Il dibattito pubblico

11 Ottobre 2024

La bussola illustra le principali novità per l'espletamento del dibattito pubblico per come riscritto dall'art. 40 d.lgs. n. 36/2023 analizzando i casi in cui l'avvio dello stesso risulta obbligatorio oppure rimane una facoltà per le singole Amministrazioni.

Inquadramento

Il tema della partecipazione dei singoli ai procedimenti decisionali pubblici assume una certa importanza con riferimento alla realizzazione di opere infrastrutturali di rilevante interesse per la collettività: nel tempo, molti Paesi hanno abbandonato l'approccio DAD (decidi-annuncia-difendi), perché hanno compreso che l'apertura democratica di siffatti processi decisionali pubblici produce un aumento del tasso di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e riduce la platea degli oppositori (opposizione denominata sindrome NIMBY – Not In My Back Yard –, che, estremizzata, sfocia nella sindrome BANANA – Built Absolutely Nothing Anywhere Near Anything –).

Tuttavia, soltanto con il Codice dei contratti pubblici del 2016, al fine di far venire adeguatamente in rilievo le esigenze e i problemi dei territori incisi dall'opera, il legislatore italiano, facendo tesoro anche delle esperienze regionali maturate sul punto, ha introdotto su scala nazionale il dibattito pubblicoà la française” sulle “grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale aventi impatto sull'ambiente, sulle città e sull'assetto del territorio” (v. art. 22, rubricato «Trasparenza nella partecipazione di portatori di interessi e dibattito pubblico»).

Il modello, connotato da un approccio bottom-up, diretta espressione di alcuni principi e/o criteri direttivi concernenti la trasparenza e la partecipazione, delineati nella legge delega 28 gennaio 2016, n. 11 (cfr. art. 1, comma 1, lett. ppp e qqq), si è configurato fin da subito come un passaggio procedurale di confronto finalizzato alla raccolta (anche) delle opinioni della comunità interessata dall'infrastruttura programmata (delle considerazioni, cioè, degli abitanti dei “territori incisi dall'opera”). La procedura ha avuto in via generale lo scopo di: a) ridurre il carattere unilaterale e tecnocratico delle scelte infrastrutturali assunte dalle stazioni appaltanti; b) includere le istanze sociali nelle politiche pubbliche; c) costruire un legame procedurale tra decisori e società civile; d) evitare i ricorrenti casi di opposizione alla realizzazione di opere sgradite alla comunità (cfr. Cons. Stato, Commissione speciale, parere n. 855/2016 sullo schema di decreto legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”).

In evidenza

Come rilevato dalla Corte costituzionale, il dibattito pubblico “configura, analogamente all'inchiesta pubblica prevista dall'art. 24-bis d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), una fondamentale tappa nel cammino della cultura della partecipazione, rappresentata da un modello di procedimento amministrativo che abbia, tra i suoi passaggi ineliminabili, il confronto tra la pubblica amministrazione proponente l'opera e i soggetti, pubblici e privati, ad essa interessati e coinvolti dai suoi effetti, alimentandosi così un dialogo che, da un lato, faccia emergere eventuali più soddisfacenti soluzioni progettuali, e, dall'altra, disinneschi il conflitto potenzialmente implicito in qualsiasi intervento che abbia impatto significativo sul territorio” (Corte cost., 14 dicembre 2018, n. 235).

Invero, il precedente Codice dei contratti pubblici delineava una disciplina abbastanza scarna del dibattito pubblico e si limitava a tratteggiarne i caratteri di fondo: la legge aveva infatti deciso di rinviare a un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la fissazione dei criteri per la individuazione delle opere per le quali il ricorso a tale procedura fosse obbligatorio, la definizione delle modalità di svolgimento e l'indicazione di un termine di conclusione della procedura stessa. Siffatto decreto, cui la sinteticità delle norme aveva lasciato ampio spazio, era stato emanato nel maggio del 2018 (d.P.C.M. 10 maggio 2018, n. 76).

Si legge spesso che tale strumento non è mai del tutto davvero decollato; e ciò anche a causa del fatto che esso è stato considerato spesso dal legislatore interno come una sorta di ostacolo nel percorso di realizzazione delle opere pubbliche (tant'è che, ad esempio, in costanza della pandemia, la l. n. 120/2020 ha accordato ai soggetti tenuti a indirlo la possibilità di non ricorrervi, per favorire la rapida approvazione dei progetti). Tuttavia, come rilevato da alcuni membri della Commissione nazionale per il dibattito pubblico in un documento inoltrato alla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato per la redazione dello schema del nuovo Codice, vari sono stati gli aspetti positivi della breve esperienza maturata: i dibattiti pubblici svolti hanno nella assoluta maggioranza dei casi consentito di far emergere dal territorio proposte migliorative e più aderenti alle aspettative e ai bisogni delle collettività coinvolte, così stemperando le possibili conflittualità.

