Nelle ipotesi in cui, una misura di prevenzione personale, dopo la sua applicazione sia rimasta sospesa senza essere eseguita, il tribunale è tenuto a verificare, anche d'ufficio, l'attualità della pericolosità sociale dell'interessato con le modalità prescritte dall'art. 14, comma 2-ter d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
L'art. 14, comma 2-ter d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 e l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Oristano del 14 dicembre 2022
Con la sentenza emessa il 24 settembre 2024, n. 162 la Corte costituzionale è intervenuta sull'art. 14, comma 2-ter, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cod. antimafia), così come introdotto dall'art. 4, comma 1, legge 17 ottobre 2017, n. 161, dichiarandone la parziale illegittimità costituzionale e procedendo a una ridefinizione complessiva del giudizio di pericolosità sociale nelle misure di prevenzione personale, con un percorso argomentativo che appare, sotto ogni profilo, encomiabile.
Con questa pronuncia, in particolare, il Giudice delle leggi dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni,».
L'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, quindi, veniva censurato nella parte in cui prevedeva che, nelle ipotesi di sospensione dell'esecuzione della sorveglianza speciale durante il periodo in cui il prevenuto è sottoposto a una carcerazione per effetto di una condanna penale, il tribunale debba verificare la persistenza della pericolosità sociale solo quando la condizione detentiva si è protratta per almeno due anni.
Occorre, in proposito, precisare che l'intervento della Corte costituzionale era stato invocato, con ordinanza del 14 dicembre 2022, dal Tribunale di Oristano, che aveva censurato la legittimità dell'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 13, comma 1, e 27, comma 3, Cost.
Sul caso per il quale era stato sollecitato l'intervento della Corte costituzionale ci si deve soffermare brevemente, evidenziando che il Tribunale di Oristano era chiamato a decidere, in sede di giudizio abbreviato, sulla responsabilità penale di un soggetto che, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ex art. 75, comma 1, cod. antimafia, tra il dicembre 2019 e il marzo 2020, in cinque diverse occasioni, aveva trasgredito la prescrizione di non allontanarsi dalla sua abitazione nelle ore notturne.
Occorre anche precisare che l'imputato era sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per la durata di un anno, per effetto di un decreto emesso il 25 gennaio 2018 e notificato al prevenuto il 5 febbraio 2018. L'esecuzione del provvedimento, però, fin dall'inizio, era rimasta sospesa, essendo l'interessato detenuto in forza di un ordine di carcerazione adottato il 17 gennaio 2018, divenendo esecutiva soltanto dopo la liberazione del prevenuto, avvenuta il 23 aprile 2019.
Nel sollevare la questione di legittimità, il Tribunale di Oristano evidenziava che, laddove la stessa fosse stata accolta, si sarebbe dovuta applicare retroattivamente la disciplina che impone – analogamente a quanto previsto per le misure di sicurezza – la rivalutazione d'ufficio della pericolosità sociale del destinatario della misura della sorveglianza speciale rispetto all'esecuzione del provvedimento.
Nel caso di specie, come evidenziato nella sentenza che si commenta, non essendo stata compiuta la rivalutazione ex officio della pericolosità sociale del prevenuto, la «sospensione dell'esecuzione della misura di prevenzione non potrebbe dirsi cessata in maniera automatica per il solo cessare dell'esecuzione della pena detentiva […]», dovendosi ritenere «persistente fino a quando il giudice competente non proceda a verificare nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura […]» (C. cost., 24 settembre 2024, n. 162).
A sostegno della rimessione, il Tribunale di Oristano richiamava la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui: «Non è configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dall'art. 75 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nei confronti del destinatario di una tale misura, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza della rivalutazione dell'attualità e della persistenza della pericolosità sociale, da parte del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura» (Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2018, M., in Cass. C.E.D., n. 273952 - 01).
In questa cornice, il Giudice rimettente osservava che l'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, la cui introduzione nell'ordinamento italiano si imponeva alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, si poneva in contrasto con i parametri costituzionali degli artt. 3, comma 1, 13, comma 1, e 27, comma 3, Cost.
