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Giustizia riparativa nella fase esecutiva della pena

Fabio Fiorentin
20 Novembre 2024

Pubblichiamo la nuova bussola in materia di giustizia riparativa che analizza le modifiche introdotte dalla c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 150/2022) all'ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975).

Le modifiche all'Ordinamento penitenziario

L'art. 78 del d.lgs. n. 150/2022 introduce alcune modifiche alla legge n. 354/1975. Secondo la Relazione illustrativa, l'introduzione di un'autonoma disciplina “riparativa” nella fase esecutiva – anziché il mero rinvio alle disposizioni generali – sarebbe giustificata dall'esigenza di condurre dei programmi riparativi “anche nell'interesse delle vittime”.

Una previsione analoga è stata introdotta con le modifiche apportate nell'ordinamento giudiziario minorile (artt. 1 e 1-bis, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121). L'art. 1 di tale decreto è stato integrato con il riferimento alla necessità che l'esecuzione della pena e delle misure di comunità a carico dei minorenni favoriscano l'accesso di questi ultimi ai programmi di giustizia riparativa.

L'ordinamento penitenziario per gli adulti è stato, invece, interessato da un triplice intervento.

Anzitutto, nell'art. 13 ord. penit. è stato introdotto un nuovo comma ove si prevede che nei piani di trattamento vengano favoriti i programmi di giustizia riparativa tanto per i condannati quanto per gli internati (art. 13, comma 4, ord. penit.). La disposizione è rivolta, principalmente agli operatori del trattamento inframurario, ma la Relazione illustrativa circonda di molte cautele tale pur auspicata attivazione, prevedendo che l'accesso deve essere assolutamente volontario e che non vi sono ricadute negative sul piano dei benefici penitenziari, soprattutto quando il mancato svolgimento degli incontri dialogici sia dipeso dall'indisponibilità di una delle parti. La giustizia riparativa – si precisa – non deve «essere confusa con gli strumenti del trattamento penitenziario ma nello stesso tempo obbliga le autorità pubbliche a favorire, proprio nella cornice tracciata dal trattamento, il ricorso libero e spontaneo a percorsi di giustizia riparativa […]».

Il secondo intervento riguarda l'inserimento nella legge n.354/75 di una disposizione di nuovo conio, l'art. 15-bis espressamente dedicato alla giustizia riparativa, in forza del quale il giudice di sorveglianza può disporre l'invio di condannati e internati a programmi di giustizia riparativa, la cui partecipazione e il cui eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell'assegnazione al lavoro all'esterno, della concessione di permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale nonché dell'eventuale esito positivo dell'affidamento in prova (artt. 15-bise 47 ord. penit.). Sono valutati (ovviamente, in positivo) tanto la partecipazione al programma di giustizia riparativa che l'eventuale esito riparativo. Non si tiene conto, in ogni caso, della mancata

effettuazione del programma, dell'interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo.

Particolarmente delicato è il profilo della valutazione dell'esito riparativo. Quanto all'esito

simbolico l'art. 56 d.lgs. n. 150/2022 stabilisce che l'esito simbolico è caratterizzato da “dichiarazioni”, da “scuse formali”, “impegni comportamentali pubblici o rivolti alla comunità”, “accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. Quanto all'esito materiale di cui parla l'art. 56 comma 3 del richiamato decreto, esso è costituito da una prestazione, da un “dare”, da un “fare” o da un “non fare”, anziché da un “dire”.

Il terzo intervento sulla legge di ordinamento penitenziario operato dalla riforma Cartabia coinvolge l'art. 47 ord. penit., e si materializza nell'integrazione del comma 12 della evocata disposizione, in materia di estinzione della pena in esito alla positiva esecuzione dell'affidamento in prova, con la previsione che, ai fini del giudizio conclusivo del tribunale di sorveglianza «è valutato anche lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l'eventuale esito riparativo.» Tale valutazione non è, invece, richiesta ai fini della positiva esecuzione della liberazione condizionale per il motivo – come spiega la Relazione illustrativa – che nel caso della misura di cui all'art. 176 c.p. il condannato è già “ravveduto” (essendo appunto l'accertato ravvedimento una condizione di accesso al beneficio), mentre nell'affidamento al servizio sociale la risocializzazione è, invece, l'obiettivo stesso della probation.

