Licenziamenti e tutele nel rapporto di lavoro subordinato: il complesso percorso della recente giurisprudenza costituzionale illustrato in una tabella di sintesi

Corrado Caruso
15 Ottobre 2024

La recente giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di licenziamenti e rimedi sistematizzata in un percorso illustrato nella tabella riassuntiva che si pubblica. Si evidenziano gli elementi essenziali e gli effetti di ogni singola decisione, fornendone un quadro complessivo dell'evoluzione del pensiero della Corte e il ruolo cruciale nel bilanciare diritti dei lavoratori ed esigenze dei datori di lavoro.

La tabella, che si pubblica si prefigge l'obiettivo di sistematizzare la recente giurisprudenza costituzionale in tema di licenziamenti e rimedi nel rapporto di lavoro subordinato, attraverso l'individuazione degli elementi essenziali che compongono le singole decisioni: norma impugnata, contesto, effetti della decisione, massima.

Si tratta di 11 decisioni, che coprono l'arco temporale che va dal 26 settembre 2018 (sent. n. 194) al 16 luglio 2024 (sent. n. 129); un intervallo di 6 anni circa in cui la Corte costituzionale, sollecitata dai giudici di merito e dalla stessa Corte di cassazione, ha di fatto riscritto la riforma dell'art. 18 dello statuto operata con l. n. 92/2012 (legge Fornero) e poi con il d.lgs. n. 23/2015 (Jobs act).

La tabella fornisce i dati utili e salienti (compresi l'indicazione del giudice relatore e del presidente protempore) per consentire all'operatore e allo studioso uno sguardo sincronico sull'evoluzione del pensiero della Corte e sul risultato della riscrittura.

La tabella evidenzia, infatti, in uno sguardo d'insieme, come la Corte Costituzionale abbia avuto un ruolo cruciale nel bilanciare i diritti dei lavoratori e le esigenze dei datori di lavoro, correggendo e affinando il quadro normativo attuale per garantire una tutela più adeguata e proporzionata in materia di licenziamenti.

Essa, in tal senso, costituisce parte integrante della riflessione di B. Caruso e C. Caruso, "Licenziamento e “politiche” giurisdizionali del lavoro. (Riflessioni interdisciplinari a partire dalle sentenze nn. 128 e 129/2024 della Corte costituzionale)", in un saggio, in corso di pubblicazione in due parti, sulla Rivista italiana di diritto del lavoro ove sarà riportata pure una sintesi della stessa.

Tabella a cura di Ylenia Guerra

Sentenza numero e data  

Relatore e Presidente  

Giudice remittente  

Norme   impugnate

Tipologia di sentenza  

Sintesi  

Parole chiave e massima  

Effetti della decisione

e altre considerazioni  

1. Sentenza 194/2018  

Sciarra Lattanzi

Trib. Ord. Roma

Giudice Maria Giulia Cosentino

Fonte G.U.

JA art. 1, c. 7, lett. c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183;

  artt. 2,3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Jobs act)

Sentenza di accoglimento parziale testuale in relazione all'art. 3 c. 1 del D.lgs. n. 23/2015 sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall'art. 3, c. 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87

Illegittimità dell'automatismo basato sull'anzianità di servizio per la determinazione della indennità che limita la discrezionalità del giudice di determinare il quantum; indicazioni dei criteri per la determinazione della indennità; legittimità della differenziazione del trattamento in ragione della data di assunzione (disparità tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015): non violato il canone di ragionevolezza in ragione della politica economica perseguita dal legislatore

Incostituzionalità JA - Licenziamento disciplinare -  criteri di calcolo indennità

È incostituzionale per violazione degli artt. 3,4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, l'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 laddove prevede una indennità fissa e crescente in funzione della sola anzianità di servizio, in quanto contrastante con il principio di eguaglianza, per ingiustificata omologazione di situazioni diverse, e con il principio di ragionevolezza, essendo tale indennità inidonea a configurare un adeguato ristoro per il lavoratore ingiustamente licenziato e una adeguata dissuasione per il datore di lavoro avverso licenziamenti illegittimi.

V., anche, le massime nn. 40522-40531 sul sito della Corte costituzionale

Dichiara incostituzionale le norme del JA che fissavano ex lege il quantum di indennità del licenziamento illegittimo, ripristinando la discrezionalità del giudice anche con riguardo ai criteri di determinazione privilegiando l'anzianità

di servizio. Critica la legge anche con riguardo alla esiguità del risarcimento previsto

(che nelle more della decisione viene aumentato da 6 mensilità a 36).

