Inadempimento al mandato e responsabilità disciplinare per negligenza nel controllo della PEC
11 Novembre 2024
Massima “Costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita (art. 26 cdf), come nel caso di negligente ovvero omessa verifica delle comunicazioni o notifiche ricevute nella propria casella di posta elettronica certificata”. Il caso Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza impugnata, rigettava l'impugnazione proposta da un avvocato al quale il Consiglio di disciplina aveva comminato la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione forense per otto mesi. Il contenzioso traeva origine da un esposto presentato a fine 2017 da un ex cliente, che riferiva di aver conferito mandato per procedere al recupero di un credito vantato nei confronti di una società e di non aver ricevuto alcuna informazione sull'esito del procedimento monitorio, eccettuata la conferma del deposito del ricorso e dell'emissione del decreto ingiuntivo. Successivamente, su sua richiesta, l'avvocato riferiva al cliente che non era stata proposta opposizione averso il decreto ingiuntivo e inviava altresì ulteriori rassicurazioni relative a trattative in corso per il recupero del credito. Dette rassicurazioni si rivelavano però inveritiere allorché il cliente veniva a conoscenza del deposito della sentenza relativa al giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, di cui egli ignorava tuttavia l'esistenza. All'esito dell'istruttoria condotta il consiglio distrettuale di disciplina riscontrava la violazione degli artt. 9, 10, 12, 20, 23 comma 4, 26 comma 3 e 27, commi 6-7-8, del codice deontologico forense e comminava la suddetta sanzione. L'avvocato proponeva impugnazione e si sottoponeva al giudizio del Consiglio Nazionale Forense, che tuttavia confermava la decisione del consiglio distrettuale di disciplina. La questione La questione principale posta all'attenzione del Consiglio Nazionale Forense riguardava il comportamento dell'avvocato incolpato che, da quanto emergeva dall'esposto e della successiva istruttoria, tralasciava di controllare con attenzione la sua casella PEC e non si avvedeva che la debitrice ingiunta aveva proposto opposizione avverso il ricorso monitorio ottenuto per conto del proprio cliente. Il giudizio di opposizione si svolgeva pertanto in contumacia di quest'ultimo e si concludeva con la revoca del decreto ingiuntivo. Ad aggravare ulteriormente il quadro disciplinare vi era il comportamento dell'incolpato che, richiesto dal proprio assistito di fornire informazioni sullo svolgimento del mandato a lui affidato, gli riferiva che il decreto ingiuntivo non era stato opposto e che aveva proposto nei confronti della controparte una procedura esecutiva mobiliare rimasta infruttuosa, nonché una istanza di fallimento ancora pendente, altresì consigliando azioni inutilmente gravose consistenti nella proposizione di istanza per dichiarazione di fallimento. Le soluzioni giuridiche Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato le tesi del ricorrente, il quale asseriva che la mancata visione della PEC di notifica fosse stata una mera svista e quale prova indiretta di tale ragionamento avrebbe militato la circostanza che non vi sarebbe stata alcuna menzione del giudizio di opposizione nella corrispondenza con il collega di controparte. Secondo l'opinione del Collegio giudicante, la definizione di mera “svista”, rappresentava un artificio linguistico dietro cui si celava il comportamento negligente del professionista, documentalmente provato soprattutto dal fatto che era stato lo stesso ricorrente a negare svariate volte al proprio assistito l'esistenza di un giudizio di opposizione, così continuando a fornire una falsa rappresentazione della realtà fattuale. Il Consiglio Nazionale Forense giudicava pertanto che la mancata verifica del flusso di messaggi all'interno della casella PEC nella consapevolezza, anche solo per la vicenda oggetto di giudizio, che potesse maturare un'opposizione ad un decreto ingiuntivo, era circostanza che di per sé denotava negligenza con le dirette conseguenze in termini di configurabilità della violazione di cui all'art. 26 comma 3 del codice deontologico forense. Si trattava di negligenza che nasceva dal “disinteresse” nei confronti delle sorti del cliente, che integrava altresì la violazione degli