Tale assunto pare, tuttavia, legare alla giustizia riparativa una finalità di emenda in colui che partecipa ai percorsi riparativi che pare estranea alla natura, alle finalità e agli esiti del percorso riparativo. Inoltre, la disposizione appare antinomica rispetto al 15-bis ord. penit. che, invece, prevede la valutazione dell'attività riparativa ai fini della concessione (anche) della liberazione condizionale.

Giustizia riparativa ed esecuzione delle pene sostitutive

La riforma “Cartabia” non detta disposizioni specifiche per l'innesto della giustizia riparativa nella fase di esecuzione delle pene sostitutive e neppure l'art. 661 c.p.p., dedicato a regolamentare la fase esecutiva delle sanzioni sostitutive, non contiene alcun richiamo al novellato art. 656, comma 3, c.p.p., che contempla in modo esplicito la possibilità di accedere ad un programma di giustizia riparativa.

Anche a ritenere la disposizione dell'art. 129-bis c.p.p. espressione di una generale facoltà del giudice di disporre l'invio delle parti a un Centro per la giustizia riparativa in ogni fase procedimentale (e dunque anche nella fase di esecuzione delle pene sostitutive), la dottrina ha evidenziato come - pur in assenza di preclusioni espresse - sembrano residuare davvero spiragli minimi per l'avvio di un percorso di mediazione su impulso dell'autorità giudiziaria competente. (Amarelli).

Appare, invero, difficile che, nella fase di esecuzione delle pene sostitutive, il magistrato di sorveglianza (o, per il lavoro di pubblica utilità sostitutivo, il giudice che lo ha applicato) stimoli le parti a intraprendere programmi di giustizia riparativa, trattandosi di pene-programma che già sono affiancate da prescrizioni e da un programma trattamentale predisposto dall'UEPE. Sul piano pratico, inoltre, appare decisiva la considerazione che l'eventuale avvio della giustizia riparativa nel quadro di un'esecuzione di pene sostitutive non è correlato ad alcuna premialità per il condannato e tale elemento pesa certamente nel condizionarne il consenso.

Peraltro, non avendo la riforma introdotto una pena sostitutiva analoga all'affidamento in prova di cui all'art. 47 ord. penit. e parendo che, nel caso della semilibertà e della detenzione domiciliare sostitutive, che il relativo corredo prescrizionale non possa contenere direttive sul facere o sul dare, di natura risarcitoria o riparativa, per l'assenza di una specifica previsione normativa in tale senso, gli spazi per un'attività di GR appaiono oggettivamente limitati.

L'autorizzazione del giudice di sorveglianza sull'avvio della giustizia riparativa

L'attuazione della giustizia riparativa nella fase dell'esecuzione penale si dovrebbe tradurre, anzitutto, nell'inserimento dei percorsi di giustizia riparativa nel programma di trattamento redatto dall'équipe del carcere, da sottoporre all'approvazione del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 69, comma 5, ord. penit., ovvero nella relazione sociale che l'UEPE predispone in relazione ai procedimenti per la concessione delle misure alternative ai condannati “liberi sospesi” (art. 656, comma 5, c.p.p.). Ulteriore ipotesi riguarda, poi, il caso in cui sia una delle parti ad assumere l'iniziativa nel corso dell'esecuzione ed anche in questo caso, ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p., sarà competente il giudice di sorveglianza ai fini dell'autorizzazione per l'invio delle pari al Centro per la giustizia riparativa. Infine, è sempre possibile che tale invio sia disposto d'ufficio dal giudice (art. 15-bis ord. penit.).

Nello specifico, la valutazione del giudice di sorveglianza sulla “utilità per la risoluzione delle questioni derivanti dal fatto” dovrebbe essere intesa alla luce della peculiare fase in cui il magistrato si pronuncia, nel senso di “utilità per la responsabilizzazione del condannato” e il “pericolo per la vittima” dovrebbe essere valutato dal punto di vista essenzialmente cautelare, trattandosi di fase che si colloca post rem iudicatam.

Nella fase dell'esecuzione, tale verifica sarà posta in capo al giudice che sovraintende all'esecuzione penale, dunque alla magistratura di sorveglianza ovvero al giudice penale nel caso di esecuzione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.