Ritiene legittima la differenziazione dei rimedi non considerando il rimedio della reintegrazione diritto costituzionalizzato. Ritiene legittima la differenziazione di trattamento in ragione della data di assunzione

Valore correttivo e integrativo del sistema non lo sconvolge. Mira a tutelare i lavoratori con scarsa anzianità di servizio.

La discrezionalità del giudice come valore.

A favore della personalizzazione dell'indennizzo. Può essere interessante segnalare che la la scelta del legislatore di centro-sinistra era stata confermata dal governo gialloverde, che si era limitato ad aumentare il quantum risarcitorio.

2. Sentenza 150/2020  

Cartabia Sciarra

Trib. di Bari

Giud. Isabella Calia

Trib. di Roma Giud. Dario Conte

Fonte G.U.

art. 4 d.lg. 4 marzo 2015, n. 23 (tutele crescenti), limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”

Sentenza di accoglimento parziale testuale in relazione all'art. 4 del D.lgs. 4 n. 23/2015 

   

Licenziamento affetto da vizi formali o procedurali: illegittima la commisurazione dell'indennità in via esclusiva all'anzianità di servizio. Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell' art. 4 d.lg. 4 marzo 2015, n. 23   limitatamente alle parole di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Il criterio di commisurazione dell'indennità da corrispondere per i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale, ancorato in via esclusiva all'anzianità di servizio, non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore. Soprattutto nei casi di anzianità modesta, si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l'efficacia deterrente della tutela indennitaria: la soglia minima di due mensilità non è sempre in grado di porre rimedio all'inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge.

Incostituzionalità JA - Licenziamento  vizio procedurale e di motivazione- criteri di   calcolo indennità

È costituzionalmente illegittimo l'art. 4 d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». La disposizione censurata, nel prevedere, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura di cui all'art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300, la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, attribuisce rilievo esclusivo, ai fini della quantificazione dell'indennità, al criterio dell'anzianità di servizio. Quest'ultima, svincolata da ogni criterio correttivo, è però inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa il pregiudizio arrecato dall'inosservanza di garanzie fondamentali e neppure rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie prescritte dalla legge. I rimedi previsti dalla disposizione censurata, in ragione dell'inadeguatezza che li contraddistingue, si rivelano lesivi anche della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto la giusta procedura di licenziamento è diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore. Nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell'indennità, terrà conto innanzitutto dell'anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione, e, in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell'indennità aderente alle particolarità del caso concreto, quali la gravità delle violazioni, enucleata dall'art. 18, comma 6, dello statuto dei lavoratori e anche il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti. Spetta alla responsabilità del legislatore ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari (sentt. nn. 45 del 1965, 204 del 1982, 427 del 1989, 364 del 1991, 194 del 2018).

V. massima 43444 sul sito della Corte costituzionale

Sentenza logicamente collegata alla precedente  194, riguardante il regime di annullamento per assenza del gmo o della gc. Ritiene ancora più inadeguato

 sia  il quantum previsto sia, a fortiori, il criterio di calcolo basato su criterio matematico legato all'anzianità nel caso del licenziamento per vizi procedurali. Richiama molti degli argomenti della sentenza 194 2018

Auspica un intervento di complessiva revisione della normativa sui

licenziamenti. punto 17 del Considerato in diritto: «spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi

di interventi frammentari»

Incide sul D.Lgs. 23/2015 (contratto a tutele crescenti) riformulando i criteri volti a commisurare l'indennità in caso di licenziamenti affetto da vizi formali o procedurali. In particolare, con la sentenza 150/2020 il giudice è chiamato, nel rispetto delle soglie oggi fissate dal legislatore, a determinare l'indennità tenendo conto sì dell'anzianità di servizio e potrà poi ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema (la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti). Incide  sul jobs act (integrato dal decreto dignità 36 mensilità), eliminando gli automatismi di calcolo della indennità; ma conferma la scelta legislativa della differenziazione dei rimedi in generale e anche in ragione della data di assunzione

3. Sentenza 254/2020

Morelli

Sciarra

Corte d'appello di Napoli

(Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza -

Composta dai magistrati:

Giudice Isabella Diani, Presidente;

Giudice Anna Maria Beneduce, consigliere;

Giudice Matilde Pezzullo, consigliere rel.)

Fonte: G.U.