Secondo il Tribunale di Oristano, il contrasto con l'art. 3, comma 1, Cost. discendeva dall'ingiustificata disparità di trattamento esistente tra i soggetti destinatari di misure di sicurezza e quelli destinatari di misure di prevenzione personale, che, pure, si trovano in una posizione sostanzialmente analoga.
Infatti, mentre per i soggetti destinatari di una misura di sicurezza occorreva procedere a una duplice verifica della pericolosità sociale – da effettuarsi, la prima, al momento dell'applicazione, la seconda, al momento dell'esecuzione –, per i soggetti destinatari di una misura di prevenzione personale, l'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia prevedeva un arco temporale di due anni, durante il quale l'esecuzione era sospesa in pendenza di un altro titolo detentivo, senza valutare se la condizione pericolosa del prevenuto fosse rimasta immutata.
La disposizione censurata, inoltre, si poneva in contrasto con l'art. 13, comma 1, Cost., che subordina la liceità di ogni restrizione della libertà personale al principio di necessaria proporzionalità della misura rispetto agli obiettivi di prevenzione dei reati, così come affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza 24 gennaio 2019, n. 24.
La norma censurata, infine, si poneva in contrasto con l'art. 27, comma 3, Cost., perché l'individuazione di un limite temporale prestabilito, al di sotto della quale non si deve rivalutare la pericolosità sociale del destinatario di una misura di prevenzione personale, si fonda sull'assunto, non condivisibile, che, in tale arco temporale, l'espiazione della pena non può sortire alcun effetto rieducativo. Ne conseguiva che, accedendo a una tale opzione ermeneutica, si finiva per affermare una presunzione assoluta di inidoneità delle pene detentive inferiori a due anni a perseguire obiettivi di rieducazione del condannato.
L'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Oristano
Nella cornice descritta nel paragrafo precedente, occorre evidenziare che la Corte costituzionale riteneva ammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Oristano, nella parte in cui la norma censurata prevedeva che, in caso di sospensione dell'esecuzione della misura della sorveglianza speciale, in pendenza di un altro titolo esecutivo detentivo, il tribunale è tenuto a verificare la persistenza della sua pericolosità sociale soltanto nelle ipotesi in cui la condizione restrittiva del condannato si è protratta per almeno due anni.
Si evidenziava, in proposito, che il Tribunale di Oristano giudicava un soggetto imputato della contravvenzione prevista dall'art. 75, comma 1, cod. antimafia, conseguente alla violazione delle prescrizioni impostegli in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale; misura che, dopo la sua irrogazione, era rimasta sospesa per oltre un anno, a causa dell'esecuzione di un titolo detentivo relativo a una condanna definitiva riportata dal prevenuto.
Ne derivava che, laddove la Corte costituzionale avesse ritenuto fondate le questioni di legittimità sollevate dal Giudice rimettente, l'imputato avrebbe dovuto essere assolto dalla contravvenzione ascrittagli, atteso che la misura della sorveglianza speciale controversa non era mai stata eseguita. Infatti, non essendo stata effettuata alcuna rivalutazione sulla persistente pericolosità sociale del prevenuto al momento della cessazione del suo stato detentivo, nessuna violazione degli obblighi relativi alla misura di prevenzione presupposta gli poteva essere addebitata.
Sembrava, del resto, muoversi in questa direzione ermeneutica la giurisprudenza di legittimità, da tempo consolidata in relazione all'ipotesi speculare della sospensione della misura della sorveglianza speciale per un tempo superiore a due anni alla quale non era seguita alcuna rivalutazione della sua condizione di pericolosità sociale. Non poteva, in proposito, non rilevarsi che, in questi casi, le Sezioni Unite avevano ritenuto che la misura di prevenzione personale doveva ritenersi sospesa, non consentendo di ritenere configurabile la fattispecie di cui all'art. 75, comma 1, cod. antimafia (Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2018, M., cit.).
