Novità in materia di imposta di successione e donazione
Gabriele Mercanti
06 Novembre 2024
L’intreccio tra profili fiscali e civilistici è sempre più presente nella regolamentazione della fattispecie giuridica sia a livello interpretativo, stante l’osmosi ermeneutica inevitabile nell’integrazione dei due comparti, sia nella tecnica redazionale, poiché è fisiologico che il contribuente nella costruzione della propria vicenda negoziale tenga presente anche l’impatto tributario che ne può derivare. In questa chiave è stata approvata la riforma fiscale di cui al d.lgs. 18 settembre 2024, n. 139 che è intervenuta, talvolta in chiave chiarificatrice di controversi punti interpretativi, talaltra con strumentazione inedita, sulla tassazione indiretta di successioni, donazioni, trust e patti di famiglia. Nel presente contributo si è cercato di effettuare una panoramica delle novità di maggiore incidenza pratica nella prassi operativa.
Premessa
Nella Gazzetta Ufficiale n. 231 del 2 ottobre 2024 è stato pubblicato il d.lgs. 18 settembre 2024, n. 139 (di qui in seguito, riforma fiscale) relativo alle disposizioni per la razionalizzazione dell'imposta di registro, dell'imposta sulle successioni e donazioni, dell'imposta di bollo e degli altri tributi indiretti diversi dall'IVA: esso costituisce attuazione della legge delega sulla riforma fiscale (l. 9 agosto 2023, n. 111) che, in particolare, all'art. 10 aveva delegato il Governo a seguire alcuni principi e così: la razionalizzazione della disciplina dei singoli tributi, anche mediante l'accorpamento o la soppressione di fattispecie imponibili ovvero mediante la revisione della base imponibile o della misura dell'imposta applicabili; la previsione del sistema di autoliquidazione per l'imposta sulle successioni.
Il provvedimento, seppur entrato in vigore il 3 ottobre 2024, è – però – munito di un'importante norma transitoria: l'art. 9, comma 3, prevede, infatti, che le nuove disposizioni abbiano effetto a partire dall'1° gennaio 2025 e che, conseguentemente, si applichino agli atti pubblici formati, agli atti giudiziari pubblicati o emanati, alle scritture private autenticate o presentate per la registrazione a partire da tale data, nonché alle successioni aperte e agli atti a titolo gratuito fatti a partire da tale data.
Varie ed eterogenee sono le misure adottate dal legislatore, pertanto ci si soffermerà in questo contributo su quelle di maggior impatto per la fiscalità indiretta delle fattispecie a titolo gratuito.
Imposta di successione
Per quanto riguarda l'ammontare dell'imposta di successione, la riforma fiscale non ha modificato l'impianto del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (di qui in seguito, t.u.i.s.) che, quindi, rimane strutturato secondo una logica di aliquote e franchigie differenziate in base all'ammontare dell'asse ereditario e del rapporto che lega il defunto con gli eredi e così: a) per le successioni a favore del coniuge e dei parenti in linea retta, l'aliquota è del 4%, ma con una franchigia di euro 1.000.000,00 per ogni beneficiario; b) per le successioni a favore di fratelli e sorelle, l'aliquota è del 6%, ma con una franchigia di euro 100.000,00 per ogni beneficiario; c) per le successioni a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado, l'aliquota è del 6%, ma senza franchigia; d) per le successioni a favore di ogni altro soggetto, l'aliquota è dell'8%, ma senza franchigia; e) in ogni caso – e, quindi, a prescindere dal rapporto tra defunto ed erede – se quest'ultimo è portatore di handicap riconosciuto come grave ai sensi della l. 5 febbraio 1992, n. 104, l'imposta di successione – secondo le aliquote di cui sopra – si applica solo sul valore che eccede euro 1.500.000,00. Nella conferma dell'impostazione previgente il legislatore ha solamente “compattato” il quadro normativo, ora contenuto integralmente negli attuali articoli 7 (per quanto attiene all'imposta di successione) e 56 (per quanto attiene all'imposta di donazione) t.u.i.s. senza rimando – come, invece, avveniva in passato – a richiami legislativi esterni.