JA  art. 1, c. 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183artt. 1,3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (cd. tutele crescenti)

Sentenza di inammissibilità

Sono inammissibili, per insufficiente motivazione sulla rilevanza e ambiguità del petitum, le q.l.c. dell'art. 1, c. 7, n. 183/2014 (JA) e degli artt. 1,3 e 10 D.lgs. n. 23/2015 (contratto a tutele crescenti), nella versione antecedente alle modifiche di cui all'art. 3, c. 1, del decreto-legge n. 87/2018.

La decisione della Corte costituzionale interviene dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, adita dal giudice a quo con rinvio pregiudiziale (ordinanza del 4 giugno 2020, nella causa C-32/20, TJ contro Balga srl) che ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte in merito, non riscontrando alcun collegamento fra la disciplina nazionale relativa ai criteri di scelta nell'ambito dei licenziamenti collettivi e un atto di diritto UE, così come richiesto dall'art. 51, par. 1, della Carta di Nizza.

Con riguardo alla rilevanza, il giudice a quo non descrive la fattispecie concreta e non allega, al contempo, alcuna argomentazione non implausibile. Non è nemmeno chiaro l'intervento specifico richiesto alla Corte.

Licenziamento collettivo - JA    -

Inammissibilità

Licenziamenti collettivi criteri di scelta e procedure. Disparità dei rimedi nel licenziamento collettivo in ragione della data di assunzione

Massima n. 43014: “Sono dichiarate inammissibili, per insufficiente motivazione sulla rilevanza e ambiguità del petitum, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dalla Corte d'appello di Napoli in riferimento agli artt. 3,4,24,35,38,41,76,111,10 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 CDFUE e all'art. 24 della Carta sociale europea - dell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 1,3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella versione antecedente alle modifiche dettate dall'art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. nella legge n. 96 del 2018 che, con riguardo al contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, prevedono, per le ipotesi di licenziamenti collettivi intimati in violazione delle procedure o dei criteri di scelta, il diritto ad una tutela esclusivamente monetaria. In ordine alla rilevanza, il giudice d'appello trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare, anche solo con un'argomentazione non implausibile, elementi idonei a corroborare l'accoglimento dell'impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, che era già stata esclusa dal giudice di prime cure. È inoltre incerto l'intervento richiesto poiché, dalla formulazione delle censure, non è dato comprendere se il rimettente prefiguri una pronuncia ablativa o manipolativa ed inoltre permane l'alternativa - che comunque investe le scelte eminentemente discrezionali del legislatore - tra il ripristino puro e semplice della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela indennitaria, in una più accentuata chiave deterrente. (Precedenti citati: sentenze n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46 del 2000).

La rilevanza del dubbio di costituzionalità non si identifica nell'utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare, presupponendo la necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e riconnettendosi all'incidenza della pronuncia costituzionale su qualsiasi tappa di tale percorso. (Precedente citato: sentenza n. 174 del 2019).

L'attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate - ciascuna per la propria parte - a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata. Ai sensi dell'art. 19 TUE, vi è un legame inscindibile tra il ruolo della CGUE, chiamata a salvaguardare "il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati" e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire "una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione". (Precedenti citati: sentenze n. 63 del 2019, n. 20 del 2019; ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019).

Secondo la giurisprudenza costituzionale, la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo. (Precedenti citati: sentenze n. 194 del 2018 e n. 80 del 2011)”

Fonte Corte cost.

Inammissibilità del ricorso per motivi vari La disciplina del JA sui licenziamenti collettivi rimane inalterata

4. Sentenza   59/2021

Coraggio

Sciarra

Trib. di Ravenna

giudice Bernardi

Fonte G.U.

art. 18, comma 7, secondo periodo, l. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), l. 28 giugno 2012, n. 92 

Sentenza sostitutiva

In un sistema che, per scelta consapevole del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell'insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l'applicazione della tutela reintegratoria del lavoratore, si rivela 'disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza' il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell'inconsistenza della giustificazione addotta e della presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto

Incostituzionalità Fornero -

Licenziamento Giustificato motivo oggettivo – discrezionalità giudice “può non deve”

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma 7, secondo periodo, l. 20 maggio 1970, n. 300  , come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), l. 28 giugno 2012, n. 92 , nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” - invece che “applica altresì” - la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4

Massima 43754: “È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» - invece che «applica altresì» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma. La disposizione censurata dal Tribunale di Ravenna, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione del lavoratore, pur nell'ampio margine di apprezzamento che compete al legislatore, viola i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza. Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione dei licenziamenti economici rivela, infatti, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, perché le peculiarità delle fattispecie di licenziamento non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l'insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta. L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente, sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. Alla violazione del principio di eguaglianza si associa l'irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento. La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse - quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria - è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento. (Precedenti citati: sentenza n. 60 del 1991, n. 194 del 2018, n. 46 del 2000, n. 254 del 2020, e n. 2 del 1986).