Il legislatore del 2023, anche con il fine di dare attuazione ai princìpi di cui alla legge delega 21 giugno 2022, n. 78 (art. 1, comma 2, lett. o) che ha previsto la “revisione e la semplificazione della normativa primaria [anche] in materia di (…) dibattito pubblico)”, ha deciso di confermarne la previsione in via generale, nonostante esso non trovi diretta previsione nelle direttive euro-unitarie.

La procedura – il cui interesse generale, come rilevato dal Consiglio di Stato nella relazione illustrativa al Codice, sembra comunque ricavabile dal considerando n. 122 della direttiva n. 2014/24/UE – è attualmente disciplinata sia dall'art. 40 in commento, sia dall'allegato I.6, che regola alcuni aspetti specifici del dibattito, indicati al comma 8 dello stesso art. 40. Tale allegato sarà abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore di un regolamento governativo che lo sostituirà integralmente.

Le “invariate” tipologie di dibattito pubblico

Al ricorrere di certi presupposti, l'indizione della procedura di dibattito pubblico è obbligatoria. In particolare, ai sensi degli artt. 40, commi 1 e 8, del nuovo Codice appalti, e 1, comma 2, dell'allegato I.6, lo strumento deve necessariamente essere utilizzato qualora le opere da realizzare rientrino nelle tipologie indicate in una specifica tabella annessa al citato allegato e raggiungano determinate soglie dimensionali previamente individuate dalla medesima tabella. Quanto a quest'ultime, l'allegato ripropone pedissequamente quelle previste dal regolamento del 2018: il legislatore non ha dunque tenuto conto di quanto aveva affermato a questo proposito il Consiglio di Stato nel parere n. 359/2018, quando, con riguardo alla vecchia disciplina, aveva rilevato che soglie di importo elevato rischiavano di “rendere nella pratica, minimale il ricorso [all']istituto”.

In evidenza

Occorre rilevare che il comma 2 dell'art. 1 dell'allegato I.6, riprendendo il contenuto del precedente art. 3, comma 2, del regolamento del 2018, precisa che i suddetti parametri di riferimento delle soglie dimensionali sono ridotti del cinquanta per cento se si tratta, con riferimento a particolari esigenze di salvaguardia, di interventi ricadenti (anche in parte):

a) su beni del patrimonio culturale e naturale iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO, ai sensi della Conferenza sul Patrimonio Mondiale del 1977;

b) nella zona tampone come definita nelle Linee guida operative emanate dell'UNESCO;

c) nei parchi nazionali e regionali e nelle aree marine protette. Le norme non recepiscono quindi le critiche della dottrina, che, nel commentare le previgenti disposizioni sul punto, aveva rilevato come una simile deroga dovesse essere prevista anche per i beni non iscritti nella lista UNESCO, ma vincolati dal Ministero della cultura.

Il legislatore ammette, poi, che, limitatamente ai casi in cui le opere di cui alla tabella 1 siano di importo compreso tra la soglia indicata nel suddetto atto e i due terzi della medesima, la stazione appaltante (o l'ente concedente) debba indire la procedura di dibattito pubblico soltanto qualora sia raggiunta da una richiesta di avvio da parte di alcuni soggetti specificamente indicati (art. 1, comma 3, allegato I.6). In particolare, la richiesta può pervenire:

a) della Presidenza del Consiglio dei ministri o dei Ministeri direttamente interessati alla realizzazione dell'opera;

b) di un Consiglio regionale o di una provincia o di una città metropolitana o di un comune capoluogo di provincia territorialmente interessati dall'intervento;

c) di uno o più consigli comunali o di unioni di comuni territorialmente interessati dall'intervento, se complessivamente rappresentativi di almeno centomila abitanti;

d) di almeno cinquantamila cittadini elettori nei territori in cui è previsto l'intervento;

e) di almeno un terzo dei cittadini elettori per gli interventi che interessano le isole con non più di centomila abitanti e per il territorio di comuni di montagna (art. 1, comma 3, allegato I.6).

Si tratta di un dibattito pubblico che era già previsto dalla disciplina previgente (la citata norma riprende infatti di pari passo il disposto di cui all'art. 3, comma 3, lett. a)-e) del regolamento del 2018) e che si può definire “obbligatorio su richiesta”: si ritiene infatti che la stazione appaltante o l'ente concedente, raggiunti dalla legittima richiesta avanzata da uno dei suddetti soggetti legittimati a presentarla, non possano esimersi dall'indirlo. In effetti, anche l'utilizzo del presente indicativo da parte del citato comma 3 pare deporre a favore di tale prospettiva.

