Audi alteram partem e procedimenti di T.S.O.: un principio immanente?
11 Ottobre 2024
Massima È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 33, 34 e 35 l. 23 dicembre 1978, n. 833 con riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all’art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU nella parte in cui non prevedono che il provvedimento motivato con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera sia tempestivamente notificato all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e con l’avviso che l’interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida; nonché nella parte in cui non prevedono che la ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare sia tempestivamente notificata all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che può presentare ricorso ai sensi dell’art. 35 della predetta legge. Il caso La vicenda trae origine dalla sentenza con cui la Corte di Appello ha confermato la decisione del Tribunale di Caltanissetta che, nel respingere l'opposizione presentata da una donna avverso il decreto con cui il giudice tutelare ebbe a convalidare il trattamento sanitario obbligatorio (anche solo “T.S.O.”) disposto dal Sindaco nei suoi confronti, aveva ritenuto sussistenti i presupposti normativamente richiesti dagli artt. 33 ss., l. n. 833/1978. In particolare, la ricorrente (oltre a contestare le risultanze istruttorie) lamentava di essere stata ingiustamente privata della propria libertà personale, deducendo la irregolarità della procedura e, segnatamente, la mancata notifica di tutti i vari atti procedimentali del T.S.O. (vale a dire del provvedimento del Sindaco e dell'ordinanza di convalida), con conseguente impossibilità di venire a conoscenza, nell'immediatezza, di quanto le stava accadendo (non essendo stata, peraltro, né sentita dal giudice tutelare né messa nelle condizioni di accedere agli atti del trattamento), onde poter proporre un ricorso effettivo e tempestivo. Proposto ricorso per Cassazione, la Suprema Corte, a fronte della ritenuta sussistenza di taluni profili di incompatibilità della procedura con i principi costituzionali (artt. 2, 3, 13, 24, 32 nonché 111 e 117 Cost, in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU), ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale. La questione Il Collegio, preso atto della mancanza di una norma che impone la notificazione, al soggetto infermo, tanto del provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera quanto della successiva ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare, nonché rilevata l’assenza di passaggi procedimentali volti a garantire il diritto al contraddittorio, alla difesa e ad un ricorso tempestivo ed effettivo avverso le decisioni che limitano il diritto di autodeterminazione dell’interessato, si interroga sulla compatibilità del sistema con il quadro costituzionale ed europeo; la Corte, in particolare, riflette sul rispetto della dignità della persona e si domanda se l’interessato debba essere messo in condizione di essere ascoltato e poter partecipare (anche nella fase autoritativa amministrativa e di controllo giurisdizionale) alle decisioni sul suo percorso di salute. L’interrogativo proposto – utilizzando le espressioni proprie dell’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale – può essere così delimitato: appare «irragionevole che il diritto all’ascolto venga assicurato nella fase medica e non anche nella fase giurisdizionale, dove, in verità dovrebbe concretarsi in un ben più incisivo diritto al contraddittorio e alla difesa»?; ed ancora: «merit[a] la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non avviene nel contraddittorio delle parti e che si limita ad un controllo formale sulla procedura e sul rispetto dei termini, senza ascoltare le ragioni di chi a quell’intervento terapeutico si è opposto e ciononostante subisce una limitazione della sua libertà materiale e della autodeterminazione»?. In definitiva: gli artt. 