L'esigenza di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti le fattispecie di licenziamento si fonda sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.). (Precedenti citati: sentenza n. 45 del 1965)”

Fonte Corte cost.

Incostituzionalità della norma che dà al giudice il potere di ordinare la

Reintegra in caso di manifesta insussistenza del fatto nel gmo. La discrezionalità del giudice come dis-valore

5. Sentenza  125/2022

Amato Sciarra

Tribunale di Ravenna

Giudice Bernardi

Fonte G.U.

art. 18, c. 7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, «nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta” insussistenza del fatto stesso», posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Sentenza di accoglimento parziale

Il requisito del carattere “manifesto” dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesto per disporre la reintegra, è indeterminato, prestandosi ad incertezze applicative e potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento: di fatto, tale requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e, per di più, priva di un plausibile fondamento empirico.

Incostituzionalità Fornero  - Licenziamento giustificato motivo oggettivo      “manifesta insussistenza”

Nelle aziende di grandi dimensioni, il regime sanzionatorio a presidio del licenziamento per motivo oggettivo disciplinato dall'articolo 18, comma 7, legge 300/1970 (nel testo modificato dalla Riforma Fornero) è costituzionalmente illegittimo, laddove richiede che l'accertata «insussistenza» del fatto posto alla base del recesso (non sia di per sé sufficiente ai fini della reintegrazione, ma sia altresì necessario che la medesima insussistenza) sia «manifesta».

Massima 44898: “Il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta dall'art. 1 Cost. al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell'ordinamento repubblicano. L'attuazione di tali principi è demandata al legislatore che, pur nell'ampio margine di apprezzamento di cui dispone, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza. La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve infatti sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, tra le quali la reintegrazione non costituisce l'unico possibile paradigma attuativo dei richiamati principi costituzionali. Al riguardo, essenziale è il compito del giudice, chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge”.

Fonte Corte cost.

Sempre su ordinanza di remissione dello stesso

giudice di Ravenna, dichiara la incostituzionalità dell'avverbio manifesta

insussistenza: naturalisticamente l'insussistenza c'è o non c'è.  L'insussistenza come fenomeno materiale  non tollera

gradazioni neppure probatorie.

6. Sentenza 183/2022

Amato

Sciarra

Trib. ordinario Roma.

Giudice Ermano Cambria

Fonte G.U.

art. 9, c. 1, del D.lgs. 4 n. 23/2015 (tutele crescenti)

Sentenza di inammissibilità

Un'indennità costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza, che concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio. Inoltre, il limitato scarto tra il minimo e il massimo conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che non rispecchia di per sé l'effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. Un sistema siffatto non attua quell'equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un'efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi e, pertanto, si deve riconoscere l'effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente. Al vulnus riscontrato, tuttavia, non può porre rimedio questa Corte, poiché non si ravvisa una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l'intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci.

Inammissibilità JA

Licenziamento piccole imprese sentenza monito, la legge va modificata.

Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, censurato per violazione degli artt. 3, comma 1, 4,35, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, nella parte in cui, nel regolare l'indennità spettante nel caso di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi ottavo e nono, della l. 20 maggio 1970, n. 300, stabilisce che l'ammontare delle indennità è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

Massima 44975: “Sono dichiarate inammissibili, per richiesta di intervento implicante scelte affidate alla discrezionalità del legislatore, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4,35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea - dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in base al quale, per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi ottavo e nono, della legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), l'ammontare delle indennità è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità. La norma censurata si caratterizza per alcune disarmonie che traggono origine, per un verso, dall'esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati. Quanto al primo profilo, un'indennità costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza. Quanto al secondo profilo, il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, quando invece oggi tale criterio, in un quadro dominato dall'incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, non è più indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro, né rispecchia la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. Tuttavia, spetta alla valutazione discrezionale del legislatore la scelta delle soluzioni più appropriate per garantire tutele adeguate, fermo restando che un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e indurrebbe la Corte costituzionale, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”

Fonte Corte cost.