Nulla è mutato, inoltre, sulla determinazione dell'oggetto suscettibile di imposizione nè sui criteri di determinazione della base imponibile.
Diversa è, invece, la modalità di pagamento: secondo l'art. 27 t.u.i.s. l'imposta di successione era liquidata dalla competente Agenzia delle Entrate sulla base della dichiarazione di successione predisposta dal contribuente (o rettificata dall'Agenzia delle Entrate medesima ove reputata incompleta e/o infedele) che, una volta notificatogli il relativo avviso, era tenuto ad effettuarne il pagamento entro i successivi 60 giorni. Con la riforma fiscale, invece, si passa – similmente quanto già avviene per il versamento delle imposte ipotecarie e catastali – ad un sistema di autoliquidazione: ai sensi del riformato art. 33 t.u.i.s., infatti, l'imposta deve essere liquidata non più dall'erario bensì dai soggetti obbligati al pagamento in base alla dichiarazione di successione, il tutto entro 90 giorni dal termine di presentazione della dichiarazione stessa (che resta, però, fissato in un anno dal giorno del decesso). Il nuovo art. 37 t.u.i.s. prevede, poi, che il contribuente debba eseguire il pagamento dell'imposta – come detto autoliquidata – sempre entro novanta giorni dal termine di presentazione della dichiarazione di successione; grazie all'art. 38 t.u.i.s., però, il contribuente potrà eseguire il pagamento dell'imposta nella misura non inferiore al 20% entro 90 giorni e, per il rimanente importo, in 8 rate trimestrali, oppure se si tratta di importi superiori a 20 mila euro, in massimo dodici rate trimestrali (non essendo però ammissibile dilazionare importi inferiori a 1000 euro). Il pagamento delle somme in questione dovrà essere effettuato secondo modalità stabilite con un emanando provvedimento da parte del Direttore dell'Agenzia delle Entrate.
Con questa metodologia, già valevole per le imposte ipo-catastali tranne che per il momento del loro pagamento che per queste è anticipato al momento della presentazione della dichiarazione di successione, graverà sul contribuente il non sempre agevole compito di tenere conto di tutti i parametri afferenti l'esatta quantificazione dell'imposta, mentre sarà successivo onere dell'Agenzia delle Entrate quello di accertarne l'esattezza e/o la veridicità; in tal caso l'Agenzia delle Entrate dovrà effettuare (entro due anni dal giorno di registrazione della dichiarazione di successione) la notifica di un avviso di liquidazione cui dovrà seguire, entro 60 giorni, il pagamento della maggiore imposta pretesa dall'ufficio unitamente a una sanzione amministrativa.
Indirettamente collegato con il tema della dichiarazione di successione vi è anche la semplificazione di cui all'aggiunto comma 4-bis all'art. 48 t.u.i.s. – per effetto dell'art. 1 comma 1 lettera ss), della riforma fiscale – in base al quale gli istituti di credito ed i soggetti assimilati debbono procedere allo svincolo delle attività cadute in successione e dai medesimi detenute, senza aver prova della presentazione della dichiarazione di successione (come, invece, è la regola generale), allorchè ricorrano cumulativamente le seguenti condizioni: a) nell'attivo ereditario ci siano immobili; b) il richiedente sia l'unico erede e di età non superiore a ventisei anni; c) l'importo da svincolare corrisponda a quanto dovuto per il versamento delle imposte catastali, ipotecarie e di bollo. Quanto sopra si pone come eccezione alla regola generale per la quale, invece, agli istituti di credito ed i soggetti assimilati è fatto divieto di procedere ad operazioni su quanto detenuto ove non sia stata data prova dell'avvenuta presentazione della dichiarazione di successione; tale eccezione è, evidentemente, sorretta dall'esigenza pratica di agevolare l'iter successorio perché, talvolta, può capitare che il contribuente necessiti di reperire proprio dall'asse ereditario la liquidità necessaria al pagamento delle imposte, ma ciò non è possibile, poiché – in un circolo vizioso – il pagamento delle stesse è la condizione per ottenere lo sblocco dei conti correnti, o più in generale delle liquidità finanziarie intestate al defunto. Si attende un emanando provvedimento da parte del Direttore dell'Agenzia delle Entrate che stabilisca le modalità attuative della procedura sopra esposta.