Sotto il profilo operativo, si pone la questione se il giudice di sorveglianza sia investito dell'autorizzazione specifica dell'eventuale percorso riparativo indicato nel programma di trattamento e su quali basi tale potere di verifica dovrebbe esercitarsi, tenuto conto del fatto che l'ipotesi trattamentale è, molto spesso, formulata in termini necessariamente generici e proiettati nel futuro, costituendo una (mera) proposta trattamentale suscettibile, o meno, di concretizzarsi.

Deve ritenersi che, mentre l'approvazione del programma trattamentale da parte del magistrato di sorveglianza continuerà ad essere imperniata, ai sensi dell'art. 69 ord. penit., su una valutazione di legittimità incentrata essenzialmente sul profilo della eventuale presenza di violazioni dei diritti del detenuto, l'autorizzazione all'espletamento del percorso di giustizia riparativa risponderà, anche nella fase dell'esecuzione della pena, alle coordinate che la giurisprudenza inizia a delineare, qualificando tale provvedimento autorizzativo quale espressione di un sindacato sull'opportunità dell'invio, nei limiti indicati dall'art. 129-bis c.p.p.

Inoltre, va ricordato che l'invio in sede esecutiva può prescindere dall'iniziativa autonoma dell'autorità giudiziaria (magistratura di sorveglianza), in quanto non sempre il procedimento di sorveglianza è pendente, potendosi in ogni caso accedere ai programmi, indipendentemente dai requisiti di ammissibilità dei benefici penitenziari e delle misure alternative; purtuttavia, la magistratura di sorveglianza deve essere investita in tutti i casi in cui si configura la necessità dell'autorizzazione richiesta all'autorità giudiziaria dal già ricordato art. 129-bis c.p.p.

In tale prospettiva, l'autorizzazione all'invio delle parti ad un Centro per la giustizia riparativa — in particolare per i condannati liberi (per i quali non sembra applicabile il disposto dell'art. 15-bis ord. penit., concepito essenzialmente per i detenuti e gli internati) — potrà essere anche inserita nell'ordinanza con cui il magistrato di sorveglianza applichi in via provvisoria una misura alternativa nei casi di pene inferiori a diciotto mesi (art. 678, comma 1-ter, c.p.p.) ovvero nell'omologo provvedimento pronunciato dal magistrato ai sensi dell'art. 47, comma 4, ord. penit. e, in ogni caso, nell'ordinanza con cui il magistrato o il tribunale di sorveglianza, pronunciandosi definitivamente, applicano un beneficio penitenziario (a es., nel caso di concessione dell'esecuzione della pena presso il domicilio ai sensi della l. n. 199/2010).

Giustizia riparativa e riforma dell'accesso ai benefici penitenziari dei condannati per taluni delitti “ostativi”

La riforma della giustizia riparativa si interseca, sotto alcuni importanti profili, con quella della disciplina di accesso ai benefici penitenziari dei condannati per i particolari delitti “ostativi” indicati nell'art. 4-bis ord. penit., anche in assenza di positiva collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., come da ultimo modificata dal d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con mod., dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199. Il rapporto tra le due fonti non è, infatti, privo di tensioni.

Anzitutto, si pone il problema interpretativo concernente l'obbligatorietà, o no, dell'attività riparativa da parte dell'autore del reato ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari.

I commi 1-bis e 1-bis.1. dell'art. 4-bis ord. penit., come novellato dall'evocato d.l. n. 162/2022 stabiliscono, infatti, che, ai fini della concessione dei benefici penitenziari ai condannati per particolari delitti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'articolo 58-ter, ord. penit. il giudice «accerta altresì la sussistenza di iniziative dell'interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa».

Come si è accennato, la questione che si pone riguarda essenzialmente la natura di tale previsione: se essa, cioè, introduca un vero e proprio requisito di ammissibilità dell'istanza di accesso ai benefici penitenziari ovvero costituisca un mero elemento di valutazione in ordine alla meritevolezza del soggetto. Occorre, in altri termini, chiedersi se la giustizia riparativa possa configurarsi nei termini di onere per il condannato non collaborante, che qualora non assolto, determini la preclusione dell'accesso ai benefici penitenziari.