L'arresto delle Sezioni Unite, del resto, si collocava in un solco ermeneutico consolidato e fondato su solidi argomenti sistematici, che già erano stati espressi mirabilmente in un precedente intervento chiarificatore, nel quale si era affermato il seguente principio di diritto: «Qualora, in epoca successiva all'adozione di misura di prevenzione personale, il sottoposto sia stato detenuto per un periodo di tempo idoneo ad incidere sullo stato di pericolosità sociale in precedenza accertato, la efficacia del provvedimento applicativo della misura resta sospesa anche dopo la scarcerazione, fino a quando il giudice non valuta nuovamente l'attualità della pericolosità sociale del soggetto» (Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 2018, Villani, in Cass. C.E.D., n. 262311 - 01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., sez. I, 19 luglio 2016, Fantauzzi, in Cass. C.E.D., n. 267800 - 01; Cass. pen., sez. V, 13 giugno 2016, Cartanese, in Cass. C.E.D., n. 268046 - 01).
La fondatezza delle questioni di legittimità sollevate
Presupposta l'ammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Oristano, la Corte costituzionale dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafiacon un percorso argomentativo di esemplare chiarezza e di notevole rilievo sistematico.
Per giungere a queste conclusioni, si muoveva dalla sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, che si inseriva in un contesto ermeneutico, da tempo consolidato, che aveva portato a ritenere costituzionalmente illegittime alcune presunzioni di pericolosità sociale collegate alle misure di sicurezza (C. cost., 15 luglio 1983, n. 249; C. cost., 27 luglio 1982, n. 139; C. cost., 20 gennaio 1971, n. 1).
Occorre, in proposito, ricordare che, in conseguenza del percorso ermeneutico avviato dalle pronunce di costituzionalità sopra richiamate, la legge 10 ottobre 1986, n. 663, (Legge Gozzini), aveva abrogato l'art. 204 c.p. e aveva introdotto, all'art. 31, comma 2, il principio secondo cui tutte «le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa».
Tuttavia, il legislatore non chiariva se l'accertamento di pericolosità sociale doveva essere compiuto solo nel momento in cui veniva applicata la misura di sicurezza dal giudice di cognizione ovvero se, oltre che in tale momento, il vaglio doveva essere effettuato anche in quello esecutivo. Ne conseguiva che, sebbene fosse stato introdotto l'art. 31, comma 2, legge n. 663/1986, non era stata risolta la questione della rilevanza procedimentale del giudizio di pericolosità sociale del soggetto sottoposto a una misura di sicurezza.
A tale questione, forniva una prima risposta la sentenza della Corte costituzionale n. 1102/1988, che dichiarava costituzionalmente illegittimo l'art. 219, comma 3, c.p., nella «parte in cui, per i casi ivi previsti, subordina il provvedimento di ricovero in una casa di cura e di custodia al previo accertamento della pericolosità sociale, derivante dalla seminfermità di mente, soltanto nel momento in cui la misura di sicurezza viene disposta e non anche nel momento della sua esecuzione» (C. cost., 30 novembre 1988, n. 1102).
Si muoveva nella stessa direzione l'art. 679 c.p.p. pen. del nuovo codice di procedura penale, secondo cui quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca viene disposta «con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa».
A oltre un decennio di distanza interveniva la sentenza della Corte costituzionale n. 291/2013, che stabiliva che, fatti salvi i casi in cui la misura di sicurezza è applicata direttamente dal magistrato di sorveglianza, la valutazione di pericolosità sociale deve «essere effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; poi dal magistrato di sorveglianza, quando la misura già disposta deve avere concretamente inizio, in modo tale da garantire l'attualità della pericolosità del soggetto colpito dalle restrizioni della libertà personale connesse alla misura stessa» (C. cost. 2 dicembre 2013, cit.).
Gli stessi principi venivano applicati alle misure di prevenzione, che erano accomunate alle misure di sicurezza dalla finalità di «prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e [di] favorirne il recupero all'ordinato vivere civile […], al punto da poter essere considerate come “due species di un unico genus” […]» (C. cost. 2 dicembre 2013, n. 291).
Si superava, in questo modo, l'opzione ermeneutica, ritenuta incompatibile con l'art. 3 Cost., secondo cui il giudice della prevenzione era tenuto ad accertare la pericolosità sociale solo al momento dell'adozione delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione; mentre, nell'ipotesi in cui l'esecuzione delle misure doveva essere sospesa per la condizione detentiva dell'interessato, non occorreva un nuovo accertamento della pericolosità al cessare della detenzione; opzione ermeneutica, questa, che mirava ad evitare il rischio, tra l'altro paventato dalle Sezioni Unite in una risalente pronuncia, di dilazioni dell'esecuzione delle misure, dopo che il soggetto aveva riacquistato la libertà (Cass. pen., sez. un., 25 marzo 1993, n. 6, Tumminelli, in Cass. C.E.D., n. 194063 - 01).
