato perentorio nel prevedere che esse «sono tenute all'acquisto di lavori, beni e servizi secondo la disciplina» recata dal d.lgs. n. 50/2016 (oggi d.lgs. n. 36/2023), con ciò rimandando integralmente ad un corpus recante una regolamentazione pubblicistica in materia di affidamento dei relativi contratti.

In questa prospettiva, si sarebbe forse potuto qualificare l'attività di attuazione, da parte della società in house, dei princìpi generali evocati dall'art. 4 d.lgs. n. 50/2016 (oggi art. 13, comma 2, d.lgs. n. 36/2023):

i) in coerenza con i tratti caratterizzanti pubblicistici della sedes materiae in cui tale norma è stata collocata;

ii) alla luce della forte portata connotativa funzionale dei princìpi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, non discriminazione, parità di trattamento e proporzionalità, volti a conformare l'attività della società in house verso obiettivi tipicamente caratterizzanti l'attività amministrativa (riconducibili alla trasparenza e al principio costituzionale di buon andamento) e comunque fisiologicamente realizzabili attraverso una procedura evidenziale, pur connotata da meno formalità di quella disciplinata dal codice dei contratti.

Si consideri, in questo senso, l'orientamento giurisprudenziale, secondo cui «sono esclusi dalle procedure di evidenza pubblica i contratti attivi della P.A. aventi ad oggetto l'alienazione o la locazione di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili, contratti questi ultimi rientranti nella potestà negoziale dell'Amministrazione. La suddetta esclusione comporta che, per l'individuazione del contraente, è sufficiente lo svolgimento di una procedura di valutazione che sia idonea a rispettare i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità e tutela dell'ambiente ed efficienza energetica. Anche per i contratti attivi, dunque, si richiede un principio di rispetto di regole minimali di evidenza pubblica, di stretta derivazione comunitaria, a tutela della concorrenza e del mercato nonché a garanzia del maggiore vantaggio possibile dell'Amministrazione in corrispondenza della cessione di beni che appartengono alla collettività; la piena applicazione dei principi in questione, pertanto, richiede in tali casi l'uso di procedure disciplinate da regole autoritativamente imposte e in rapporto alle quali, correlativamente, sussistono interesse legittimo dei partecipanti al corretto esercizio del potere e giurisdizione del G.A.» (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. V, n.156/2021 e in senso analogo TAR Toscana, sez. I, n. 332/2019; TAR Sardegna, sez. I, n. 188/2019).

La discussa applicabilità dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923

Con riguardo, poi, alla valenza dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923 - che il Consiglio di Stato aveva provato a rileggere in chiave evolutiva, superando la sua origine “storica” contabilistica e saldandolo ai princìpi comunitari e costituzionali informatori dell'azione amministrativa, così da arricchirne la valenza e ampliarne l'ambito di applicazione - la Suprema Corte si è assestata su un'interpretazione letterale e rigorosa, peraltro in coerenza con il suo precedente orientamento (Cfr. ex aliis, Cass., sez. I, n. 5664/2021) e ne ha circoscritto lo spettro di applicazione ai soli contratti dello Stato.

Ciò detto, se l'affermazione della Cassazione risulta formalmente ineccepibile, non può sottacersi che tale orientamento, se può valere ad escludere la rilevanza qualificatoria di tale norma quando ad indire la procedura di acquisizione siano società private costituenti organismi di diritto pubblico, non potrebbe operare nei casi di acquisizione di immobili in locazione con procedure indette dalle amministrazioni pubbliche (direttamente ricomprese nell'ambito dell'art. 3) e dagli enti locali (per i quali trova applicazione l'art. 192 richiamato nella nota 15).

In questi casi, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza amministrativa (cfr. ex multis, TAR Lombardia, Milano, sez. V, n. 2730/2023; TAR Abruzzo, sez. I, n. 416/2022; TAR Lazio, Roma, sez. II, n.14586/2019; TAR Campania, Salerno, sez. II, n.1490/2019, TAR Emilia-Romagna, Parma, sez. I, n. 83/2018; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 7153/2016; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 5456/2015, TAR Veneto, sez. I, n. 580/2014), condiviso anche da qualche pronuncia della Suprema Corte (cfr. Cass. SS.UU., n. 17782/2013), non può dubitarsi del fatto che l'art. 3 r.d. n. 2440/1923 evoca quale regola generale l'adozione di procedimenti pubblicistici per i negozi da cui derivi una spesa e per quelli attivi, con conseguente radicamento della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo per la cognizione delle relative controversie.