Tra i soggetti legittimati, la norma contempla “almeno cinquantamila elettori nei territori in cui è previsto l'intervento” (anche se, per gli interventi che interessano le isole con non più di centomila abitanti e per il territorio di comuni di montagna basta invece che la richiesta di indizione sia effettuata da un terzo dei cittadini elettori): in tal modo, si è escluso che la sollecitazione possa pervenire da un insieme di cittadini di cui facciano parte cittadini elettori che non siano formalmente legati al territorio interessato dall'opera. Eppure, l'incidenza delle opere su interessi ambientali, economici e sociali può riguardare anche soggetti privi del requisito della cittadinanza italiana, oppure cittadini residenti in territori diversi da quello in cui è previsto l'intervento, quali persone che nel territorio sede dell'opera realizzanda studiano ovvero lavorano.

In ogni caso, ai sensi del comma 2 dell'art. 40 in commento, la stazione appaltante/l'ente concedente può comunque indire il dibattito pubblico senza preoccuparsi di verificare quale sia la tipologia di opera proposta e quali siano le sue soglie dimensionali, qualora ne ravvisi l'opportunità “in ragione della particolare rilevanza sociale dell'intervento e del suo impatto sull'ambiente e sul territorio”: si tratta del c.d. dibattito pubblico facoltativo, contemplato anche dalla previgente normativa (cfr. art. 3, comma 4, regolamento n. 76/2018). Evidentemente, la scelta di indire il dibattito appare del tutto discrezionale: è la stazione appaltante (o l'ente concedente) che valuta, di volta in volta, se sia opportuno dialogare o meno con la comunità e le istituzioni. Per tali motivi, si ritiene che tale presa di posizione, una volta assunta, debba essere debitamente motivata. E invero, ai sensi del citato art. 40, la motivazione dovrà essere particolarmente stringente: dovrà infatti ora dar conto non solo della particolare rilevanza sociale dell'intervento, ma anche – la norma usa la congiunzione “e” – del suo impatto sull'ambiente e sul territorio. A questo proposito, per evitare che la stazione appaltante/l'ente concedente rinunci a priori a valutare l'opportunità di indire un dibattito pubblico facoltativo, dovrà essere riservata un'attenzione particolare alla formazione dei pubblici amministratori, i quali hanno spesso assunto posizioni di chiusura sul tema del dialogo con la società civile, aggravando in tal modo il conflitto. È necessario che questi comprendano che la partecipazione civile assicura un aumento della democraticità dell'azione amministrativa con notevoli benefici: da un lato riduce il possibile contenzioso, tramite una maggiore accettazione sociale dell'opera; dall'altro, migliora la qualità della progettazione e l'efficacia delle decisioni pubbliche, svolgendo una funzione cooperativa, oltre che difensiva.

In evidenza

L'art. 2 dell'allegato I.6 precisa che il dibattito pubblico è escluso:

a) per le opere previste dai Titoli V e VI della Parte VII del libro II del Codice e per quelle di difesa nazionale di cui all'art. 233 Codice dell'ordinamento militare di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66;

b) per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauri, adeguamenti tecnologici e completamenti;

c) per le opere già sottoposte a procedure preliminari di consultazione pubblica sulla base di norme europee. Non è chiaro se queste esclusioni impattino soltanto sul dibattito pubblico obbligatorio, ovvero “sterilizzino” pure quello obbligatorio su richiesta e quello facoltativo; invero, la genericità della disposizione induce a ritenere preferibile la seconda prospettiva.

Il comma 7 dell'art. 40 dispone infine la salvaguardia delle norme speciali (così la Commissione speciale del Consiglio di Stato, nella citata relazione illustrativa); in particolare, precisa che resta ferma la disciplina prevista da specifiche disposizioni di legge per il dibattito pubblico afferente agli interventi finanziati con le risorse del PNRR e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR (PNC), di cui al decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 luglio 2021, n. 101. Il riferimento è alle disposizioni speciali introdotte dall'art. 46 d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108 (le quali, nell'introdurre delle deroghe alla disciplina generale, con l'intento di semplificare, si riferiscono, però, alla previgente procedura di dibattito pubblico, facendo ad esempio ancora riferimento alla ormai soppressa Commissione nazionale). In questo senso, le due discipline convivono e questa circostanza crea non pochi problemi.

L'oggetto del dibattito, i soggetti che devono/possono indirlo e l'apertura della procedura

Ai sensi dell'art. 3, comma 1, dell'allegato I.6 (che, sotto questo profilo ricalca il vecchio art. 5, comma 1, del regolamento del 2018), il dibattito pubblico si svolge nelle fasi iniziali di elaborazione di un progetto di un'opera o di un intervento, in relazione ai contenuti del progetto di fattibilità, ovvero del documento di fattibilità delle eventuali alternative progettuali.