Tali argomenti inducevano la Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 15 cod. antimafia, nella parte in cui «non prevede che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l'organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura» (C. cost. 2 dicembre 2013, cit.).
La declaratoria di incostituzionalità dell'art. 15 cod. antimafia, peraltro, si imponeva perché una lunga detenzione «incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell'atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione […]» (C. cost. 2 dicembre 2013, cit.).
D'altra parte, non essendo scontato l'esito positivo del percorso trattamentale, non poteva giustificarsi una presunzione «di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell'interessato. Ciò, quantunque la pericolosità sociale debba risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita, giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione» (C. cost. 2 dicembre 2013, cit.).
Si imponeva, pertanto, una doppia verifica della pericolosità sociale, da attuare sia nel momento dell'adozione del provvedimento sia nel momento della sua esecuzione, laddove si fosse verificata una scissione temporale dovuta alla detenzione dell'interessato per un altro titolo esecutivo.
La violazione dell'art. 3, comma 1, Cost.: il principio di attualità della pericolosità sociale
In questo contesto, la Corte costituzionale evidenziava che l'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, così come introdotto dall'art. 4, comma 1, legge n. 161/2017, aveva reintrodotto una presunzione di pericolosità laddove la sospensione della misura conseguiva a una detenzione inferiore a due anni.
Tuttavia, una tale soluzione non era armonica rispetti ai principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 291 del 2013 e dalla giurisprudenza di legittimità consolidatasi dopo tale pronuncia, ispirata al principio, ritenuto ineludibile, di attualità della pericolosità sociale del prevenuto (Cass. pen., sez. I, 18 settembre 2020, n. 31214, Pantaleone, in Cass. C.E.D., n. 279799 - 01; Cass. pen., sez. I, 13 settembre 2019, n. 42703, Terlizzi, in Cass. C.E.D., n. 277230 - 01).
La presunzione di pericolosità sociale prefigurata dall'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, infatti, si poneva in contrasto con l'art. 3 Cost., risultando portatrice di un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina applicabile alle misure di sicurezza in forza dell'art. 679, comma 1, c.p.p.
Si evidenziava, al contempo, che non vi era alcuna «ragione per ritenere che nell'arco di un intero biennio la personalità di un individuo, e in particolare il suo atteggiamento nei confronti dei valori fondamentali della convivenza civile, non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
L'intrinseca irragionevolezza della soluzione censurata appariva ancora più evidente nelle ipotesi in cui a scarcerazione dell'interessato era «dovuta alla concessione di misure alternative, le quali presuppongono una valutazione di segno positivo riguardo alla condotta carceraria del condannato che vi acceda» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Del resto, non vi era alcuna ragione per giustificare, sul piano delle presunzioni applicabili, una disciplina differente tra le misure di sicurezza e le misure di prevenzione personale.
Si consideri che entrambe le misure sono accomunate dalla finalità di controllare la pericolosità sociale di un soggetto, pur dovendosi precisare che tale condizione, nelle misure di sicurezza, riguarda un individuo condannato in sede penale, mentre, nelle misure di prevenzione, la stessa è desumibile dalle condotte descritte dall'art. 4 cod. antimafia.
Occorre, al contempo, evidenziare, in linea con quanto recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 211 del 2022, che, come le misure di sicurezza, le misure di prevenzione personale «sia se applicate dall'autorità amministrativa, sia se adottate dall'autorità giudiziaria, presuppongono […] l'attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura» (C. cost., 17 ottobre 2022, n. 211).
Ne discende che la condizione di persistente pericolosità sociale deve essere accertata, anche d'ufficio, quando la misura inizia o riprende ad avere esecuzione, dopo essere rimasta sospesa per effetto dello stato detentivo del prevenuto.