Patto di famiglia e passaggio generazionale dell'impresa in generale
Per incentivare il passaggio generazionale dell'impresa la legge finanziaria 2007 aveva aggiunto all'art. 3 t.u.i.s. un nuovo comma 4-ter volto a sterilizzare – per i trasferimenti effettuati anche (e, quindi, non solo) tramite i patti di famiglia, a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni – il pagamento dell'imposta. L'esenzione era subordinata alla condizione che gli aventi causa (dal defunto, dal donante o dal disponente a seconda della tipologia di trasferimento gratuito), rendendo all'uopo apposita dichiarazione contestuale alla dichiarazione di successione o all'atto di trasferimento (non essendo idoneo allo scopo un patto parasociale: Cass., sez. V, 10 marzo 2021, n. 6591), si impegnassero a proseguire l'esercizio dell'attività d'impresa ovvero a detenere il controllo della società per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento; tale distinzione nominale tra continuazione nell'esercizio piuttosto che nella detenzione del controllo, era dovuta al fatto che per le sole società di capitali era richiesto il requisito aggiuntivo che il trasferimento fosse relativo a partecipazioni mediante le quali fosse acquisito o integrato il controllo ai sensi dell'art. 2359, comma 1 n. 1), c.c..
La riforma fiscale, pur rispettando l'impianto sopra brevemente esposto, ha cercato di meglio parametrare i contorni per lo sfruttamento dell'esenzione: nel quadro previgente, infatti, si era formato un orientamento in base al quale presupposto implicito sancito dalla norma fosse che la società interessata esercitasse effettiva attività d'impresa (in tal senso la Risposta n. 552/221 dell'Agenzia delle Entrate – Divisione contribuenti, che si era pronunciata per l'assenza dell'esenzione per il trasferimento di partecipazioni di una holding motivandola con l'assunto che la norma richiedesse «la sussistenza di un'azienda di famiglia, intesa quale realtà imprenditoriale produttiva meritevole di essere tutelata anche nella fase del suo passaggio generazionale, anche per evitare una conseguente perdita dei posti di lavoro e ulteriori ripercussioni sul tessuto economico»; analogamente, Cass., sez. V, 28 febbraio 2023, n. 6082; lo stesso Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 120, in data 23 giugno 2013, sembrava circoscrivere l'agevolazione in commento alla necessità di sgravare fiscalmente il passaggio generazionale così da poter consentire il mantenimento del livello occupazionale).
Nella nuova versione della norma, invece, le varie ipotesi per fruire dell'esenzione sono trattate in modo del tutto autonomo, le une dalle altre e così: a) nel caso del trasferimento dell'azienda o di un suo ramo, il beneficio è subordinato a che gli aventi causa «proseguano l'esercizio dell'attività d'impresa» per almeno cinque anni; b) nel caso delle società di capitali, il beneficio è subordinato a che gli aventi causa «detengano il controllo» per almeno cinque anni; c) nel caso di altre partecipazioni (cioè, le società di persone), il beneficio è subordinato a che gli aventi causa «detengano la titolarità del diritto» per almeno cinque anni. Certamente la nuova formulazione della legge è più “pulita”, per cui pare più difficile la reiterazione del pregresso orientamento restrittivo formatosi su un testo in cui non era del tutto evidente la differenza di regolamentazione tra le differenti fattispecie. Sul punto non resta, però, che aspettare quale sarà l'orientamento di Giudici ed Agenzia delle Entrate.