Si tratta, quindi, di un modulo endoprocedimentale, che, anche in costanza dell'attuale disciplina, si apre in un momento in cui è ancora possibile interrogarsi sulla effettiva opportunità dell'opera e non solo sulle modalità della sua realizzazione. Da questo punto di vista, il legislatore sembra voler assicurare che gli esiti del dibattito in esame possano portare l'amministrazione anche a decidere di non realizzare l'opera (c.d. “ipotesi zero”). Il che è particolarmente apprezzabile: anche la prassi ha infatti dimostrato che il dibattito, perché possa davvero svolgere una funzione collaborativa e coinvolgere effettivamente la collettività, le associazioni e gli enti, è necessario si svolga in una fase quanto più possibile anticipata, quando la decisione sul se e sul come realizzare il progetto è ancora aperta.

In evidenza

I soggetti che devono (o possono) indire il dibattito pubblico sono le stazioni appaltanti e gli enti concedenti, i quali sostengono i costi relativi al suo svolgimento (cfr. art. 5 del citato allegato) e individuano, ciascuno secondo il proprio ordinamento, il titolare del potere di indizione. Da questo punto di vista, il Codice dei contratti pubblici del 2023 sembra ampliare la platea dei soggetti affidatari di tale potere, abbandonando, così, quel modello di dialogo che si basava anche su elementi identificativi di tipo soggettivo: la previgente normativa stabiliva infatti che il potere di indire la procedura era limitato ai soli soggetti individuati dalle lettere a) ed e) del suo art. 3.

Ai sensi del comma 3 dell'art. 40 in commento e dell'art. 3, comma 2, dell'allegato I.6, il dibattito pubblico si apre con la pubblicazione, sul sito istituzionale della stazione appaltante o dell'ente concedente, di una relazione contenente il progetto dell'opera e l'analisi di fattibilità delle eventuali alternative progettuali. La relazione, ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. b), dell'allegato I.6, su richiesta della stazione appaltante o dell'ente concedente, deve essere pubblicata anche sui siti istituzionali delle amministrazioni locali interessate dall'intervento. In essa, ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. a) del citato allegato, deve essere motivata l'opportunità dell'intervento e devono essere descritte le soluzioni progettuali proposte, comprensive delle valutazioni degli impatti sociali, ambientali ed economici. Ai sensi della medesima norma, la suddetta relazione deve essere scritta in linguaggio chiaro e comprensibile. Questa precisazione è molto apprezzabile: affinché la partecipazione possa dirsi utile ed effettiva, è necessario che, ex ante, la scelta su cui si apre il confronto sia stata debitamente spiegata a chi potrà potenzialmente partecipare al dialogo; solo così, infatti, si consente davvero agli interessati di conoscere e di concorrere consapevolmente alla elaborazione della scelta finale. Da questo punto di vista, la disciplina attuale tiene fermo il testo di cui all'art. 7, comma 1, lett. a), regolamento del 2018, che aveva a sua volta raccolto un suggerimento della Commissione del Consiglio di Stato, fornito con il citato parere 359/2018: la Commissione del Consiglio di Stato, nel citato parere sullo schema di regolamento del n. 359/2018, aveva infatti suggerito di sostituire la locuzione “non tecnico”, contenuta nello schema originario del d.P.C.M., con le espressioni “chiaro e comprensibile”. È particolarmente importante che vengano chiariti quali saranno gli esiti (calcolabili) della decisione di costruire un'opera pubblica, in termini di impatto sulla salute, sulla qualità della vita delle persone e sulla salubrità del territorio: i casi di resistenza alle scelte localizzative, infatti, dipendono quasi sempre dall'incertezza relativa agli esiti della decisione di costruire un'opera pubblica su questi aspetti.

In evidenza

Ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. c), la stazione appaltante/l'ente concedente deve comunicare al Dipartimento per le opere pubbliche, le politiche abitative e urbane, le infrastrutture idriche e le risorse umane e strumentali del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti l'indizione del procedimento del dibattito pubblico.

Il responsabile del dibattito pubblico e la sua nomina

Ai sensi dell'art. 4, comma 1, dell'allegato I.6, il responsabile dell'unità organizzativa titolare del potere di spesa nomina con immediatezza (e comunque entro dieci giorni dalla determinazione di indizione) un responsabile del dibattito pubblico.