Né vale a impedire il contrasto con l'art. 3 Cost. il carattere relativo della presunzione di pericolosità prevista della norma censurata, che, in astratto, potrebbe essere superato se il prevenuto si attiva sollecitando la revoca della misura, ai sensi dell'art. 11, comma 2, cod. antimafia.
Tale argomento, invero, era già stato confutato dalla sentenza n. 291 del 2013, nella quale si era osservato che una siffatta opzione inevitabilmente «presuppone il trasferimento sull'interessato dell'onere di attivare un procedimento inteso a verificare, in negativo, l'attuale inesistenza della pericolosità, quale condizione per sfuggire al delineato “automatismo” […]» (C. cost. 2 dicembre 2013, cit.).
La violazione dell'art. 13, comma 1, Cost.: il principio di proporzionalità delle misure di prevenzione personale
La Corte costituzionale, inoltre, affermava che l'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia si poneva in contrasto con l'art. 13, comma 1, Cost.
Per giungere a tali conclusioni, si muoveva dai principi affermati dalla sentenza della Corte costituzionale 24 gennaio 2019, n. 24, evidenziandosi che «l'esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza comporta una restrizione della libertà personale sancita dall'art. 13 Cost., posto che le prescrizioni inerenti a tale misura […] implicano comunque, ai sensi dell'art. 8 cod. antimafia, la sottoposizione a una incisiva serie di obblighi, tra cui quelli di fissare la propria dimora, di non allontanarsene senza preventivo avviso all'autorità di pubblica sicurezza, di non uscire di casa più presto e di non rincasare più tardi di una data ora» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Si evidenziava, in proposito, che l'art. 13 Cost. subordina la legittimità costituzionale di eventuali restrizioni della libertà del prevenuto sia alla puntuale definizione legislativa dei presupposti delle limitazioni sia al loro rigoroso accertamento giurisdizionale.
La disposizione censurata, invece, prevedeva un meccanismo di tutela giurisdizionale successivo ed eventuale, essendo attivabile soltanto sulla base di un'eventuale istanza di parte, relativa alla ricorrenza del requisito della pericolosità sociale del prevenuto, la cui «effettiva e persistente sussistenza al momento dell'esecuzione della misura deve essere considerata […] condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Né il rispetto del canone di proporzionalità prefigurato dall'art. 13, comma 1, Cost. poteva essere eluso, atteso che, come evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, tale parametro rappresenta un requisito sistematico nell'ordinamento costituzionale italiano, che esplica la sua portata in relazione a ogni atto dell'autorità giudiziaria suscettibile di incidere sui diritti fondamentali della persona, traendo il suo fondamento sistematico sia dall'ordinamento interno sia dalla normativa sovranazionale, in linea con quanto, anche in tempi recenti, affermato dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea (C. giust. UE, Grande Sezione, sent. 8 marzo 2022, C-205/20, NE).
D'altra parte, la subordinazione della rivalutazione della pericolosità sociale alla richiesta dell'interessato, essendo confinata in un ambito di facoltatività, finiva per farericadere sul prevenutogli eventuali ritardi nella decisione, restando «nel frattempo eseguibile la misura nei suoi confronti, con conseguente indebita limitazione della sua libertà personale al metro dell'art. 13 Cost.» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Non può, infine, non rilevarsi che il principio di proporzionalità, così come prefigurato dalla decisione in commento, in tempi recenti, ha trovato ulteriori elementi di corroborazione sistematica in alcune pronunce delle Sezioni Unite intervenute in materia di misure cautelati reali, ancora non del tutto esplorate nella loro portata innovativa (Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2021, n. 3659, Ellade, in Cass. C.E.D., n. 281848 - 01; Cass. pen., sez. un., 19 aprile 2018, n. 36072, PM in proc. Botticelli, in Cass. C.E.D., n. 273548 - 01).
La violazione dell'art. 27, comma 3, Cost.: il principio di rieducazione della pena
Secondo il Giudice delle leggi, infine, l'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia contrastava con il principio della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3, Cost.