Un secondo punto sul quale è intervenuta la riforma fiscale riguarda il concetto di integrazione del controllo, dato che l'originaria formulazione della norma faceva generico riferimento, quasi assimilandole, alle due nozioni di acquisto del controllo o integrazione dello stesso. In realtà, le due vicende sono concettualmente differenti, poiché con il primo si realizza una situazione in precedenza non sussistente, mentre con la seconda di modifica una situazione di per sé già sussistente. In tale contesto l'Agenzia delle Entrate (Risposte n. 497/221 e 72/2024 dell'Agenzia delle Entrate – Divisione contribuenti) ha sostenuto che di integrazione del controllo, come detto quale presupposto del regime di esenzione d'imposta, si potesse parlare solo quando il beneficiario, già socio di minoranza della società, avesse acquisito il controllo di diritto di cui al già citato art. 2359, comma 1 n. 1), c.c.; mentre, di converso, l'imposta sarebbe regolarmente dovuta allorquando il socio già controllante dovesse aver incrementato la propria percentuale in seno alla società. Oggi tale posizione non è più sostenibile in base al riformato comma 4-ter dell'art. 3 t.u.i.s. posto che viene fatto riferimento non solo all'acquisto del controllo, fattispecie che non destava perplessità ermeneutiche, ma anche al caso in cui viene «integrato un controllo già esistente». A questo punto, però, si pone un dubbio: posto che l'agevolazione compete ove la condizione prevista dalla norma permanga per almeno cinque anni, cosa accade se il contribuente nel quinquiennio dovesse cedere una partecipazione tale da consentirgli pur sempre il mantenimento del controllo ma non più “rafforzato”? Si pensi, esemplificando, a Tizio che trasferisce al figlio Caio, già titolare del 60% del capitale, un ulteriore 15%: con riforma tale acquisto è esente da imposta, in quanto consente di integrare un controllo già esistente; ebbene, dato che detto 15% è stato acquisito in esenzione da imposta, parrebbe logico sostenere che Caio decada dall'agevolazione non solo ove non dovesse avere più il controllo della società, ma anche dove dovesse perdere il solo controllo “rafforzato” (quindi, esemplificando, se questi dovesse cedere solo il 5% del capitale, decadrebbe – ovviamente parzialmente – anche se ancora titolare del 70%).
La riforma fiscale ha perso, invece, l'occasione per chiarire il trattamento tributario dell'attribuzione effettuata dal legittimario assegnatario dell'azienda o delle partecipazioni al legittimario non assegnatario: si pensi all'esempio classico del padre/madre che trasferisce, mediante un patto di famiglia, l'azienda (o le partecipazioni) ad un/a figlio/figlia che provvede a liquidare il/la fratello/sorella mediante una somma di denaro corrispondente al valore della quota di legittima. Ebbene, questo è l'attuale incerto quadro giurisprudenziale: se da un lato è disconosciuta l'esenzione dall'imposta in relazione alla liquidazione che, quindi, sarà soggetta alla “normale” imposta di donazione (Cass., sez. V, 17 giugno 2022, n. 19561; Cass., sez. V, 24 dicembre 2020, n. 29506), dall'altro si discute se tale imposta debba essere calcolata in una visione “unitaria” del fenomeno applicando l'aliquota e la franchigia relativa al legame in essere con l'imprenditore anche con riferimento alla liquidazione effettuata dall'assegnatario (Cass., sez. V, 17 giugno 2022, n. 19561; Cass., sez. V, 24 dicembre 2020, n. 29506; quindi, per rifarsi all'esempio di cui sopra, con l'aliquota del 4% tenuto conto di una franchigia di euro 1.000.000) ovvero se l'imposizione di tale “segmento” del patto di famiglia debba essere assoggettato all'imposta di donazione secondo il rapporto di parentela intercorrente tra assegnatario e non assegnatario (Cass., sez. V, 19 dicembre 2018, n. 32823; quindi, per rifarsi all'esempio di cui sopra, con l'aliquota del 6% tenuto conto di una franchigia di euro 100.000). Non paiono decisivi nell'affrontare la questione i documenti di prassi nei quali è genericamente affermato che la liquidazione è soggetta alla “normale” imposta di donazione, senza – dunque – esplicitare le specifiche aliquote e franchigie (Circ. n. 18/E in data 29 maggio 2013, par. 5.3.2; Circ. n. 3/E in data 22 gennaio 2008, par. 8.3.2).