Si tratta di un soggetto che coincide con quello che la normativa del 2016 definiva “coordinatore del dibattito pubblico” e che svolge alcuni compiti che sono precisamente individuati. Tra le altre cose, esso:

1) favorisce il confronto tra tutti i partecipanti;

2) in modo oggettivo e trasparente, definisce e attua le modalità di comunicazione e informazione al pubblico, curando l'organizzazione e gli aggiornamenti della sezione del sito istituzionale di afferenza;

3) progetta le modalità di svolgimento del dibattito ed elabora, entro un mese dal conferimento dell'incarico, il documento di progetto del dibattito pubblico, stabilendo i temi di discussione, le modalità di partecipazione e comunicazione al pubblico. Inoltre, a) valuta, ed eventualmente richiede, per una sola volta ed entro quindici giorni dalla sua ricezione, integrazioni e modifiche alla citata relazione di progetto; d) redige una relazione conclusiva del dibattito pubblico (su cui infra).

Per quanto attiene alla progettazione sub 3), è sicuramente apprezzabile il fatto che la concreta determinazione delle modalità consultive, sulla scia di quanto succede in Francia, venga lasciata all'organizzazione di ogni dibattito, in modo da meglio adattarsi alle specificità dei singoli progetti. Tuttavia, ai sensi del richiamato comma 3, lett. a), dell'art. 4, il responsabile, salvo la sussistenza di specifiche esigenze, nello stabilire le modalità di partecipazione e comunicazione, deve garantire l'esclusivo utilizzo di strumenti informatici e telematici. Ciò, da un lato, consentirà di ampliare la platea dei partecipanti, permettendo il coinvolgimento di soggetti che potrebbero altrimenti rischiare di restare esclusi, benché interessati; dall'altro, tuttavia, potrà limitare il diritto di partecipazione degli “analfabeti” digitali, ovvero di quanti, pur avendo le competenze digitali opportune, non posseggano gli strumenti adeguati per “dibattere” telematicamente: come rilevato dalla Commissione nazionale per il dibattito pubblico nella relazione alle Camere (mit.gov.it), la prescrizione amplia il digital divide, allora, e aumenta il divario tra Nord e Sud.

In evidenza

Ai sensi dell'art. 4, comma 1, dell'allegato I.6, il responsabile del dibattito pubblico deve essere individuato tra i dipendenti in possesso di comprovata esperienza e competenza nella gestione di processi partecipativi ovvero nella gestione ed esecuzione di attività di programmazione e pianificazione in materia infrastrutturale, urbanistica, territoriale e socio-economica. Da questo punto di vista, il nuovo codice ricalca solo in parte l'iter di nomina che era regolato dall'art. 6 d.P.C.M. n. 76/2018: in quel caso, al fine di garantire una certa terzietà del coordinatore del dibattito si prevedeva che lo stesso dovesse essere di regola nominato dal Ministero competente per materia tra i suoi dirigenti muniti delle opportune conoscenze. La ratio della disposizione era di evitare che vi fosse una commistione fra stazione appaltante/ente concedente e coordinatore del dibattito (tant'è che, nell'ipotesi in cui l'amministrazione procedente fosse stato un Ministero, l'individuazione sarebbe spettata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri). Al momento, invece, è solo “su richiesta” delle stazioni appaltanti (o degli enti concedenti) che il responsabile del dibattito pubblico “è individuato dal Ministero competente per materia tra i suoi dirigenti”. Come rilevato dalla migliore dottrina, però, chi istruisce deve essere diverso da chi decide perché, in caso contrario, l'autorità decidente potrebbe, durante l'istruzione, manipolare le carte della partecipazione e presentarne i risultati sotto l'ottica più favorevole al proprio interesse”. Per questo motivo, il Consiglio di Stato, nel rilasciare il più volte citato parere sullo schema di d.P.C.M. n. 76/2018 (n. 359), aveva sottolineato quanto fosse opportuno che il coordinamento fosse svolto da un soggetto esterno all'amministrazione aggiudicatrice (ed era stato sulla base di questi rilievi che il legislatore, nella versione definitiva del regolamento, aveva previsto la su richiamata procedura di nomina).

Il responsabile del dibattito pubblico, come evidenziato, svolge dei compiti di particolare rilevanza, che richiedono una certa neutralità (si pensi al potere di favorire il confronto tra i soggetti interessati); senza considerare che, come si rileverà infra, esso, nel redigere la richiamata relazione conclusiva, è tenuto a effettuare delle scelte contenutistiche di non poco conto, che presuppongono un certo disinteresse. Il pericolo è che, in mancanza di una sua effettiva indipendenza, lo strumento del dibattito pubblico appaia alla collettività come un espediente demagogico delle istituzioni.

In realtà, il legislatore sembra essere ben conscio di questo aspetto: non solo precisa che se l'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore è un Ministero, il responsabile del dibattito pubblico è designato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri tra i dirigenti delle pubbliche amministrazioni “estranei al Ministero interessato”(art. 4, comma 1, allegato I.6), ma stabilisce pure che non possono assumere l'incarico di responsabile del dibattito pubblico i soggetti residenti o domiciliati nel territorio di una provincia o di una città metropolitana ove la stessa opera è localizzata (art. 4, comma 2, allegato I.6). In questo modo, la norma pare però preoccuparsi di evitare un conflitto di interessi soltanto con riguardo al lato dei partecipanti alla procedura, non anche considerando quello del soggetto promotore dell'intervento oggetto di confronto.