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 sono costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono che il provvedimento con il quale il sindaco dispone il T.S.O. in condizioni di degenza ospedaliera e l’ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare debbano essere notificati all’interessato o al suo legale rappresentante? Le soluzioni giuridiche L'ampia ordinanza in commento si dipana attraverso ordinate riflessioni sul corretto modo in cui dovrebbe essere inteso il T.S.O., offrendo, nel confronto (e con il conforto) della più autorevole giurisprudenza che si è occupata di tutela della dignità e di limitazioni della libertà personale, significativi spazi per riflettere su un tema di assoluta centralità: il diritto dell'interessato ad avere contezza di un provvedimento coercitivo che incide sulla propria persona, ad essere ascoltato, ad essere considerato un contraddittore, onde vedersi garantito il diritto ad un ricorso effettivo. Il discorso, allora, così inquadrata la vicenda, non potrà che soffermarsi solamente su taluni passaggi e profili particolarmente rilevanti, prendendo le mosse dall'esame delle principali disposizioni che regolano la materia. Ebbene, come noto, «gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari» (art. 33, comma 1, l. n. 833/1978) perché, «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» che, comunque, «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32, comma 2, Cost.). A fronte della volontarietà della sottoposizione ad accertamenti e trattamenti sanitari (Cass., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748), tuttavia, l'ordinamento si deve confrontare tanto con lo spinoso problema della lucidità del paziente (il quale potrebbe rifiutare le cure non già per una libera scelta, ma in ragione della condizione patologica, anche temporanea, che lo affligge) quanto con la possibilità per la società di potersi o doversi difendersi, anche in via preventiva, da individui affetti da malattia mentale (o alterazione psichica temporanea). Nell'attuale quadro normativo (l. 23 dicembre 1978, n. 833), però, il tema – superato (già con la l. 13 maggio 1978, n. 180) il riferimento al ricovero nei manicomi delle persone che, affette da alienazione mentale, fossero «pericolose a sé o agli altri» ovvero «di pubblico scandalo» (l. 14 febbraio 1904, n. 36), cioè respinta l'idea di una misura coercitiva considerata come strumento di difesa sociale – è principalmente quello del rifiuto delle cure che appaiono urgenti ed indifferibili, essendo la salute «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» (art. 32, comma 1, Cost.). In tale contesto, gli attuali presupposti per intervenire con un T.S.O. in condizioni di degenza ospedaliera sono cumulativamente individuati (artt. 33 e 34, l. n. 833/1978) nella esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, nella mancata accettazione degli stessi da parte dell'infermo nonché nell'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere (Cass., sez. III, 11 gennaio 2023, n. 509), mentre la procedura può essere così riassunta: su proposta motivata di un medico (art. 33, comma 3, l. n. 833/1978), convalidata da altro medico della unità sanitaria locale (art. 34, comma 4, l. n. 833/1978), il sindaco (entro 48 ore dalla predetta convalida), nella sua qualità di autorità sanitaria, dispone il T.S.O. in condizioni di degenza obbligatoria, notificando (entro 48 ore dal ricovero) il provvedimento al giudice tutelare, il quale (nelle successive 48 ore) deve provvedere a convalidarlo o non convalidarlo, dandone comunicazione al sindaco (art. 35, comma 1 e 2, l. n. 833/1978), sotto pena di perdita di efficacia della misura. Contro tali provvedimenti del giudice tutelare, il paziente (o chiunque vi abbia un interesse concreto e attuale, derivante da uno stretto e personale legame, tale da giustificare un intervento in suo ausilio o, più precisamente, una «sostituzione processuale»: Cass., sez. I, 13 febbraio 2024, n. 4000) ed il sindaco possono proporre ricorso al tribunale competente per territorio, che decide sentito il pubblico ministero, dopo avere assunto le informazioni e raccolto le prove disposte di ufficio o richieste dalle parti, con la precisazione che il Presidente del tribunale può sospendere il trattamento medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione (art. 35, l. n. 833/1978). Sono così formalmente garantiti il controllo giurisdizionale e il diritto al ricorso, quale strumento volto a garantire il rispetto dei diritti personalissimi del paziente e ad evitare abusi, con particolare attenzione al bilanciamento tra libertà individuale e salute della persona affetta da disturbo mentale (Cass., sez. I, 15 febbraio 2024, n. 4229). Solo formalmente, però; la normativa vigente, invero, «non prevede che il provvedimento del sindaco e l'ordinanza che lo convalida siano notificati alla parte