Fallimento omisso medio e valore del credito ai fini dell’istanza di ammissione al passivo
31 Ottobre 2024
Massime L'imprenditore che non sia in grado di adempiere la proposta di concordato preventivo nei termini fissati nel decreto di omologazione può essere dichiarato fallito anche in mancanza di una domanda di risoluzione del concordato ex art. 186 l.fall. In caso di fallimento omisso medio dell'imprenditore concordatario, il creditore istante ha diritto di richiedere l'ammissione al passivo sulla base dell'originario valore del credito e non dell'importo ristrutturato per effetto dell'omologazione. Il caso Il Tribunale di SuImona, su istanza di una società cessionaria di un credito bancario, dichiarava il fallimento di un’impresa ammessa al concordato preventivo, poi omologato ai sensi di legge, pur in mancanza di una domanda da parte dei creditori finalizzata alla risoluzione della procedura non adempiuta. Il foro abruzzese fondava la propria decisione sulla rilevata inerzia da parte della società proponente nell’attuare la proposta concordataria ed il sottostante piano liquidatorio, con conseguente mancato soddisfacimento del ceto creditorio. Nel caso in esame, i beni aziendali destinati al soddisfacimento dei creditori, rappresentati da cespiti immobiliari, erano rimasti invenduti, con progressiva loro svalutazione: ciò avrebbe consentito solo il soddisfacimento parziale del ceto privilegiato e, verosimilmente, nullo nella prospettiva del ceto chirografario. Il Tribunale di Sulmona valutava come non rilevanti le cause sottostanti alla mancata esecuzione del concordato, ritenendo, fra l’altro, che la proroga di sei mesi prevista dalla normativa emergenziale per l’esecuzione del piano non avrebbe comunque consentito la compiuta liquidazione dei beni e, dunque, il soddisfacimento dei creditori, stante la crisi derivante dall’emergenza epidemiologica. La Corte d’Appello de L'Aquila, accogliendo il reclamo proposto dalla società debitrice avverso la sentenza di fallimento, riformava la sentenza di primo grado, rilevando l’inammissibilità dell'originaria istanza di apertura della procedura concorsuale maggiore. Ciò sul presupposto che il vincolo assunto dalla proponente nei confronti dei propri creditori permanga sino a quando il concordato preventivo sia in corso di esecuzione, attesa la natura “contrattuale” degli obblighi concordatari. I creditori non potrebbero così promuovere il fallimento del debitore in pendenza dei termini per l'esecuzione del piano se non facendo valere il credito nella misura ristrutturata; al pari, la valutazione dello stato d'insolvenza dovrebbe essere effettuata tenuto conto della misura delle stesse obbligazioni ristrutturate per effetto dell’omologa, nel rispetto dei termini previsti per il loro adempimento. Secondo la Corte abruzzese, la dichiarazione di fallimento non può fondarsi su un’insolvenza prospettica, legata a possibili inadempimenti di debiti concordatari non scaduti, come tali suscettibili di essere ancora onorati, peraltro nel più ampio arco temporale di cui alla normativa emergenziale. In sede di giudizio di legittimità, la Cassazione accoglieva il ricorso presentato dalla curatela avverso la sentenza d’appello, riconoscendo la legittimazione del creditore “insoddisfatto” a richiedere il fallimento della proponente sulla base dell’originario valore del credito, non già dell’importo ristrutturato. La Suprema Corte, al pari, valutati gli esiti negativi dell’attività liquidatoria post omologa, attribuiva determinante rilevanza all’obiettiva impossibilità da parte del proponente, anche in via prospettica, di adempiere le obbligazioni previste dalla proposta concordataria, così come cristallizzate nel decreto di omologazione del concordato. La questione Considerazioni preliminari Ai sensi dell'art. 184 l. fall., il concordato preventivo omologato è obbligatorio rispetto a tutti i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso (conservando, peraltro, impregiudicati, i creditori, i propri diritti nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso). Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite, con l'omologazione del concordato, l'insolvenza del debitore si cristallizza sulla base di quanto previsto, in via ristrutturatoria, nella proposta, in funzione delle modalità satisfattive ivi contemplate (Cass. civ, sez. un., 14 febbraio 2022, n. 4696). Purtuttavia, secondo le stesse Sezioni Unite, resta impregiudicata la possibilità da parte del tribunale di dar corso al procedimento volto a dichiarare il fallimento qualora le previsioni concordatarie, in corso di esecuzione, risultino obiettivamente inattuabili, sì da ritenere che lo stato d'insolvenza permanga pur dopo la vicenda concordataria. Se dunque, sotto il profilo giuridico, l'insolvenza viene rimossa per effetto dell'omologazione, restano pur sempre applicabili, all'ambito del concordato, i princìpi generali in punto di responsabilità contrattuale, ivi compresa, in caso di mancata esecuzione della proposta - “riemergendo”, in tale ipotesi, l'originario stato d'insolvenza -, la dichiarazione di fallimento. Con il sopravvenire dell'inadempimento, non si verificherebbe, pertanto, una “seconda” insolvenza: a riemergere sarebbe, infatti, l'originaria impossibilità di adempiere le obbligazioni che aveva legittimato - sul versante del presupposto oggettivo - l'apertura della procedura concordataria (si veda sul punto Cass. Civ. sez. I, 6 giugno 2024, n. 15859, con commento di A. Tavella, G. Battaglia, C. Cardani, recentemente pubblicato). Quanto sopra, tenuto conto che l'omologazione del concordato preventivo non comporterebbe, di per sé, effetti novativi rispetto alle obbligazioni sorte ante ricorso, quanto, piuttosto, il diverso - e più circoscritto - effetto di determinare una situazione di parziale inesigibilità del credito. In questo quadro, la Corte di cassazione, con la sentenza qui annotata, ha rilevato come l'applicazione dei princìpi sopra indicati conduca a ritenere che la legittimazione a richiedere l'apertura del fallimento, omisso medio (ovvero in mancanza di una domanda di risoluzione del concordato inadempiuto), risieda nella qualità, in sé, di creditore in capo all'istante, indipendentemente dall'entità del proprio credito. A nulla, del resto, rileva che il fallimento intervenga prima del decorso dei termini previsti per l'adempimento delle obbligazioni ristrutturate, laddove la funzione satisfattiva del concordato sia venuta meno a causa dell'accertata, sopravvenuta impossibilità di attuare le previsioni secondo quanto previsto nel decreto di omologazione. Le questioni affrontate Prima della riforma degli anni 2006-2007, in base all'art. 186 l. fall., il tribunale, anche su iniziativa del commissario giudiziale, procedeva d'ufficio a risolvere il concordato - ed insieme ad aprire il fallimento -, in caso d'inadempimento (non di scarsa importanza) da parte del proponente. La Corte Costituzionale, nel vigore di tale norma, aveva riconosciuto la legittimità di un'interpretazione volta a consentire l'apertura del fallimento anche ove il concordato omologato non fosse stato anteriormente risolto (C. Cost., 2 aprile 2004, n. 106). Peraltro, nel caso trattato dalla Consulta, la vicenda traeva origine da un'istanza di fallimento presentata, oltre i termini di legge, da un creditore concorsuale “pretermesso”, ovvero che non era stato debitamente notiziato dell'apertura della procedura concordataria. Il d.lgs. n. 169/2007, ha ritrascritto l'art. 186 l. fall., prevedendo che il concordato non adempiuto possa essere risolto solo su iniziativa di uno o più creditori, con ricorso da proporsi sempre entro l'anno dal termine previsto per l'ultimo adempimento. Secondo l'originaria, prevalente giurisprudenza