Occorre, in proposito, evidenziare che l'esito del percorso rieducativo affrontato dal condannato non può mai ritenersi scontato, con la conseguenza che la presunzione di cui all'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia muove dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario protrattosi fino a due anni sia, in quanto tale, inidoneo a emendare l'atteggiamento antisociale del soggetto che vi è sottoposto; posizione ermeneutica, questa, che appare in contrasto con il principio di rieducazione della pena così come prefigurato dalla Corte costituzionale, ormai da decenni (C. cost., 4 luglio 2005, n. 155; C. cost., 9 aprile 2003, n. 135; C. cost., 21 novembre 1974, n. 264).
Senza considerare, per altro verso, che un siffatto assunto determinerebbe, ex se, l'incompatibilità con l'art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata, in palese contrasto con i principi affermati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 149/2018, essendo evidente che, laddove non si consentisse il ricorso a criteri individualizzanti del trattamento sanzionatorio, si finirebbe per «per relegare nell'ombra il profilo rieducativo […], instaurando di conseguenza un automatismo sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (C. cost., 21 giugno 2018, n. 149).
Non può, per altro verso, non rilevarsi che le scelte repressive del legislatore italiano non possono porsi in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti stabilito dall'art. 3 CEDU, che comporta che la pena detentiva debba essere, in astratto e in concreto, finalizzata a rieducare il condannato. Tutto questo comporta che la condanna di un imputato a una pena detentiva non può mai prescindere dalla possibilità di offrirgli un percorso rieducativo individualizzante, in linea con quanto costantemente affermato dalla Corte EDU (Corte EDU, sez. I, 7 ottobre 2019, Viola c. Italia, n. 77633/16; Corte EDU, G.C., sez. I, 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi, 10511/10; Corte EDU, sez. I, 9 luglio 2013, Vinter e Hutchinson c. Regno Unito, n. 57592/08).
Su questi temi, del resto, deve registrarsi una perfetta sintonia tra la Corte EDU e la Corte costituzionale, che, in particolare, con la sentenza 22 ottobre 2019, n. 253, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), ha ribadito l'indissolubile collegamento sistematico esistente tra l'art. 3 CEDU e gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. (C. cost., 22 ottobre 2019, n. 253; si veda anche Cass. pen., sez. I, 20 novembre 2018, n. 57913, Cannizzaro, in Cass. C.E.D, n. 274659 - 01).
Se così è, ferme restando le difficoltà che comporta la realizzazione degli obiettivi rieducativi imposti dall'art. 27, comma 3, Cost., l'ordinamento italiano non può «che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa […]» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Tali conclusioni, quindi, impongono, di «lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l'avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell'interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l'effettiva esecuzione della misura […]» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Osservazioni finali
La sentenza che si commenta ha comportato un intervento censorio di notevole rilievo sistematico, a fronte della modesta portata semantica della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, dal quale è stato eliminato il solo inciso «se esso si è protratto per almeno due anni,».
In conseguenza di tale rimozione, dopo la cessazione dello stato di detenzione, il tribunale «sarà tenuto a verificare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato, con le modalità prescritte dalla disposizione in esame» (C. cost., 24 settembre 2024, cit.).
Ne discende che, fino a quando tale rivalutazione non sia stata compiuta, la misura di prevenzione precedentemente disposta dovrà considerarsi sospesa, con la conseguenza che le prescrizioni imposte non potranno avere effetto nei confronti del prevenuto.
Occorre, infine, precisare che il tribunale dovrà procedere a rivalutare la pericolosità sociale dell'interessato in un momento immediatamente antecedente alla sua scarcerazione ovvero omettere di compiere tale vaglio laddove la misura sia stata adottata per la prima volta nell'imminenza di tale scarcerazione, pur dovendo, in questo caso, tenere conto dell'evoluzione della personalità dell'interessato durante l'esecuzione della pena.
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Sommario
L'art. 14, comma 2-ter d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 e l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Oristano del 14 dicembre 2022
L'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Oristano
La fondatezza delle questioni di legittimità sollevate
La violazione dell'art. 3, comma 1, Cost.: il principio di attualità della pericolosità sociale
La violazione dell'art. 13, comma 1, Cost.: il principio di proporzionalità delle misure di prevenzione personale
La violazione dell'art. 27, comma 3, Cost.: il principio di rieducazione della pena