Tutela penale dell’attività di vigilanza: per la prova del dolo non sono sufficienti l’avvenuta notifica della PEC e della raccomandata
12 Novembre 2024
La sentenza in commento concerne la vicenda che ha visto condannato alla pena di 1 anno e 3 mesi di reclusione l'amministratore unico e legale rappresentante di una Società cooperativa a responsabilità limitata, sottoposta per legge alla vigilanza della Direzione centrale per le attività produttive della Regione Friuli Venezia Giulia, per aver ostacolato consapevolmente l'attività ispettiva da parte del revisore incaricato, omettendo, nonostante le reiterate richieste ricevute, di porre a disposizione del revisore la documentazione contabile e societaria necessaria per lo svolgimento dell'attività di revisione. Avverso la sentenza di appello veniva proposto ricorso per cassazione, deducendo sei distinti motivi di impugnazione. I giudici di legittimità hanno ritenuto fondato, tra gli altri, il quinto motivo di ricorso con il quale si lamentava l'inosservanza ovvero l'erronea applicazione dell'art. 2638 comma 2 c.c. in relazione alla sussistenza del dolo diretto, consistente nella consapevolezza di ostacolare le funzioni dell'autorità di vigilanza. Come noto, la tutela penale dell'attività di vigilanza, originariamente assicurata, per il solo settore bancario e finanziario e in relazione alla sola vigilanza della Banca d'Italia, dall'art. 34 del d.lgs. n. 385/1993, è ora per l'appunto realizzata, in termini generali, dall'art. 2638 c.c., rubricato “Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”, introdotto dal d.lgs. n. 61/2002, il quale ha contestualmente abrogato la precedente normativa. Ebbene, la normativa in parola prevede un articolato meccanismo di tutela penale delle funzioni di vigilanza affidate alle autorità pubbliche rispetto a molteplici condotte che ne ostacolano l'esercizio. In particolare, tale tutela è affidata a due autonome fattispecie, secondo il modello che una parte della dottrina penalistica definisce della c.d. norma mista cumulativa. La prima fattispecie, prevista dal primo comma, riguarda l'esposizione, nelle comunicazioni previste dalla legge, di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero l'occultamento con mezzi fraudolenti (diversi dall'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero) di fatti sempre relativi alla predetta situazione, che i soggetti indicati avrebbero dovuto comunicare. La seconda ipotesi delittuosa di cui all'art. 2638 comma 2 c.c. che, come anticipato, concerne il caso di specie, prende in considerazione, invece, le condotte «che in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle predette autorità, consapevolmente (…) ostacolano le funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza». La condotta tipica di cui al comma 2 viene quindi integrata, come anche specificato nella sentenza in commento, «da qualsiasi forma di intralcio all'esercizio delle funzioni di vigilanza, ivi compresa l'omessa comunicazione di informazioni dovute». I giudici di Piazza Cavour ribadiscono, infatti, che l'evento può essere integrato, oltre che dall'impedimento in toto dell'esercizio della funzione di vigilanza, anche «dall'effettivo ostacolo frapposto al dispiegarsi della funzione, realizzato con comportamenti di qualsiasi forma che devono essere comunque tali da determinare difficoltà di considerevole spessore o un significativo rallentamento dell'attività di controllo, con esclusione del mero ritardo, alla stregua di un'interpretazione conforme al canone costituzionale di offensività». L'integrazione della fattispecie, pertanto, deve essere correlata alla lesione recata alla funzione dalla condotta di ostacolo, che, astrattamente, potrebbe verificarsi anche in presenza di una situazione momentanea, ove realizzi un effettivo ostacolo alla funzione di vigilanza, con esclusione del mero ritardo e di ogni evento che non sia in grado di turbare in modo significativo l'attività dell'organo di vigilanza. Vero è, poi, che il delitto in esame richiede necessariamente che la condotta di ostacolo all'esercizio della funzione di vigilanza sia stata posta in essere consapevolmente, ovvero sia con un dolo generico diretto. Nella sentenza in commento, i giudici confermano, infatti, che ai fini della dimostrazione del dolo, qui inteso come consapevole sottrarsi alle richieste del sistema di vigilanza, «non può invocarsi il dato formale dell'avvenuta notifica della richiesta a mezzo PEC presso l'indirizzo di posta elettronica (…) né l'invio di una raccomandata presso la sede sociale». Invero, tali adempimenti rilevano unicamente ai fini di una conoscenza legale di un determinato accadimento: l'avvenuto recapito della comunicazione così eseguito, infatti, riconosce esclusivamente una presunzione normativa di effettiva conoscenza. Tuttavia, tale meccanismo non potrà essere di certo utilizzato ai fini della dimostrazione del dolo di un reato, «che consiste sì in una categoria normativa, ma avente come sostrato un dato psicologico reale e non presuntivamente affermato». Non solo. Ai fini della dimostrazione del dolo non possono essere posti alla base di una ricostruzione articolata nemmeno «quegli elementi indizianti eventualmente valorizzati dalla sentenza impugnata». Per quanto concerne il caso di specie, i giudici di Piazza Cavour concludono per l'indispensabile nuovo vaglio da parte dei giudici di merito in ordine al profilo, chiaramente essenziale, dell'effettiva conoscenza, in capo all'imputata, delle comunicazioni trasmesse dal revisore, a partire dalla quale possa affermarsi che la sua condotta omissiva sia stata consapevolmente diretta a determinare tale risultato e, quindi, integrando un dolo generico diretto. (fonte: dirittoegiustizia.it) |