In ogni caso, nell'eventualità di comprovata assenza di dirigenti pubblici in possesso dei requisiti indicati, il responsabile del dibattito pubblico può essere individuato dalle stazioni appaltanti o dagli enti concedenti mediante procedura di cui al codice, configurandosi come appalto di servizi (art. 4, comma 1, allegato I.6). Da questo punto di vista, la disciplina è identica a quella del previgente art. 6, comma 3, del regolamento del 2018 (e non tiene conto dei rilievi che sul punto aveva espresso il Consiglio di Stato nel ricordato parere reso sullo schema del Regolamento di attuazione dell'art. 22 del vecchio codice, quando aveva suggerito di di escludere la modalità della gara aperta al mercato per l'attribuzione dell'incarico, suggerendo di affidare l'incarico agli esponenti “dello Stato-apparato tenuti al rigoroso rispetto dei principi di cui all'art. 97 della Costituzione”.

I soggetti che possono partecipare al dibattito pubblico e le modalità di partecipazione

Ai sensi del comma 4 dell'art. 40, i soggetti che possono partecipare al procedimento in esame sono:

a) le amministrazioni statali interessate alla realizzazione dell'intervento;

b) le Regioni e gli altri enti territoriali interessati dall'opera;

c) i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, che, in ragione degli scopi statutari, sono interessati dall'intervento.

Sotto questo profilo, la disciplina attuale appare più restrittiva della precedente, visto che, in costanza della previgente normativa, al dibattito pubblico potevano partecipare anche i cittadini singolarmente considerati. Il legislatore, piuttosto che introdurre un filtro selettivo atto a evitare il pericolo che si sostanziassero forme partecipative di massa capaci (anche dolosamente) di paralizzare (o comunque di rallentare) l'adozione della scelta finale, con costi enormi per il Paese in senso ampio e l'incidenza negativa sul buon andamento della P.A. (e, in particolare, sul principio di non aggravamento del procedimento), ha preferito ridurre drasticamente la platea degli interessati. Questa scelta di limitare la partecipazione non convince appieno, poiché rischia di snaturare l'istituto e di allontanarlo dal genus delle arene deliberative, cui dovrebbe invece appartenere. Inoltre, la prassi ha dimostrato che spesso i singoli amministrati hanno fornito apporti collaborativi utili che hanno consentito di individuare soluzioni di dettaglio meno impattanti sulla proprietà o sulla qualità della vita, con l'effetto — anche — di evitare futuri sbocchi contenziosi: si ritiene che sia anche per questo che la Commissione nazionale per il dibattito pubblico, nella citata relazione con riferimento allo schema di modifica al Codice dei contratti pubblici elaborato dal Governo, abbia rilevato come l'attuale disciplina del dibattito pubblico segni un grande passo indietro nell'affermazione nel nostro ordinamento di questo importante strumento di democrazia partecipativa.

Come si nota, poi, la normativa prevede espressamente che le associazioni e i comitati, portatori di interessi diffusi, possano partecipare a patto che siano interessati dall'intervento in ragione degli scopi statutari. Il Codice, positivizzando gli orientamenti che nel tempo sono stati elaborati dalla giurisprudenza amministrativa con riguardo alla partecipazione al procedimento delle associazioni ai sensi dell'art. 9  l. n. 241/1990, esclude quindi in radice la partecipazione delle ccc.dd. associazioni o dei cc.dd. comitati di comodo. Tale eventualità non era di contro scongiurata in costanza della vecchia disciplina, posto che le previgenti norme legittimavano la generale partecipazione delle “associazioni”. A ogni modo, sulla scia degli studi condotti dalla dottrina sull'art. 9 legge n. 241/1990, è probabile che si legittimerà la partecipazione di tutti i centri organizzativi di riferimento che abbiano assunto una forma lecita.

Resta infine giustamente predicata la possibile partecipazione delle istituzioni pubbliche interessate: l'esperienza dimostra, infatti, come, anche a fronte di una sintonia tra autorità pubblica e comunità interessata dall'intervento, la realizzazione dell'opera possa essere impedita da una loro opposizione.

In evidenza

La partecipazione, stando al comma 4 dell'art. 40, si realizza tramite la presentazione, da parte dei soggetti legittimati a partecipare, di osservazioni e proposte, entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della relazione sul sito istituzionale. La disposizione, interpretata rigidamente, pare prevedere un modello di “confrontodocumentale, diverso da quello dialogico che dovrebbe caratterizzare le forme di democrazia quale quella in analisi. Anche sotto questo profilo, la normativa attuale sembra dunque introdurre uno strumento privo dei caratteri tipici delle arene deliberative (e, prima ancora, degli strumenti di democrazia deliberativa).