personalmente» così come «non prevede come obbligatoria la audizione personale dell'interessato da parte del giudice tutelare prima della convalida della misura, o comunque in un momento successivo, ma anteriore alla scadenza del trattamento», sicché il paziente non essendo reso partecipe degli atti a monte della convalida giurisdizionale non potrebbe che procedere a quella che è stata correttamente e condivisibilmente qualificata come «una impugnazione “al buio”» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Si tratta di un punto fondamentale sapientemente tratteggiato nelle pagine contenutisticamente centrali dell'ordinanza in commento: «il sindaco ed il giudice tutelare comunicano – obbligatoriamente – tra di loro, ma nessuno di due comunica con il paziente»; ed ancora: «manca nella previsione normativa qualsivoglia comunicazione giuridicamente qualificata diretta al paziente, finalizzata ad informare il soggetto interessato, non solo in ordine ai trattamenti sanitari ai quali è necessario che si sottoponga, bensì anche della sua condizione giuridica e della possibilità di opporsi al trattamento»; anche il fattore temporale, peraltro, assume un carattere decisivo, difettando «una audizione da parte del giudice tutelare nella immediatezza dei fatti, la possibilità di contestare nella immediatezza il giudizio medico e di chiederne la verifica mentre [il] paziente era ancora sottopost[o] al ricovero, nonché le informazioni che, sempre nella immediatezza dei fatti, avrebbero potuto essere assunte su sollecitazione della parte» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). La conseguenza che il Collegio giudicante ne trae è lapidaria: non può dubitarsi che il difetto di notifica degli atti «costituisca un deficit costituzionalmente rilevante, con conseguente violazione del diritto al contraddittorio, alla informazione e alla difesa, viziante la regolarità della procedura» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Ma, negli snodi argomentatiti della decisione in epigrafe, al precipuo fine di evidenziare l'illegittimità della procedura, ci si sofferma altresì sulla natura non solo obbligatoria (con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, come avvenuto per l'obbligo vaccinale contro il Covid-19: Corte Cost., 9 febbraio 2023, n. 14) ma soprattutto coercitiva della misura («il paziente viene ricoverato coattivamente», con l'uso della forza pubblica, «in un reparto ospedaliero e ivi trattenuto»), di talché – stante la «la assoluta compressione della libertà» dell'individuo – l'applicazione non solo delle garanzie di cui agli articoli 32 e 13, ma anche degli articoli 24 e 111 della Costituzione (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Ebbene, se è vietata «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (art. 13, comma 4, Cost.), se «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24, comma 2, Cost.) e se «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti» (art. 111, comma 2, Cost.), allora il quadro normativo in materia di trattamento sanitario obbligatorio (che, come detto, non è una misura di difesa sociale bensì disposta, ricorrendo tutti i presupposti previsti dalla legge, a tutela della salute dell'interessato, in ragione della sua alterazione psichica che impone una limitazione al diritto di rifiutare i trattamenti sanitari) mostra tutte le sue carenze, anche in ragione del fatto che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32, comma 2, Cost.). Imporre il rispetto della persona umana (che vale «per tutti, anche per i malati di mente») significa garantire la dignità dell'individuo sotto lo specifico profilo del «diritto a essere informati e a contraddire nel procedimento che conduce ad una decisione restrittiva al tempo stesso della libertà personale e del diritto di autodeterminarsi» e del «diritto di potersi difendere quando sono adottate, o meglio si discute se debbano essere adottate, misure che comprimono la libertà personale» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Diritti, questi, fondamentali che non possono certo essere negati sulla base di una ormai ampiamente superata “logica manicomiale”, quasi che la persona affetta da patologia psichiatrica, disabilità, immaturità, non debba partecipare, nella misura in cui le circostanze glielo consentono, alle decisioni che la riguardano. In tal senso, come pure è stato magistralmente ricordato, un eventuale stato di incapacità