Trust
Per comprendere la portata della riforma fiscale nel comparto del trust liberale (esulando dalla nuova normativa le altre tipologie) è indispensabile una breve disamina della tormentata evoluzione di tale settore partendo da una banale osservazione: fino alla riforma fiscale non è esistita una normativa che regolasse il trattamento tributario indiretto dell'atto di conferimento di beni in trust. In tale vuoto, allora, si è innestata la prassi amministrativa (su tutte: Circ. n. 3/E in data 22 gennaio 2008, par. 5.4. e seguenti; Circ. n. 48/E in data 6 agosto 2007) che ha fissato – in brutale sintesi – i seguenti principi ispiratori: a) tra i vincoli di destinazione, quelli sì regolati dal t.u.i.s., rientra anche la costituzione del trust; b) l'atto istitutivo del trust è privo di contenuto patrimoniale e, come tale, è da assoggettare all'imposta di registro in misura fissa ai sensi dell'articolo 11 della Tariffa – Parte I allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; c) nell'ipotesi di trust costituito nell'interesse di uno o più beneficiari finali, anche se non individuati, il cui rapporto di parentela con il disponente sia determinato, si applica l'imposta di donazione con riferimento al rapporto di parentela intercorrente tra il disponente ed il beneficiario e non a quello intercorrente tra il disponente ed il trustee; d) negli altri casi (così: trust costituito nell'interesse di soggetti che non sono legati al disponente da alcun vincolo di parentela; trust di scopo senza indicazione di beneficiario finale; trust costituito nell'interesse di soggetti genericamente indicati e non identificabili in relazione al grado di parentela) si applica l'imposta di donazione nella misura dell'8%; e) il prelievo si applica “in entrata”, cioè quando avviene la dotazione, essendo la vicenda caratterizzata da una causa unitaria; f) la devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati in trust non realizza un presupposto impositivo ulteriore cosicchè “in uscita” sono dovute le sole imposte in misura fissa. Quanto detto sopra, vale pedissequamente anche per le imposte ipotecarie e catastali ove l'operazione determini un trasferimento immobiliare e così telegraficamente: proporzionali “in entrata”, fisse “in uscita”.
Questo quadro ha nel tempo subito un'erosione da parte della giurisprudenza che, sconfessando la tesi dell'amministrazione finanziaria, ha “invertito” il meccanismo: è «in entrata» che sono dovute le sole imposte in misura fissa dato che la dotazione di beni e diritti in trust non integra di per sé un trasferimento imponibile, bensì rappresenta un atto generalmente neutro che non costituisce indice di capacità contributiva; al contrario, è «in uscita» che interviene il vero trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta secondo i dettami già sopra esposti. Le pronunce in tal senso sono diventate numerosissime (sul web si possono trovare “appassionati” della materia che ne hanno raccolte a centinaia) cosicchè la stessa Agenzia delle Entrate (Circ. n. 34/E in data 20 ottobre 2022, par. 4.3 e seguenti) si è “rassegnata”, anche per il quadro kafkiano in cui da anni l'erario contestava sistematicamente al contribuente il versamento delle imposte in misura fissa ed altrettanto sistematicamente risultava soccombente nel relativo contenzioso, affermando che l'atto di dotazione (cioè “in entrata”) sia da assoggettare a tassa fissa, mentre all'atto di trasferimento a favore dei beneficiari (cioè “in uscita”), determinando un arricchimento in capo ai medesimi, faccia scattare l'applicazione dell'imposta di donazione. Quanto detto sopra vale pedissequamente anche per le imposte ipotecarie e catastali ove l'operazione determini un trasferimento immobiliare e così telegraficamente: fisse “in entrata”, proporzionali “in uscita”.
Ebbene, con la riforma fiscale si aggiungono due tasselli.