Accerta ma non dichiara l'incostituzionalità della norma.   l'inammissibilità da self restraint non potendo la Corte sostituirsi al legislatore ma da sostanzialmente ragione al giudice remittente che considera illegittima la disposizione-

Al contrario della 194 e della 150, non è possibile l'operazione ortopedica (incostituzionalità parziale e riscrittura della norma).

I due punti critici. Limite massimo dell'indennizzo troppo base  e dato occupazionale quale criterio distitnvio del regime applicabile, inadeguato

rispetto alle trasformazioni in atto.

Indennizzo esiguo, non adeguato e non dissuasivo il quantum di risarcimento previsto dal JA in caso di licenziamento illegittimo. Ricala l'impianto argomentativo della sentenza n. 294 Critica il criterio di calcolo occupazionale (numero degli occupati) come discrimine tra piccole e medio grandi imprese.

la Corte  chiarisce che la riforma (sent. 150)  deve investire

«sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la

funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie» (  punto

7, terzo cpv., del Considerato in diritto).

Monito: la Corte non manca di «segnalare

che un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e

la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante

le difficoltà qui descritte» (  punto n. 7, ult. cpv., del Considerato in diritto)

7. Sentenza

7/2024

Barbera

Amoroso

Corte d'appello di Napoli

Sezione controversie di lavoro e di previdenza ed assistenza

Magistrati

Giudice      Mariavittoria Papa, presidente;

Giudice Giovanna Guarino, consigliere; Giudice Carlo de Marchis Gomez, consigliere rel.

Fonte G.U.

artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23,   attuazione della legge di delega n. 183/2014 criteri di scelta violazione della legge di delega. 

Sentenza di inammissibilità e non fondatezza

  A giudizio della Corte di Appello di Napoli, che aveva rimesso la questione alla Corte costituzionale, la disposizione in materia di licenziamenti collettivi inserita nell'art. 10 sarebbe frutto di un eccesso di delega rispetto alla previsione del comma 7 dell'art. 1 della l. 10 dicembre 2014, n. 183, la quale aveva delegato al Governo di intervenire con un decreto legislativo in materia di « licenziamenti economici », e per tali, ad avviso del giudice remittente, dovevano intendersi soltanto i licenziamenti individuali.

Tale rilievo, secondo la Corte, è infondato: considerando anche i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dal Jobs Act.

 L'espressione « licenziamenti economici », sarebbe infatti da intendersi in senso atecnico e duttile, in quanto può essere adoperata in maniera onnicomprensiva sia per i recessi individuali economici sia per quelli collettivi con riduzione di personale per « ragioni di impresa » e quindi, come tali, economici.

Non fondatezza anche in ragione della diversità di trattamento ratione temporis richiama gli argomenti già utilizzati nella sentenza 194/2018

Licenziamento collettivo JA. Infondatezza della questione di legittimità per violazione della delega

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, censurati, sotto il profilo dell'inadeguata tutela, per violazione degli artt. 3,4,35,38,41 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 Carta sociale europea, nella parte in cui hanno modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell'ambito di un licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato per legge ed escludendo quella reintegratoria. Il limite massimo di ventiquattro mensilità, a maggior ragione dopo che il d.l. n. 87 del 2018, come convertito, lo ha elevato a trentasei mensilità, non si pone in contrasto con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. La dissuasività della disciplina dell'illegittimità dei licenziamenti e l'adeguatezza del ristoro vanno valutate con riferimento alla regolamentazione complessiva, articolata nella tutela reintegratoria e in quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità che vede la tutela reintegratoria nei casi di violazioni più gravi e quella solo indennitaria negli altri. Anche la fissazione di un limite massimo dell'indennizzo risponde, del resto, alla ragione di fondo della legge delega di incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento illegittimo. La personalizzazione del ristoro resta in ogni caso garantita entro l'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, e comunque l'indennità, pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni derivanti dal licenziamento ingiurioso. Quanto all'evocato art. 24 CSE, l'adeguatezza e la dissuasività della normativa di contrasto dei licenziamenti illegittimi deve essere valutata con riferimento alla disciplina complessiva, che si compone della tutela reintegratoria e di quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità. Non è ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà del diverso trattamento sanzionatorio previsto per gli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. Nel limitare l'area del regime della reintegrazione ben poteva il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, conservare questa tutela per i lavoratori che, in quanto in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, già ne fruissero e limitare l'innovazione normativa ai nuovi assunti, che tale garanzia non avevano, con la finalità perseguita di incentivarne l'occupazione, soprattutto giovanile, o la fuoriuscita dal precariato (ad esempio, con la trasformazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato). Inoltre, il dubbio che rimedi diversi dalla reintegra siano inidonei ad assicurare una piena ed efficace tutela ai lavoratori arbitrariamente licenziati ed assunti dopo il 7 marzo 2015 è contraddetto dalla costante giurisprudenza costituzionale che, pur segnalando che la garanzia del diritto al lavoro impone l'adozione di temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela reale solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro, spettando al legislatore modulare il sistema delle tutele nell'esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua, in considerazione del contesto economico e sociale di riferimento. L'interpretazione letterale e sistematica, da una parte, e il necessario completamento di disciplina intrinseco al potere legislativo delegato per assicurare la coerenza complessiva della normativa risultante, dall'altra, consentono di affermare che l'estensione della soppressione della tutela reintegratoria anche ai licenziamenti collettivi — «economici» perché per “ragioni d'impresa” — oltre che a quelli individuali — «economici» perché per giustificato motivo oggettivo — può farsi rientrare nel criterio di delega, che faceva riferimento ai «licenziamenti economici». Il criterio di quantificazione dell'indennizzo è conforme al canone di adeguatezza del risarcimento da licenziamento illegittimo, sicché va escluso che il legislatore delegato abbia violato la delega ponendosi in contrasto con il parametro interposto. Infatti, non essendovi un'esigenza costituzionale che reclami la reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo la tutela essere anche indennitaria di natura compensativa, l'adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo)