della persona non potrebbe mai incidere sulla titolarità dei diritti, eliminandoli o ponendoli in stato di temporanea quiescenza, ma solo sulle modalità del loro esercizio. Si tratta, del resto, di tutele che, nella materia considerata, se per un verso non possono essere garantite in via interpretativa (stante la riserva di legge), per altro verso non possono in ogni caso essere procrastinate oltremodo, rendendo ancor più difficile il tempestivo accesso alla giustizia. La difficoltà, come è evidente, consiste nel fatto che «è impensabile che si possa proporre ricorso avverso un provvedimento della cui esistenza non si ha contezza … e di cui non si conoscono i contenuti, nonostante la legge preveda che tanto la proposta medica che l'ordinanza sindacale che il provvedimento di convalida siano motivati» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). La forma di partecipazione dell'interessato appare infatti costretta alla fase medica, alla «fase pre-ricovero», mentre il paziente viene escluso nella fase autoritativa amministrativa e di controllo giurisdizionale, «come se non fosse altrettanto importante dare spazio alle opinioni e difese dell'interessato anche in tale sede e prima che il trattamento sia imposto ed eseguito» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Anche nel delicato linguaggio utilizzato dal Collegio traspare l'insoddisfazione per l'attuale disciplina e la ricerca di una più attenta e congrua soluzione, specialmente laddove ci si chiede come la persona (o altro interessato, per esempio un rappresentante) «possa tempestivamente opporsi se non viene informata del suo status giuridico e delle ragioni per le quali, ex abrupto, le si parano dinnanzi i vigli urbani per prenderla e portarla in ospedale, in esecuzione di una ordinanza sindacale di cui … non ha contezza» e «come possa reagire, prima di avere recuperato la sua libertà e la collocazione nella società, se della esistenza di un giudice che convalida il provvedimento sindacale non ha notizia, posto che neppure l'ordinanza del giudice tutelare le viene notificata» (Cass., 9 settembre 2024, n. 24124). Osservazioni Come si è visto, il T.S.O. è un evento terapeutico straordinario, finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente, che non deve essere considerato una misura di difesa sociale, che deve essere attivato solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso dell'interessato ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura (così, testualmente, Cass., sez. III, 11 gennaio 2023, n. 509). La differenza con la disciplina previgente (L. n. 36/1904, recante «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati» e relativo regolamento di attuazione di cui al r.d. n. 615/1909), ove «il punto di vista del ricoverato semplicemente non esisteva» (A. Scartabellati, L'umanità inutile, Milano, 2001, p. 114) è assolutamente evidente; si supera quell'automatismo tra ricovero e presunta incapacità del degente di amministrare i propri diritti, viene «conferita efficacia giuridica al consenso/dissenso del destinatario a prescindere dalla sua validità e/o incapacità naturale», e si sancisce che il trattamento non può essere imposto, se non in presenza delle condizioni previste dall'art. 34, l. n. 833/1978 e per effetto di un provvedimento dell'Amministrazione (F. Dalla Balla, Vecchi e nuovi trattamenti obbligatori: dalla legge n. 833/1978 all'amministrazione di sostegno, in Resp. civ. prev., n. 3/2022, p. 1030). Essenziale, tuttavia, dovrebbe essere ritenuto anche il diritto della persona di essere informata e di esprime la propria opinione, il quale rappresenta un principio da ritenersi immanente nel sistema giuridico. Solo così potranno dirsi rispettati i connotati fondamentali della funzione giurisdizionale (cfr. art. 111 Cost, artt. 6 e 13 CEDU), quali l'imparzialità del giudice, il principio del contraddittorio, il diritto ad un rimedio giurisdizionale effettivo e tempestivo. In senso parzialmente diverso si è espressa, anche di recente ed a quanto è dato constatare, la giurisprudenza amministrativa, secondo cui il sindaco che ha adottato un provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio non avrebbe l'obbligo di notifica al paziente proprio per comprensive ragioni di opportunità (Consiglio di Stato, sez. I, 8 aprile 2009, n. 780); vi sarebbe, secondo tale impostazione, la necessità di tutelare in via d'urgenza chi versa nelle condizioni patologiche