Con il primo viene “ufficializzata” la tassazione dell'atto di dotazione in trust, in quanto: a) l'art. 1 t.u.i.s., come riscritto per effetto dell'art. 1, comma 1 lettera b) della riforma fiscale, sancisce che l'imposta sulle successioni e donazioni si applica anche ai «trasferimenti derivanti da trust»; b) il neo introdotto comma 2-bis all'art. 2 t.u.i.s., per effetto dell'art. 1, comma 1 lettera c) della riforma fiscale, prevede che per i trust l'imposta sia dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti ai beneficiari, qualora il disponente sia residente nello Stato al momento della separazione patrimoniale, mentre ove non lo sia che l'imposta sia dovuta limitatamente ai beni e diritti esistenti nel territorio dello Stato trasferiti al beneficiario; c) il neo introdotto art. 4-bis t.u.i.s., per effetto dell'art. 1, comma 1 lettera e) della riforma fiscale, dispone che la debenza dell'imposta scatti, di regola, al momento del trasferimento dei beni e diritti a favore dei beneficiari (cioè “in uscita”) e che franchigie e aliquote previste dall'art. 7 (per i trasferimenti a causa di morte) si applichino in base al rapporto tra disponente e beneficiario; d) l'art. 56 t.u.i.s., come riscritto per effetto dell'art. 1, comma 1 lettera zz) della riforma fiscale, riporta anche per i trasferimenti derivanti da trust i meccanismi di aliquote e franchigie valevoli per donazioni. La disciplina di settore è, quindi, finalmente di fonte legislativa e non attuata dall'Amministrazione Finanziaria.
Con il secondo, è scattata una bizzarra nostalgia per il passato. Il comma 3 del citato art. 4-bis t.u.i.s. dispone, infatti, la possibilità per il disponente del trust o per il trustee, in caso di trust testamentario, di «optare per la corresponsione dell'imposta in occasione di ciascun conferimento dei beni e dei diritti ovvero dell'apertura della successione»: in sostanza, in forza di apposita scelta, può essere applicato volta per volta il previgente regime di tassazione “in entrata” con conseguente assoggettamento a sola tassa fissa della devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati in trust (cioè “in uscita”). Non solo: il successivo comma 4 prevede che detto regime opzionale possa essere utilizzato anche con riferimento ai trust già istituiti con modalità da stabilirsi in forza di un emanando provvedimento da parte del Direttore dell'Agenzia delle Entrate. Il tanto vituperato sistema di tassazione “in entrata” può, quindi, rientrare in gioco al presumibile fine di “cristallizzare” il prelievo rendendolo insensibile a future modifiche legislative.
Di minore impatto sono, invece, le modifiche apportate all'articolo 28, comma 2, t.u.i.s. al fine di prevedere, per il caso di trust testamentario, che il trustee sia obbligato a presentare la dichiarazione di successione ed all'art. 55 t.u.i.s. al fine di aggiungervi un nuovo comma 1-bis grazie al quale tra gli atti soggetti a registrazione in termine fisso vi sono ora anche gli atti di istituzione e dotazione dei trust formati all'estero a favore di beneficiari in quel momento residenti nello Stato.
Liberalità non donative
Dovendosi dare per assodata in questa sede la nozione di liberalità non donativa, ricostruibile come qualsivoglia strumento tecnico-giuridico diverso dal formale contratto di donazione ma idoneo a raggiungere analogo risultato (un esempio su tutti: l'intestazione di beni in nome altrui che ricorre quando un soggetto, esemplificando, il genitore, paga al venditore il prezzo della compravendita immobiliare, ma – appunto per spirito di liberalità verso altro soggetto, solitamente il figlio, decide di non rendersi acquirente del bene, bensì di far intervenire al rogito notarile, quale acquirente), in termini generali ne è sempre stata sostenuta la rilevanza fiscale. Già chiaro è l'art. 1 del t.u.i.s. sia al comma 1 ove sancisce l'applicazione dell'imposta di donazione per i trasferimenti determinati da donazione o «altra liberalità tra vivi» sia al comma 4-bis ove nel dettare il peculiare regime di esenzione per determinate fattispecie afferma come resti l'applicazione dell'imposta «anche alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione»; nel medesimo senso si era espressa anche l'Amministrazione finanziaria (Circ. n. 30/E in data 11 agosto 2015, par. 1.2; Circ. n. 3/E in data 22 gennaio 2008, par. 2). Tale assunto è ribadito dalla riforma fiscale il cui art. 1, comma 1 lettera vv), ha modificato comma 1-bis dell'art. 55 t.u.i.s. che ora impone l'assoggettamento a registrazione in termine fisso anche degli atti aventi a oggetto «donazioni, dirette o indirette».