La questione nasce dalla ambigua formulazione della richiamata disposizione dei commi 1-bis e 1-bis.1. dell'art. 4-bis ord. penit., che, delineando le condizioni di accesso ai benefici penitenziari menziona non più solo elementi che attengono al piano dell'ammissibilità della domanda ma anche fattori che rilevano sul piano della meritevolezza (in particolare, la revisione critica e, appunto, l'atteggiamento nei confronti delle possibili azioni di riparazione), con conseguente rischio di sovrapposizione e confusione tra i correlati momenti valutativi (​109).

È fuor di dubbio che al profilo della riparazione deve essere data particolare attenzione e il giusto rilievo, soprattutto nel caso dei delitti di mafia, alla luce della precisa indicazione della direttiva 2012/29/UE che, all'art. 22, comma 3, prescrive — in materia di tutela della vittima — che debba essere rivolta particolare attenzione « alle vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti dell'autore del reato. In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull'odio e le vittime con disabilità».

Ciò posto, secondo un'opinione, «pare comunque opportuno, se non necessario, considerare queste iniziative [riparative, n.d.R.] come fattori meramente eventuali, valutabili solo se presenti, a meno di non voler ignorare il fondamento di qualsiasi percorso riparativo che consiste nel libero consenso dei soggetti coinvolti» (Moro). Nella stessa prospettiva si pone chi osserva che la nuova disciplina prevede che «il giudice tenga conto anche di eventuali iniziative, di tipo risarcitorio o riparativo, assunte dal detenuto a favore delle vittime dei reati ostativi» (​Metrangolo). Altra autorevole posizione pone, invece, la questione in termini problematici, non ravvisando allo stato elementi decisivi per propendere per l'una o l'altra soluzione interpretativa (​Ricci).

Certamente, il tenore letterale della disposizione e la collocazione della disposizione insieme ai requisiti di ammissibilità della domanda costituiscono elementi ermeneutici che indurrebbero a ritenere le iniziative di giustizia riparativa comprese nel contenuto essenziale dell'istanza che il condannato o l'internato formula per la concessione di un beneficio penitenziario.

In concreto, è comunque sufficiente, come precisa il disposto normativo, che si tratti, appunto, di “iniziative” dell'interessato, non essendo richiesto che il percorso si concretizzi effettivamente in un percorso riparativo (la vittima, infatti, potrebbe opporre il proprio legittimo rifiuto) né — a maggior ragione — che vi sia un esito riparativo.

Una tale soluzione ermeneutica non appare in contrasto con le fonti internazionali che, infatti, escludono e effetti negativi derivanti dal mancato avvio ovvero dal mancato esito di un programma di giustizia riparativa.

Inoltre, come ha bene chiarito la dottrina, ai fini delle iniziative di GR non è richiesta la spontaneità del consenso, bensì la mera volontarietà del medesimo, che non potrebbe ritenersi esclusa nella fattispecie in esame (è, invero, volontaria anche un'iniziativa riparativa mossa dalla prospettiva di un'utilità processuale).

Una lettura sistematica, che tenga conto della disciplina introdotta con la riforma “Cartabia” e con i suoi principi (artt. 42 e ss., d.lgs. n. 150/2022), potrebbe, invece, avvalorare la collocazione delle iniziative riparative da parte condannato — non importa quanto spontanee purché volontarie — nel novero di quegli indici di meritevolezza che, qualora sussistenti, sono valutati in favore dell'interessato ma che, se non sussistenti, non possono giustificare di per sé una decisione sfavorevole all'interessato, analogamente a quanto dispone, in tema di accesso alle misure alternative, la disciplina generale della legge di ordinamento penitenziario.

Secondo tale prospettiva, l'accertamento del giudice dovrebbe riguardare l'atteggiamento del condannato, sotto il profilo del suo interesse a svolgere un programma riparativo e la verifica che egli abbia effettivamente svolto quella “riflessione” sulle conseguenze prodotte “in particolare per la vittima” e “sulle possibili azioni di riparazione” prevista dalla legge penitenziaria (art. 13, comma 3, ord. penit.).