Tale norma è, infatti, chiara nel sancire:

i) la generalità del ricorso alle procedure evidenziali, di matrice pubblicistica, per la conclusione dei contratti passivi e attivi;

ii) l'eccezionalità dell'opzione della trattativa privata, da adottarsi, nei casi necessità, con decisione discrezionale e da motivarsi congruamente.

Alla luce di quanto fin qui illustrato, mette conto osservare che l'interpretazione letterale dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923 fatta propria dalla Cassazione nella pronuncia in commento, è suscettibile di determinare conseguenze, difficilmente compatibili con la coerenza logica e la ragionevolezza, in punto di individuazione del giudice munito di giurisdizione, a seconda della natura del soggetto che ha indetto le procedure di acquisizione, pur non mutando in nessun caso i princìpi informatori della citata attività.

Così, ove tale soggetto sia una società privata costituente organismo di diritto pubblico, l'attività viene considerata privata e attratta nell'orbita della giurisdizione del giudice ordinario; diversamente, per gli altri enti rientranti nello spettro applicativo della ridetta norma (o di altre analoghe), la medesima attività non può non connotarsi in chiave pubblicistica e tanto giustifica il deferimento alla giurisdizione generale di legittimità.

Resta da soffermarsi sull'ultimo passaggio della pronuncia in commento con cui la Suprema Corte liquida la questione dell'irrilevanza nella fattispecie in discorso dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923, affermando che i princìpi di trasparenza e di buona amministrazione ben possono essere realizzati anche con le procedure di matrice privatistica.

Al riguardo, tale passaggio argomentativo, più che rafforzare l'idea dell'irrilevanza dell'art. 3 r.d. n. 2440/1923 per qualificare come pubblicistica l'attività del soggetto che indice la procedura, risulta piuttosto il diretto precipitato applicativo della premessa concettuale adottata dalla sentenza in commento; e ciò nella misura in cui essa, ai fini della qualificazione dell'attività della società in house nell'ambito considerato, ha annesso rilievo prevalente alla natura del soggetto chiamato a compierla a discapito della valutazione funzionalistica delle caratteristiche sostanziali di tale attività.

Menzione merita, infine, l'inciso finale con cui la Suprema Corte ha preso posizione sull'affermazione compiuta dal Consiglio di Stato in merito alla migliore tutela riconoscibile in sede di giudizio amministrativo ai soggetti pregiudicati dall'attività compiuta dalla società in house per addivenire alla stipula del contratto di locazione.

Al riguardo, la Suprema Corte si è limitata a puntualizzare opportunamente - in coerenza con il principio di pari dignità e rilevanza delle situazioni giuridiche tutelabili dinanzi alla giurisdizione, pur nella diversità della loro natura e delle relative tecniche di tutela - che tale argomentazione risulta irrilevante ai fini dell'individuazione del giudice munito della giurisdizione.

Conclusioni

In definitiva, la dialettica fra i due Supremi Consessi giurisdizionali sulla giurisdizione in materia di affidamento dei contratti di locazione degli immobili costituisce testimonianza della loro marcata e perdurante diversità di vedute sulle norme e sugli istituti sostanziali, la cui considerazione assume un peso decisivo per individuare il giudice munito della potestas iudicandi, così come del resto è accaduto e accade in un numero sempre crescente di ambiti.

In questa chiave, con riferimento alla pronuncia in commento può forse parlarsi di un'occasione persa per rendere ancor più fecondo e proficuo l'ormai costante dialogo fra i summenzionati Consessi, nella misura in cui la Suprema Corte non sembra aver colto appieno e valutato in tutte le possibili implicazioni la consistenza degli elementi sostanziali offerti alla sua riflessione dal Consiglio di Stato, in modo tale da compiere, se non una rimeditazione, almeno un aggiornamento e un maggiore approfondimento del proprio (ormai risalente) orientamento.

Si tratta, quindi, dell'ennesima occasione persa per cercare di semplificare e chiarificare l'individuazione dell'organo deputato alla cognizione della controversia, attività quest'ultima divenuta sempre più complessa per le parti processuali in un numero crescente di materie e affidata spesso ad elementi formali e non adeguatamente collegati alla sostanza della situazione giuridica dedotta in giudizio.

L'auspicio è che in futuro entrambi i massimi Consessi riescano a individuare modi e occasioni per dialogare in modo sempre più fruttuoso e costruttivo, così da rendere meno complessa la surrichiamata opera di individuazione e da dare così sempre più sostanza effettiva al principio di unità funzionale della giurisdizione.

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