di merito, il “nuovo” art. 186 l. fall. non ha precluso la possibilità di aprire il fallimento in mancanza di una presupposta istanza di risoluzione del concordato inadempiuto (si vedano, fra le altre, Trib. Venezia, 6 novembre 2015; Trib. Napoli Nord, 29 aprile 2016; Trib. Torino, 26 luglio 2016; Trib. Treviso, 10 gennaio 2017; contra, peraltro, Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017; Trib. Campobasso, 14 febbraio 2019; App. Firenze, 16 maggio 2019). Le prime sentenze emesse, sull'argomento, dalla Corte di Cassazione hanno riconosciuto la possibilità, per il foro concorsuale, di procedere con l'apertura del fallimento nei confronti del debitore anche in mancanza di una preliminare istanza di risoluzione del concordato preventivo omologato, ma non adempiuto. Quanto sopra, peraltro, nella circoscritta ipotesi in cui i creditori “insoddisfatti” abbiano agito per il fallimento in base non già all'originario valore del credito, bensì, all'importo ristrutturato per effetto dell'omologazione della proposta, in punto di quantum e/o quando (cfr. Cass. civ., sez. VI, 17 luglio 2017, n. 17703; Cass. civ., sez. VI, 11 dicembre 2017, n. 29632; Cass. civ., sez. I, 17 ottobre 2018, n. 26002). D'altra parte, il debitore continua ad essere obbligato all'adempimento del concordato preventivo anche quando sia decorso il termine previsto per la proposizione dell'istanza di risoluzione della procedura, così come quando tale istanza, ove ritualmente proposta, sia stata rigettata dal tribunale. Si verificherebbe, cioè, un inadempimento “sopravvenuto", in sé autonomamente rilevante ai fini dell'apertura del fallimento ad opera dei creditori concorsuali, del PM, ma anche di “nuovi” creditori, in questo caso, peraltro, per titoli sorti post omologa, in base al valore nominale del credito (in questo senso, si veda Cass. civ., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9935). Venuto meno, con l'omologazione - che determina la “chiusura” del procedimentoex art. 181 l. fall. -, il divieto di azioni pregiudizievoli, ai sensi dell'art. 168, comma 1, l. fall., l'inadempimento consentirebbe la presentazione di nuove istanze di fallimento anche ad opera dei creditori concorsuali, neutralizzando, l'omologazione, le sole istanze pendenti in costanza di procedura. Le Sezioni unite, con la ricordata pronunzia n. 4696/2022, rilevando come con l'inadempimento “riaffiori” l'originario stato d'insolvenza del proponente, ha ritenuto che la risoluzione del concordato preventivo operi non tanto quale condizione di fallibilità del debitore, ma - piuttosto - quale mezzo idoneo a sciogliere il vincolo di obbligatorietà di cui alla proposta omologata, «allo scopo di restituire al creditore anteriore la libertà di agire senza limiti concordatari, e per l'intero». Osservazioni La “compressione” della legittimazione attiva ad instare per la risoluzione introdotta, all'interno dell'art. 186 l. fall., dal d.lgs. n. 169/2007, ha fatto sì che, nella prassi, molti concordati omologati, e poi non adempiuti, siano languiti - e tuttora languiscano - ben oltre l'anno dall'ultimo pagamento previsto, per inerzia (non sempre, invero, inconsapevole, soppesati i costi/benefici del correlato accertamento giudiziario) da parte dei creditori sociali. È, dunque, in questo quadro che si innesta - vista la rilevanza pubblicistica degli interessi in gioco - l'orientamento di parte prevalente della giurisprudenza di merito, ed invero consolidato della giurisprudenza di legittimità, volto a riconoscere la possibilità di dichiarare il fallimento nei confronti dell'inadempiente (anche solo in via previsionale), pur in assenza di una preordinata istanza di risoluzione del concordato, ex art. 6 l. fall. In un primo momento, la Cassazione, nel riconoscere la legittimità del fallimento omisso medio, inutilmente decorso l'anno dalla data prevista per l'ultimo