La scelta tra l'una o l'altra delle soluzioni interpretative sopra delineate può essere più agevole qualora si guardi alla ratio della disposizione in analisi. Quest'ultima, infatti, è stata introdotta anche in seguito ad una proposta della Fondazione Falcone intesa a tutelare le ragioni delle vittime di mafia a vedersi riconosciuta la propria dignità di fronte a condannati per delitti di matrice mafiosa, che spesso negano l'esistenza stessa del fenomeno criminale mafioso dicendosi criminali comuni, così operando una ulteriore vittimizzazione delle persone colpite dalle conseguenze dei gravi delitti da loro commessi.

Per gli autori di reati connessi al fenomeno mafioso si pone, dunque, con maggiore rilevanza, l'esigenza che la persona condannata pervenga al riconoscimento dei “fatti essenziali” della vicenda criminale sotto il profilo della materialità e della natura “mafiosa” del reato commesso. delle conseguenze prodotte nei confronti delle vittime e del proprio coinvolgimento nella vicenda.

La dizione normativa, riferendosi a “iniziative” del condannato nella prospettiva della giustizia riparativa, consente di esigere certamente dal condannato uno sforzo in direzione della vittima, anche se non necessariamente un risultato riparativo, così rispondendo pienamente ai principi generali dettati dal d.lgs. n. 150/2022 in materia di giustizia riparativa.

Alla luce della ratio della disciplina in esame deve, in definitiva, ritenersi che tale elemento connesso al “riconoscimento” della vittima quale “vittima di mafia” debba pur sempre rappresentare una parte indefettibile del percorso di recupero sociale connotato dalla fruizione dei benefici penitenziari extramurari, così da consentire che la risocializzazione del condannato non rappresenti per la vittima non riconosciuta una vittimizzazione secondaria.

Le possibili criticità connesse alla tipologia dei reati

Già nell'ambito degli Stati Generali dell'esecuzione penale, istituiti dal ministro della giustizia nel 2015, il Tavolo 13 in tema di “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l'ordinamento penale italiano alle previsioni della direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere “l'accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento”. Quest'ultima indicazione è presente anche nella raccomandazione CM/Rec(2018)8 (paragrafi 6 e 19). La ratio è ravvisabile nel fatto che la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa dovrebbe essere offerta a tutte le vittime, senza distinzione in relazione al reato commesso. Il principio dell'accesso alla giustizia riparativa “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” è stato quindi codificato dalla legge-delega (art. 1 comma 18, lett. c), l. 27 settembre 2021, n. 134).

La previsione, sicuramente condivisibile sul piano teorico (la ratio è, infatti, quella di offrire la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa a tutte le vittime, a prescindere dal reato che è stato commesso), lascia tuttavia sussistere  le criticità correlate alla sua possibile declinazione pratica: importanti difficoltà applicative possono sorgere, infatti, nel caso di particolari reati (si pensi ai delitti di mafia e criminalità organizzata, ai crimini sessuali, ai maltrattamenti, allo stalking e così via) per i quali vi è una probabilità particolarmente alta che si verifichi una vittimizzazione reiterata e/o secondaria. In dottrina si sono, altresì, avanzate perplessità sulla compatibilità della restorative justice con riferimento ai c.d. “reati senza vittima”, es. i reati di mera inosservanza (​Palazzo).

Con riguardo, poi, all'ambito dei c.d. “delitti di relazione”, in questi casi si verifica spesso una progressione nell'offesa che può passare, a es., dalle aggressioni solo verbali a quella fisica, fino all'omicidio. Soprattutto se tali comportamenti maturano nell'ambito familiare, il danno ne può preannunciare altri e più gravi e non si limita solo alla vittima diretta della condotta delittuosa, estendendosi di frequente ai figli della “diade criminale”, nonché allo stesso offensore ed al suo ambito parentale in legame vitale con gli stessi (​Rossi). Un tale quadro pare suggerire che i percorsi riparativi possano esplicare la massima effettività laddove siano esperiti nelle fasi iniziali della vicenda criminale e con riguardo ai reati prodromici agli agìti più gravi, assumendo una connotazione (oltre che riparativa) spiccatamente preventiva, laddove nella fase dell'esecuzione penale tale positivo effetto rischia di non realizzarsi affatto e di essere perfino, in alcune situazioni, controproducente.