Sulla base di una riflessione sul concetto di licenziamento economico esclude la violazione della legge di delega e da continuità alla sentenza n.  254, sollevata dalla medesima corte d'appello, a suo

tempo dichiarata inammissibile, in questo correggendo il tiro, ma approdando  

allo stesso risultato di ritenere comunque complessivamente legittima  la disciplina del JA sui licenziamenti collettivi: l'esclusione  da parte del JA della reintegra per violazione della disciplina sui licenziamenti collettivi (criteri di scelta ma anche procedura) viene considerata legittima

8. Sentenza

22/2024

Barbera

Amoroso

Corte di Cass., Sez. Lavoro

Giudice Guido Raimondi, Presidente;

Giudice Margherita Maria Leone, consigliere;

Giudice Fabrizia Garri, consigliere;

Giudice Antonella Pagetta, consigliere;

Giudice Gualtiero Michelini, consigliere rel.

Fonte G.U.

art. 2, comma 1, d.lg. 4 marzo 2015, n. 23 (tutele crescenti)

Sentenza di accoglimento parziale testuale

La Corte costituzionale ha osservato che il criterio direttivo aveva segnato il perimetro della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, escludendola, in negativo, per i licenziamenti “economici”, e prevedendola, in positivo, nei casi di licenziamenti nulli, discriminatori e di specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare. Il testuale riferimento ai “licenziamenti nulli”, contenuto nel criterio direttivo, non prevedeva la distinzione tra nullità espresse e nullità non espresse, ma contemplava una distinzione soltanto per i licenziamenti disciplinari ingiustificati. Il legislatore delegato, al contrario, ha introdotto una distinzione non solo per questi ultimi, ma anche nell'ambito dei casi di nullità previsti dalla legge, differenziando secondo il carattere espresso (e quindi testuale), o no, della nullità. Inoltre, prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa, ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie “escluse”, ossia quelle di licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante. Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola «espressamente», consegue che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l'espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti

Illegittimità costituzionale   JA

limitatamente allo avverbio “espressamente” riferito a nullità

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, d.lg. 4 marzo 2015, n. 23  limitatamente alla parola "espressamente", dovendosi ritenere tale disposizione illegittima nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria, nei casi di nullità, previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l'ha limitata alle nullità sancite "espressamente". o, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti. Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola "espressamente", consegue che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l'espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto

Massima 45966: “È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 76 Cost., l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parola «espressamente». La disposizione censurata dalla Corte di cassazione, sez. lavoro, nell'individuare il regime sanzionatorio per i licenziamenti nulli, limita la tutela reintegratoria ai casi di nullità «espressamente previsti dalla legge», così violando il criterio di delega dettato dall'art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183 del 2014, (c.d. Jobs Act), che, demandando al Governo la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, dispone la limitazione del diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, senza una ulteriore limitazione ai casi di nullità “espressamente” prevista. In tal modo la tutela rappresentata dalla reintegrazione del lavoratore assunto a partire dal 7 marzo 2015 e poi illegittimamente licenziato, è stata limitata alle sole nullità testuali, con esclusione di quelle virtuali. Al contrario, muovendo innanzi tutto dall'interpretazione della legge di delega, rileva che nella “lettera” dell'indicato criterio direttivo manchi del tutto la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l'espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione, con un inedito ribaltamento della regola civilistica dell'art. 1418, primo comma, cod. civ., che prevede la nullità come sanzione della violazione di norme imperative e la esclude qualora si rinvenga una legge che disponga diversamente; considerazioni convergenti sovvengono anche dal punto di vista dell'interpretazione sistematica. Per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l'espressa e testuale sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque salvo che la legge disponga diversamente. Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti. Va infine ribadito che spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni dalla Corte costituzionale, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari)”

Fonte Corte cost.

Rafforza il sistema rimediale in ipotesi di licenziamento nullo unificando, sotto

il profilo delle conseguenze, la nullità testuale (espressamente previsto dalla legge) e la nullità virtuale (non espressamente prevista dalla legge) ma in quanto tale deducibile dal sistema.

9. sentenza 44/2024

Barbera

Amoroso

Tribunale ordinario di Lecce

 art. 1, comma 3, d.lg. 4 marzo 2015, n. 23 ( Jobs Act tutele crescenti) contrasto con art. 76 cost. eccesso di delega

Sentenza di non fondatezza

Con la sentenza n. 44/2024, la Corte Costituzionale afferma che non è incostituzionale l'applicazione del contratto a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati nelle piccole imprese, prevista dal Jobs Act.

Viene  dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che consente l'attrazione nell'ambito applicativo del regime delle tutele crescenti anche di lavoratori di piccole imprese, già in servizio alla data del 7 marzo 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, successive all'entrata in vigore dello stesso decreto, che abbiano comportato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall'art. 18, commi ottavo e nono, statuto dei lavoratori.

Fonte AGI

JA  Jobs act,  non fondata la questione ddi illegittimità della disciplina che prevede l'applicazione del contratto a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati in piccole imprese

Vanno dichiarate non fondate le q.l.c. dell'art. 1, comma 3, d.lg. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), che consente l'attrazione nell'ambito applicativo del regime delle tutele crescenti anche di lavoratori di piccole imprese, già in servizio alla data del 7 marzo 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, successive all'entrata in vigore dello stesso decreto, che abbiano comportato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall'art. 18, commi 8 e 9, st. lav.

Tutele crescenti anche per i vecchi dipendenti di piccole imprese, che raggiungono il requisito dimensionale solo dopo il D. Lgs. n. 23/15.

l'ultima disciplina applicabile ai licenziamenti (D. Lgs. n. 23/2015, c.d. Jobs Act) riguarda le nuove assunzioni, a partire dal 7 marzo 2015, con contratto a tutele crescenti, come del resto previsto dalla legge delega del 2014 (n. 183). Ma l'art. 1, 3° comma di tale decreto delegato prevede che si applichi anche ai dipendenti assunti, prima della data indicata, da imprese che raggiungano il requisito dimensionale per l'applicazione delle tutele rafforzate (in particolare quella reintegratoria) solo dopo tale data. Da qui la questione di legittimità costituzionale di questa ultima norma per contrasto con la legge delega, sollevata nel giudizio, in cui un lavoratore, assunto nel 2011 e licenziato per giustificato motivo oggettivo nel luglio 2022, aveva chiesto l'applicazione del più favorevole art. 18 S.L., come modificato dalla legge n. 92 del 2012, mentre la datrice di lavoro, che aveva raggiunto il requisito dimensionale solo dopo il 7 marzo 2015, invocava l'applicabilità del decreto n. 23/15. La Corte, valorizzando lo scopo complessivo perseguito dal legislatore delegante di rafforzare le possibilità di ingresso soprattutto dei giovani nel mondo del lavoro e di superare il precariato di varie forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, salva in proposito il decreto delegato, col quale il legislatore avrebbe esercitato il potere di completamento della normativa delegata con la previsione (accanto alla regola di applicare la legge Fornero ai vecchi assunti di imprese col requisito dimensionale e di applicare il Jobs Act ai nuovi assunti) di una regola particolare per la speciale fattispecie qui considerata, comunque facendo salvo il principio di non svantaggiare alcun dipendente rispetto alla disciplina dei licenziamenti a lui applicabile prima del 7 marzo 2015.