Se così è, non è allora chiaro perché poi:

1) all'art. 4, comma 1, lett. a), l'allegato, nel precisare che il responsabile può, per motivate esigenze, derogare alla regola della partecipazione/comunicazione informatica/telematica, parla di “calendarizzazione di incontri”: l'incontro (anche se telematico) presuppone comunque uno scambio di opinioni;

2) all'art. 4, comma 1, lett. c), precisa che il responsabile favorisce il “confronto”: anche questa accezione del dibattito non si addice a una partecipazione di tipo documentale, statica e non dinamica.

Non esiste, nell'attuale disciplina, una definizione che valga a soccorrere l'interprete per aiutarlo a comprendere se il legislatore abbia effettivamente ancora considerato imprescindibili gli “incontri” e i “confronti”: le norme non riprendono infatti il contenuto dei precedenti artt. 2, comma 1, e 8 comma 2, del regolamento del 2018, ai sensi dei quali, rispettivamente, “[il] dibattito pubblico [è] il processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull'opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi (…)”; “Il dibattito pubblico (…) consiste in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti (…)”).

In ogni caso, ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. d) ed e), la stazione appaltante o l'ente concedente deve non solo partecipare in modo attivo alle attività previste dal dibattito pubblico e dare il supporto necessario per rispondere ai quesiti emersi, ma anche fornire le informazioni sull'intervento e sulle significative alternative progettuali esaminate nella prima fase del progetto di fattibilità.

La conclusione della procedura

Ai sensi del comma 5 dell'art. 40, il dibattito pubblico si conclude entro un termine che sia compatibile con le esigenze di celerità e che non sia comunque superiore a centoventi giorni dalla pubblicazione della relazione nei siti istituzionali.

Appare evidente come il legislatore presti particolare attenzione al profilo dei tempi; il che non sorprende, visto che il sistema del nuovo Codice è interamente importato al principio del risultato. Dopotutto, fin dal 2018 il Consiglio di Stato ha osservato come l'istituto in analisi richieda “un contemperamento tra l'esigenza di non allungare troppo i tempi di realizzazione delle [opere] e quella di dare effettività al coinvolgimento (…) dei portatori di interessi (…)” (v. il più volte citato parere n. 359/2018). Sempre in quest'ottica, il legislatore del 2023 si preoccupa di precisare che:

a) anche nel caso di dibattito pubblico facoltativo, occorre in ogni caso garantirne la celerità (art. 40, comma 1, cit.);

b) i termini di conclusione del dibattito, che decorrono dalla pubblicazione della citata relazione di progetto dell'opera, possono essere prorogati dal titolare del potere di indizione una sola volta e per la durata massima di due mesi, in caso di comprovata e motivata necessità (art. 6, comma 2, allegato I.6).

In evidenza

Ai sensi degli artt. 40, comma 5, del nuovo Codice dei contratti pubblici e dell'art. 7, comma 1, dell'allegato I.6, la conclusione è formalizzata tramite la redazione da parte del responsabile del dibattito pubblico di una relazione conclusiva sull'andamento dell'intera procedura entro il termine finale di conclusione individuato.

Tale relazione deve essere presentata alla stazione appaltante o all'ente concedente e deve essere pubblicata sia sul sito istituzionale di questi ultimi, sia sui siti istituzionali delle amministrazioni locali interessate dall'intervento. Essa deve contenere non solo una sintetica descrizione delle proposte e delle osservazioni pervenute, con l'eventuale indicazione di quelle ritenute meritevoli di accoglimento, ma anche:

a) la descrizione delle attività svolte nel corso del dibattito pubblico;

b) la sintesi dei temi, in modo imparziale, trasparente e oggettivo, delle posizioni e delle proposte emerse nel corso del dibattito;

c) la descrizione delle questioni aperte e maggiormente problematiche rispetto alle quali si chiede alla stazione appaltante o all'ente concedente di prendere posizione nella relazione conclusiva, con l'eventuale indicazione delle proposte ritenute meritevoli di accoglimento.

Evidentemente, al coordinatore non spetta il compito di apprezzare gli esiti del dibattito: essi, ai sensi del comma 6 dell'art. 40, assieme alle eventuali proposte di variazione dell'intervento, sono valutati dalla stazione appaltante o dall'ente concedente ai fini dell'elaborazione del successivo livello di progettazione. La dicitura sembra invero escludere la possibilità che la stazione appaltante/l'ente concedente si convinca all'esito del dibattito di non realizzare l'opera progettata.