Per taluni particolari reati connotati dall'offesa sessuale, inoltre, la legge di ordinamento penitenziario prevede che il condannato sia sottoposto ad una peculiare osservazione intramuraria con l'ausilio dell'esperto criminologo o psicologo per almeno un anno prima di poter accedere ai benefici penitenziari (​art. 4-bis, comma 1-quater, ord. penit.). La difficoltà che deve affrontare, in questi casi, l'operatore penitenziario, riguarda la necessità di dover adottare, per una stessa vicenda, piani di lettura diversi al fine di comprendere quale sia il migliore tipo d'intervento rieducativo da attuare. È noto, infatti, che nel procedimento penale spesso si assiste ad una fase iniziale connotata da una sequela di dichiarazioni accusatorie seguite poi da ritrattazioni da parte della vittima, che continua a mantenere la relazione affettiva con l'aggressore e spesso lo supporta e lo visita in carcere, denotando una relazione affettiva che supera la sfida del processo e delle frustrazioni legate alla lontananza e alla situazione di detenzione.

 Non è infrequente, anzi, che la vittima rappresenti l'unico supporto esterno per il condannato, tanto sul piano socio-economico quanto su quello affettivo. In tali casi, molto spesso l'avvio di percorsi riparativi difetta del presupposto principale, connesso alla condivisione della necessità di un tale percorso, ostacolato, non raramente, altresì dalla presenza di una parte offesa che non viene percepita come tale anche da sé stessa e che pertanto si colloca, per così dire, “dalla parte del reo”. In queste circostanze, la “coppia criminale” appare patologica con il pericolo che l'avvio di un percorso di giustizia riparativa possa comportare un non accettabile scarso livello di tutela della vittima, poiché i contatti autore/vittima potrebbero ricreare una situazione criminogena. Tali elementi dovrebbero essere attentamente valutati in sede di autorizzazione ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p., anche ponendo attenzione sulla condotta post-delitto e sul comportamento inframurario (livello di aggressività dimostrato, capacità di tollerare le frustrazioni, adesione alle regole, disponibilità al confronto e alla rivisitazione critica, e così via).

L'UEPE dovrebbe, inoltre, approfondire particolarmente nei contatti con la persona offesa (che non è, ovviamente, oggetto di osservazione intramuraria) le dinamiche e le reazioni emotive legate al condannato, così da comprendere se la stessa si trova in una di quelle condizioni studiate dalla vittimologia (possono, a es., valutarsi gli atteggiamenti assunti dalla vittima nel corso di eventuali colloqui in carcere, con tutte le azioni accuditive collegate, quali preparazione cibo, biancheria lavata e stirata etc.).

Occorre, infine, considerare che i reati di aggressione sessuale sono ad alto tasso di recidiva proprio perché il comportamento illecito è espressione della personalità dell'autore e, se non s'interviene su questa, non vi può essere alcun risultato di riduzione di tali comportamenti.

In questa prospettiva, se da un lato la legge di ordinamento penitenziario e il suo regolamento esecutivo prevedono che anche la famiglia del condannato venga presa in carico dall'UEPE, su segnalazione dell'istituto penitenziario ove è ristretto il reo, tale intervento — anche qualora effettivamente attivato — si rivolge perlopiù ad intercettare le necessità del nucleo relative a difficoltà economiche e/o di disagio sociale, piuttosto che riguardare profili di natura personologica, la cui complessità spesso resta estranea alle stesse competenze del personale degli UEPE.

Sarebbe stato, quindi, necessario che alla riforma della giustizia riparativa si fosse accompagnata la diffusione di specifici programmi di aiuto e assistenza per le vittime finalizzati ad affrontare la crisi dell'offeso subito dopo aver subito il reato (centri di ascolto, di accoglienza e di pronto intervento), nonché a svolgere compiti di assistenza della persona vittima di reato nel corso della vicenda penale, sull'esempio delle reti di victim support, diffusi nella realtà anglosassone, in Germania, Francia, Spagna, Portogallo e in diversi altri paesi europei.