10. Sentenza 128/2024

Barbera Amoroso

Trib. Ravenna

Giudice Bernardi

Fonte G.U.

articolo 3, comma 2, del Dlgs 4 marzo 2015 n. 23 (tutele crescenti)

Sentenza additiva

La Corte ha accolto le questioni sollevate in riferimento ai parametri di cui agli artt.

3, 4 e 35 Cost. rilevando che, seppure la ragione d'impresa posta a fondamento del

giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il

principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il “fatto materiale”

allegato dal datore di lavoro sia “sussistente”, sicché la radicale irrilevanza

dell'insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina un

difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla

parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

La discrezionalità del legislatore nell'individuare le conseguenze dell'illegittimità del

licenziamento non si estende, infatti, fino a consentire di rimettere questa alternativa

ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un

“fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo

oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.

Incostuzionalità JA giustificato motivo oggettivo e reintegra attenuata per  insussistenza del fatto

illegittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 2, del Dlgs 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage).

Armonizza (eliminando la asimmetria regolativa) il regime di tutela della legge Fornero e del JA con riguardo alla insussistenza del fatto materiale allegato

 dal datore di lavoro  nel gmo  (ragioni inerenti all'attività produttiva,

 all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa). Dalla valutazione di insussistenza rimane esclusa ogni valutazione sull'obbligo di repêchage la cui violazione dà luogo soltanto all'indennizzo nella misura prevista dalla legge.

Precisa  a Corte che il vizio di illegittimità costituzionale non si

riproduce qualora il fatto materiale, allegato come ragione d'impresa, sussiste

 sì, ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata deve tener fuori la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa,

non diversamente da come la valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore è stata tenuta fuori dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente.

Quindi, la violazione dell'obbligo di repêchage attiverà la tutela indennitaria

 di cui al comma 1 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Fonte Wikilabour

11. Sentenza 129/2024

Barbera

Amoroso

Trib. Catania

giudice Fiorentino

Fonte G.U.

comma 2 dell'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 (tutele crescenti)

Sentenza interpretativa di rigetto

La Corte, pur ritenendo complessivamente infondate le questioni sollevate in

riferimento a plurimi parametri, ha fornito una interpretazione adeguatrice della

disposizione censurata orientata alla conformità all'art. 39 Cost.

Premesso che la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l'applicabilità

del canone generale della proporzionalità, secondo cui l'inadempimento del

lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere

definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto, la Corte

ha ribadito la valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività dell'apparato

complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo contenuto nel d.lgs.

n. 23 del 2015, come novellato dal d.l. n. 87 del 2018 ed emendato dalle sue

precedenti pronunce, anche in riferimento alle ipotesi in cui il licenziamento

disciplinare risulti “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore

per le quali è prevista la tutela indennitaria. Quanto, però, alla prospettata violazione dell'art. 39, la Corte ha affermato che la

disposizione censurata deve essere letta nel senso che il riferimento alla

proporzionalità del licenziamento ha sì una portata ampia, tale da comprendere le

ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento come clausola generale

ed elastica, ma non concerne anche le ipotesi in cui il fatto contestato sia in radice

inidoneo, per espressa pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, le

quali vanno invece equiparate a quelle dell'«insussistenza del fatto materiale».

La mancata previsione della reintegra quando il fatto contestato sia punito con una

sanzione solo conservativa dalla contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il

tradizionale ruolo di quest'ultima nella disciplina del rapporto.

Interpretativa di rigetto

Licenziamento disciplinare  JA proporzionalità sociale;   previsioni contrattuali tipizzate:

Riguardo all'articolo 3, comma 2, del Dlgs 4 marzo 2015 n. 23 la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione, sollevata in riferimento a un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un'interpretazione adeguatrice, cioè deve ammettersi la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative.

Per il tramite della decisione in esame, la Corte, con una interpretazione adeguatrice della norma oggetto in conformità all'art. 39 Cost.  (v. punto 9.2 e ss. del considerato in diritto). La disposizione deve essere interpretata nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all'ambito della tutela solo indennitaria del licenziamento illegittimo, ha sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, come clausola generale ed elastica, non diversamente dalla legge, allorché questa richiede che il licenziamento si fondi su una giusta causa o un giustificato motivo e ne definisce la nozione. Essa non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. In tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell'«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata.

Per un approfondimento sulla recente sentenza della Corte cost. n. 128/2024 si veda l'intervista al Pres. Vincenzo Di Cerbo, Prof. Arturo Maresca e Prof. Valerio Speziale,  Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la sentenza 128/2024 della Corte costituzionale,  su avvocati.it:

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