Tuttavia, l'art. 7, comma 2, dell'allegato I.6, quando stabilisce che entro due mesi dalla ricezione della suddetta relazione, la stazione appaltante/l'ente concedente è tenuto a redigere un documento conclusivo (del quale viene data comunicazione non solo al Dipartimento, ma anche più in generale alla collettività, mediante pubblicazione sui propri siti istituzionale e sui siti istituzionali delle amministrazioni locali interessate dall'intervento), specifica che in siffatto documento essa/esso dovrà evidenziare non solo le eventuali modifiche da apportare al progetto e le ragioni che hanno condotto a non accogliere eventuali proposte, ma anche “ la volontà o meno di realizzare l'intervento”: dà quindi per scontato che il dibattito possa indurre la stazione appaltante/l'ente concedente a desistere dal realizzare l'intervento.

Stando al dato letterale su riportato, sembra che il soggetto proponente l'opera debba indicare le sole ragioni che l'abbiano indotto a non accogliere le eventuali proposte emerse. Tuttavia, si ritiene che, anche nell'ottica della valenza polifunzionale della motivazione, il soggetto debba debitamente ed esaustivamente spiegare le ragioni della scelta anche laddove decida di accogliere (tutti, o alcuni de)i rilievi emersi al fine di assicurare una vera conoscibilità della decisione assunta. Ciò consentirà il raggiungimento di un duplice fine: gli enti che non siano intervenuti per qualsiasi ragione e la collettività impossibilitata a partecipare secondo le regole del nuovo modello potranno comunque apprendere i motivi che abbiano indotto il soggetto proponente ad accogliere le considerazioni espresse da chi abbia rappresentato i propri interessi nel corso della procedura di confronto. In più, qualora saranno accolte solo le osservazioni di alcuni dei partecipanti, si garantirà che gli altri, i cui interessi non siano stati soddisfatti nel modo desiderato, possano comunque conoscere non solo le ragioni che abbiano indotto il soggetto procedente a non accogliere le proprie proposte, ma anche i motivi che abbiano indotto la stazione appaltante/l'ente concedente ad accogliere quelle altrui.

Come nel sistema francese, le posizioni emerse nel dibattito non vincolano la stazione appaltante o l'ente concedente: tali soggetti restano infatti liberi di optare per soluzioni che possono essere anche in contrasto con quanto emerso. In tal senso, la decisione non è dunque “collettiva”, posto che il dibattito pubblico ha piuttosto l'intento di condurre all'adozione di una decisione unilaterale, che, anche se non condivisa dagli interessati, possa verosimilmente essere da questi quantomeno maggiormente compresa, in quanto adeguatamente motivata e frutto di un processo partecipato.

Ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. c), la stazione appaltante/l'ente concedente deve comunicare al Dipartimento per le opere pubbliche, le politiche abitative e urbane, le infrastrutture idriche e le risorse umane e strumentali del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti la conclusione della procedura.

La soppressione della Commissione nazionale per il dibattito pubblico

Il legislatore del 2023 ha soppresso la Commissione nazionale per il dibattito pubblico.

Siffatta Commissione era stata istituita presso il Ministero delle Infrastrutture e del trasporti, dall'art. 4 d.P.C.M. del 2018, in attuazione dell'art. 22, comma 2, del vecchio Codice (ma è stata nominata solo a fine 2020, – a distanza di quasi due anni dal regolamento – e si è insediata il 18 marzo 2021). Essa aveva compiti di monitoraggio, regolazione e pubblicità dei dibattiti pubblici attivati dalle varie stazioni appaltanti. L'organo era stato invero inserito ad opera dal d.lgs. correttivo 19 aprile 2017, n. 56 –, per rispondere alle perplessità mostrate dal Consiglio di Stato, che, nel citato parere sullo schema di Codice dei contratti pubblici (n. 855/2016), aveva rilevato come la previsione di una pratica di democrazia partecipativa non potesse utilmente operare in assenza di un preciso meccanismo di monitoraggio. La norma recava la clausola di invarianza finanziaria che comportava non solo la assoluta gratuità della carica di membro della Commissione, ma pure l'assenza di una organizzazione e di una struttura proprie di questa.

Dall'esame della relazione illus trativa della Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato non emerge alcuna precisa motivazione circa la ratio sottesa alla scelta di eliminare quest'organo. Il Governo non era sul punto vincolato da alcuna disposizione della delega; quindi, ha effettuato una scelta espressiva di manifestazione della propria discrezionalità.

Certo è che con la riforma dei contratti pubblici il legislatore avrebbe potuto cogliere l'occasione per rafforzare tale organo, e, consequenzialmente, per rendere maggiormente “credibile” lo strumento in analisi, il quale resta invece ancora privo di un organismo terzo e indipendente e si allontana, anche per questo, dal genus delle arene deliberative.

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