adempimento, ha circoscritto tale possibilità all'ipotesi in cui i creditori istanti abbiano agito non in base all'originario valore del credito, bensì all'importo definito dal vincolo concordatario, per effetto dell'omologazione della proposta (sul punto, si veda, anche, Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2020, n. 12085). Tale orientamento trova fondamento nell'art. 168, comma 1, l. fall. là dove si prevede, con una lettura a contrariis, che dal momento in cui l'omologazione divenga definitiva, i creditori per titolo/causa anteriore alla pubblicazione del ricorso, possono iniziare ovvero proseguire azioni esecutive/cautelari sul patrimonio del debitore. In questo caso, la legittimità del fallimento - evidentemente assimilato, in una prospettiva “collettiva” (ma che pur forza gli effetti di segregazione ex art. 184 l. fall.) alle “azioni esecutive o cautelari” di cui all'art. 168, comma 1, l. fall. - sta nell'emersione in capo al proponente di un'insolvenza legata alla impossibilità di onorare le obbligazioni “ristrutturate”, vuoi in punto di quantum (falcidia del credito), vuoi in punto di quando (tempi di adempimento). In un secondo momento, come visto, le Sezioni Unite, sul presupposto che con l'inadempimento “riaffiori” l'originaria insolvenza del proponente, ha riconosciuto il diritto dei creditori concorsuali d'insinuare il proprio credito nel fallimento, dichiarato omisso medio, secondo l'importo che constava al momento dell'ammissione al concorso, indipendentemente dalla misura della falcidia. Tale orientamento presuppone il potere del tribunale di dichiarare il fallimento:
Ma, in realtà, la norma ex art. 186 l. fall. pare porsi in una prospettiva di specialità rispetto alla norma (generale) di cui all'art. 6 l. fall., quest'ultima operando, in mancanza di disposizioni di raccordo fra procedure (come avviene, ad es., per l'inammissibilità della proposta ex art. 162, comma 2, l. fall., ovvero per la revoca del concordato, ex art. 173, comma 2, l. fall), solo anteriormente all'instaurarsi di un procedimento concorsuale alternativo al fallimento. Né, d'altra parte, rileverebbe il richiamo fatto, nei limiti di compatibilità, all'art. 137 l. fall. (in tema di concordato fallimentare), ad opera dell'art. 186, ultimo comma, l. fall. Il citato art. 137, al terzo comma, prevede che la sentenza che risolve il concordato fallimentare riapra il fallimento del debitore. Tale norma assicura un raccordo fra diversi procedimenti, onde permettere al tribunale, una volta accertata la risoluzione del concordato, di riaprire, con lo stesso provvedimento, il fallimento. L'art. 137 presuppone che vi sia un giudizio volto a verificare l'inadempimento del concordato fallimentare: il richiamo che fa, a tale norma, l'art. 186, ultimo comma, l. fall. pare dunque poter operare solo nell'ambito di un presupposto giudizio di risoluzione del concordato preventivo, ed in “consecuzione” dello stesso, non già in via “autonoma”. Il richiamo all'art. 137 l. fall. non legittimerebbe, pertanto, l'apertura diretta del fallimento nei confronti del proponente in pendenza di una – non risolta e, dunque, operante – fase esecutiva del concordato. Da ultimo, corrobora, in via interpretativa, l'orientamento che ritiene non condivisibili le ragioni di cui agli ultimi citati arresti della giurisprudenza di legittimità, la norma di cui all'art. 119, comma 7, c.c.i.i. (per quanto la riforma codicistica operi con riferimento, esclusivamente, alle “nuove” procedure). Il citato art. 119, che ricalca - nella struttura generale - il “vecchio” art. 186 l. fall., al settimo comma, prevede - adesso espressamente - che il tribunale proceda all'apertura della liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, a meno che lo stato d'insolvenza non sia riconducibile ad obbligazioni sorte dopo la domanda di apertura del concordato preventivo. |