artt. 9,10 e 12 del codice in quanto nella vicenda in oggetto il disvalore del comportamento negligente era fornito proprio dalla mancata costituzione nel giudizio di opposizione. Osservazioni La decisione è innovativa, non riscontrandosi precedenti in tema almeno per quanto concerne il giudizio disciplinare, ma è certamente corretta anche perché supportata dalla giurisprudenza in tema di obblighi di diligenza a carico dell'avvocato. Si è più volte sottolineata l'importanza per l'avvocato di adeguarsi al contesto tecnologico attuale e si è affermato che la dotazione e l'uso corretto degli strumenti informatici costituiscono parte integrante dell'attività professionale. La Suprema Corte ha, ad esempio, affermato che il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale dovuto alla saturazione della capienza della casella PEC del destinatario è evento imputabile a quest'ultimo; di conseguenza, è legittima l'effettuazione della comunicazione mediante deposito dell'atto in cancelleria, senza che, nell'ipotesi in cui il destinatario della comunicazione sia costituito nel giudizio con due procuratori, la cancelleria abbia l'onere, una volta non andato a buon fine il primo tentativo di comunicazione, di tentare l'invio del provvedimento all'altro procuratore. (Cass. n. 13532/2019). In altre pronunce si è ritenuto che la saturazione della casella PEC non debba essere considerata impedimento non imputabile al difensore. La Corte di Cassazione ha escluso che tali circostanze possano giustificare richieste di rimessione in termini o altre eccezioni processuali, sottolineando che l'avvocato ha l'onere di gestire adeguatamente la propria utenza PEC, procedendo a verifiche periodiche delle comunicazioni ricevute (Cass. n. 26810/2022). Invero, sempre secondo la giurisprudenza, la responsabilità professionale dell'avvocato deriva dall'obbligo di assolvere ai doveri di diligenza, perizia e competenza nell'esercizio della propria attività. L'art. 1176, comma 2, c.c., prevede che la diligenza richiesta al professionista sia commisurata alla natura dell'attività esercitata; pertanto, l'avvocato è tenuto a utilizzare la diligenza del buon professionista, che include l'adeguamento alle evoluzioni tecnologiche e l'uso corretto degli strumenti informatici. Il ragionamento del Consiglio Nazionale Forense appare coerente e ben argomentato, essendo certamente corretta la decisione di irrogare una sanzione a un avvocato che tralasci di controllare il proprio domicilio digitale (la casella PEC), che oltretutto è diventato ormai praticamente l'unico canale di dialogo con gli uffici giudiziari e non solo. La violazione di tali doveri comporta pertanto responsabilità disciplinare e, nei casi più gravi, anche responsabilità civile verso il cliente. La giurisprudenza ha del resto più volte chiarito che l'avvocato è responsabile nei confronti del cliente in caso di incuria o ignoranza di disposizioni di legge e, in generale, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, comprometta il buon esito del giudizio. La sanzione disciplinare è stata perciò determinata in base alla valutazione complessiva dei fatti, dei comportamenti e del disvalore che essi determinano. Il CNF ha correttamente sottolineato che la sanzione deve essere adeguata e proporzionata alla violazione commessa, tenendo conto della gravità del fatto, del grado della colpa, del comportamento dell'incolpato e delle circostanze soggettive e oggettive. Alla luce della decisione esaminata si conferma, dunque, ancora una volta l'importanza, per l'avvocato, di un'adeguata formazione che porti a maturare piena consapevolezza del mondo digitale e delle nuove tecnologie che sono ormai abitualmente utilizzate nella professione legale, proprio perché ciò incide in via diretta sulla qualità del servizio offerto al cliente e sul rispetto dei doveri deontologici. L'inosservanza di tali obblighi può, infatti, arrecare notevole pregiudizio agli assistiti, come accaduto nel caso di specie, e può avere gravi ripercussioni sull'attività professionale, posto che la casella PEC non è un semplice archivio dove vengono registrati messaggi in arrivo e in uscita (come accade nel caso della posta elettronica semplice) ma è il domicilio digitale dell'avvocato, ovvero lo strumento telematico fondamentale per l'esercizio dell'attività professionale. |