La struttura reocentrica dell'esecuzione penale e la posizione della vittima

Gli studi di vittimologia hanno analizzato i bisogni e le istanze delle vittime di reato, evidenziando il dato che all'offeso non importa solo e non tanto ottenere la punizione del colpevole o un risarcimento economico (aspettative, ovviamente, pienamente legittime) ma l'esigenza maggiore, per la vittima è quella di essere ascoltata, di essere capita, di essere “curata”, dopo il trauma derivante dal reato che ha avuto conseguenze in tutti gli ambiti della sua vita e personalità e non dunque solo in quello patrimoniale, aspetto che spesso è davvero secondario (​Mannozzi).

 Nella riforma introdotta dal d.lgs. n. 150/2022 manca, tuttavia, quella premessa fondamentale della giustizia riparativa costituita dalla istituzionalizzazione di uno spazio di vero ascolto del dolore della vittima che è uno dei valori fondanti della restorative justice. Tale carenza è riconducibile, in parte, alla confusione concettuale tra i servizi di giustizia riparativa e i servizi di assistenza alle vittime. Questi ultimi sono previsti come obbligatori dalla direttiva 2012/29/UE e come “servizi essenziali” per gli Stati membri in base al Piano strategico della Commissione europea sui diritti delle vittime (2020-2025). In Italia non esiste una rete integrata di servizi per l'assistenza alle vittime di reato. Le uniche due reti con una “copertura” nazionale e un fattivo sostegno da parte dello Stato sono quelle dei centri antiviolenza e delle case rifugio, da un lato, e la rete antitratta dall'altro. Nel 2018 è stato costituito presso il Ministero della giustizia un Tavolo interistituzionale per la creazione di una rete integrata di servizi per le vittime di cui fa parte per il terzo settore Rete Dafne Italia, unica espressione di approccio “generalista” nell'assistenza alle vittime.

Anche a livello normativo dovrebbe essere chiarita la distinzione tra i due tipi di servizio, l'uno (quello riparativo) contraddistinto dal pari rispetto delle parti, l'altro (quello di assistenza alle vittime) connotato dalle funzioni attribuite dalla direttiva 2012/29/UE agli artt. 8 e 9.

La differenza è chiara: secondo la raccomandazione 2018, gli operatori dei Centri di giustizia riparativa offrono « uno spazio neutro dove tutte le parti sono incoraggiate e supportate nell'esprimere i propri bisogni e nel vederli quanto più possibile soddisfatti »; la direttiva 2012/29/UE impone, invece, agli Stati membri di garantire che le vittime abbiano « accesso a specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell'interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale ».

E ancora: alla luce della evocata direttiva «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell'interesse della vittima» (art. 12 lett. a). I due servizi dovrebbero, peraltro, operare in sinergia, anche attraverso l'implementazione di tavoli interistituzionali per la costruzione di una rete integrata di servizi per l'assistenza alle vittime di reato (Bouchard).

A fronte di tale quadro, nella riforma “Cartabia” mancano — come si è accennato — disposizioni di coordinamento tra i Centri per la giustizia riparativa, da un lato, e servizi di sostegno delle vittime (ed eventuali servizi di supporto dell'autore) dall'altro. Ora, è vero che talvolta proprio il coinvolgimento di servizi, associazioni, gruppi di sostegno specificamente dedicati alla tutela di una sola delle due parti rischia di produrre fenomeni di esasperazione anziché di mitigazione dei conflitti, nondimeno, soprattutto con riferimento ad alcune ipotesi (ad esempio caratterizzate da un particolare squilibrio tra le posizioni delle due parti, come nel caso delle violenze domestiche), occorre riflettere che la possibilità di esercitare il diritto di accedere « a servizi di giustizia riparativa sicuri e competenti » (ai sensi dell'art. 12 della direttiva 2012/29/UE) sembra in effetti richiedere simili strategie inclusive e collaborative (​Parisi).

Sotto altro profilo, la legge-delega stabilisce che ai programmi di giustizia riparativa si accede « sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell'autore del reato e della positiva valutazione da parte dell'autorità giudiziaria dell'utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della lettera a) ». Si tratta di un aspetto particolarmente delicato perché, mancando per la fase di esecuzione penale una disposizione in favore della vittima equivalente a quelle dettate per il condannato nell'art. 47, ord. penit. e nell'art. 27, reg. esec., è necessaria una presa in carico istituzionale della vittima, nei cui confronti provvedere all'attività di informazione ma anche — per così dire — alla sua “formazione” in preparazione del percorso riparativo.

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