La particolare struttura del fenomeno richiede, però, di collocarne il momento impositivo. Dato che non è ipotizzabile un'indiscriminata attività ispettiva da parte dell'Agenzia delle Entrate su qualsiasi vicenda patrimoniale, la riforma fiscale conferma la scelta portata dal previgente art. 56-bis t.u.i.s. tale per cui il prelievo sia dovuto – oltre nell'ovvio caso della registrazione volontaria valevole, come tale, per qualsivoglia fattispecie – solo quando la liberalità emerga aliunde e cioè allorquando risulti da dichiarazioni rese dall'interessato nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento di tributi (la riforma fiscale, infatti, si è limitata ad espungere dal comma 1 della citata disposizione l'erroneo riferimento ancora ivi riportato al parametro patrimoniale costituito dall'incremento superiore a trecentocinquanta milioni di lire, parametro non più operante nell'attuale impianto normativo e, quindi, totalmente avulso dallo stesso).
Per quanto attiene, invece, alla quantificazione dell'imposta dovuta, prima della riforma fiscale regnava una certa incertezza dovuta al fatto che il comma 2 del previgente art. 56-bis t.u.i.s. non era stato allineato alle modifiche nel frattempo apportate al restante impianto fiscale di modo che mentre per regola generale l'imposta di donazione era (ed è ancora) dovuta sulla base di differenti aliquote e franchigie correlate al rapporto che lega donante e donatario, la norma in tema di tassazione delle liberalità non donative continuava a fare riferimento al soppresso criterio di progressività nel conteggio dell'imposta. Mentre l'Amministrazione finanziaria aveva accolto, seppur in termini astratti e generici, la tesi in base alla quale la liberalità non donativa dovesse essere assoggettata alle normali regole previste dal t.u.i.s. (Circ. A.E. n. 30/E in data 11 agosto 2015, par. 1.2), la giurisprudenza era più frastagliata nell'affermare: a) che si dovesse applicare indiscriminatamente la massima aliquota vigente dell'8%, essendo irrilevante l'esistenza di un'astratta franchigia (C.T.R. Toscana, 10 febbraio 2021; Cass., sez. V, 3 dicembre 2020, n. 27665; Cass., sez. V., 9 dicembre 2020, n. 28047); b) che si dovesse applicare l'aliquota dell'8%, ma solo superata la franchigia di legge in base al rapporto tra donante e donatario (Cass., sez. V, 13 marzo 2024, n. 7442; Cass., sez. V, 24 febbraio 2023, n. 5802; c) che si dovesse applicare, in un singolare connubio normativo, la previgente aliquota del 7%, ma solo sull'importo eccedente l'attuale franchigia in base al rapporto tra donante e donatario (Cass., sez. V, 12 gennaio 2022, n. 735). L'attuale comma 2 dell'art. 56-bis t.u.i.s., come modificato dall'art. 1, comma 1 lettera aaa) della riforma fiscale, ha risolto la questione stabilendo che l'imposta sia dovuta nella misura dell'8% per la parte che eccede la franchigia, ove prevista. Ben venga la chiarezza dell'imposizione, ma – a parere di chi scrive – resta distonica l'applicazione di un'unica aliquota indifferenziata, non a caso nell'importo più elevato, che non tenga conto del rapporto di parentela: ove, ad esempio, un genitore effettuasse una donazione di euro 1.500.000 al figlio, l'imposta dovuta sarebbe quella del 4% sull'importo di euro 500.000 eccedente la franchigia di euro 1.000.000; ove analogo importo costituisse, invece, oggetto di liberalità non donativa accertata nello schema dell'art. 56-bis t.u.i.s., l'imposta dovuta sul medesimo ammontare di euro 500.000 sarebbe dell'8% (sul punto, Cass., sez. V, 13 marzo 2024, n. 7442Cass., sez. V, 24 febbraio 2023, n. 5802, ante riforma fiscale, avevano avallato siffatta differenza di trattamento sulla base di un intento sanzionatorio insito nel citato art. 56-bis t.u.i.s.).
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Sommario
Patto di famiglia e passaggio generazionale dell'impresa in generale