previste dalla legge e rifiuta le cure. Tale atteggiamento, però, a ben vedere, contrasta con il diritto della persona ad essere informata «al più presto e in una lingua a lei comprensibile», dei motivi posti a fondamento del provvedimento coercitivo (cfr. art. 5 CEDU); diritto che, infatti, pur se espressamente previsto per la persona «arrestata», ciononostante dovrebbe essere ritenuto applicabile ad ogni ipotesi di privazione della libertà personale. Le asserite ragioni d'urgenza, inoltre, non colgono nel segno; al riguardo, potrebbe e dovrebbe senz'altro ipotizzarsi almeno con riferimento al provvedimento di convalida del giudice tutelare, una notifica eseguita ai sensi dell'art. 151 c.p.c., onde garantire il principio del contraddittorio («Il giudice può prescrivere, anche d'ufficio, con decreto steso in calce all'atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, e anche per mezzo di telegramma collazionato con avviso di ricevimento quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità, di riservatezza o di tutela della dignità»). In definitiva, si potrà seriamente dubitare che meriti la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non avviene nel contraddittorio delle parti e che si limita ad un esame formale sulla procedura e sul rispetto dei termini, senza ascoltare le ragioni di chi a quell'intervento terapeutico si è opposto e malgrado ciò subisce una limitazione della sua autodeterminazione e libertà materiale; ovvero quello che non verifichi se la persona interessata (che due medici attestano essere in stato di alterazione psichica) è o meno in uno stato di capacità di intendere e di volere, così da poter organizzare una lucida difesa dei propri interessi, ovvero necessiti della nomina di un legale rappresentante eventualmente anche ad hoc e a tempo determinato. La giustizia ed il giusto processo impongono infatti il rispetto dell'essenziale principio dell'audi alteram partem. Ecco che, decorsi più di nove lustri dall'entrata in vigore della legge recante «Istituzione del servizio sanitario nazionale», l'interprete è colto dal dubbio («si dubita … che l'attuale sistema normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori in condizione di degenza ospedaliera, in quanto misura coattiva che priva la persona della autodeterminazione in tema di cure mediche e della libertà personale, sia conforme agli artt. 2,3,13,24,32 e 111 della Costituzione, nonché all'art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU») sulla imprescindibilità del diritto al contraddittorio anche nei procedimenti di T.S.O. La Corte costituzionale, investita della questione, potrà così inserirsi nei complessi itinerari sottesi agli istituti esaminati e segnare, percorrendo le più diverse strade (ed indipendentemente dalla soluzione prescelta), un definitivo punto fermo. Il giurista positivo, a tal fine, non potrà che soffermarsi sulle norme costituzionali e sovranazionali, così come interpretate dalle varie Corti, ovvero sottolineare come la procedura attualmente prevista sia oggetto di critica da parte del comitato per la prevenzione della tortura (in quanto il giudice tutelare non incontra mai i pazienti di persona e i pazienti restano disinformati sul loro status legale) e che anche la Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU, sez. II, 26 marzo 2024, ricorso n. 38963/2018) è stata chiamata ad affrontare il delicatissimo tema della sussistenza di una violazione del divieto di tortura (ex art. 3 CEDU) nei confronti di un soggetto ricoverato contro la sua volontà presso un ospedale psichiatrico, nonostante non vi fossero elementi tali da ritenere necessaria una simile misura, certamente limitativa della libertà personale del ricorrente nonché particolarmente afflittiva sotto il profilo psicologico (così D. Amoroso, M.F. Orzan, Divieto di tortura e sottoposizione coatta a trattamenti psichiatrici non necessari, in Giur.it., n. 5/2024, p. 1026). Qualcuno, poi, volendosi allineare agli assunti posti a fondamento delle significative argomentazioni dell'ordinanza interlocutoria, potrà perfino scomodare, con pacato compiacimento, “l'eternal law”, ricordando come la cacciata dal Paradiso Terrestre di Adamo ed Eva fu disposta solo dopo che furono sentiti in loro difesa, mentre altri, nella medesima prospettiva, preferirà rammentare i versi della Medea di Seneca: «Chi decide senza ascoltare l'altra parte, magari decide giusto, ma giusto non è». |