Il danno non patrimoniale da “movida notturna”

20 Novembre 2024

Come si accerta e come si quantifica il danno da movida notturna? Il contributo analizza questo particolare evento dannoso, focalizzando l'attenzione sul difficile compito del giudice nella gestione e valutazione delle azioni giudiziarie promosse dai residenti delle zone interessate dalla vita notturna

Premessa

La locuzione “movida notturna” indica tutte quelle forme di aggregazione sociale che si svolgono spesso su strada e si sviluppano prevalentemente nei centri urbani, in corrispondenza delle zone ove si concentrano le attività di ristorazione, di somministrazione di bevande alcoliche con annessi dehors, di discoteche.

La “movida” sottende aspetti positivi di divertimento e convivialità, ma può sfociare nella c.d. “mala movidaallorquando degeneri in schiamazzi reiterati, risse, ubriacature, musica ad alto volume, danneggiamenti, imbrattamenti, tanto da dar vita a forme di degrado urbano rendendo invivibili, per i residenti, tutte le zone circostanti ai locali.

Il pregiudizio che ne consegue ha formato oggetto – prevalentemente negli anni posteriori alla ripresa delle attività ricreative dopo la pandemia e le conseguenti restrizioni - di azioni giudiziarie, spesso cumulative, dei cittadini residenti, i quali si sono rivolti al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno e la condanna all’adozione, da parte dell’Amministrazione comunale, di provvedimenti adeguati a prevenire o porre fine al fenomeno degenerativo.

Questioni di giurisdizione

Le azioni promosse nei confronti del Comune, in relazione al c.d. petitum sostanziale, quando sono dirette non tanto a censurare un provvedimento adottato dalla Pubblica Amministrazione, quanto piuttosto ad ottenere il risarcimento del danno prodotto dalle immissioni nocive provocate dalla mala movida , anche quando le domande sono volte ad ottenere un facere, appartengono alla giurisdizione del Giudice ordinario, alla stregua del principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite: «In materia di immissioni acustiche intollerabili, l'inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un'attività soggetta al principio del neminem laedere» (Cass. civ., sez. un., 12 ottobre 2020, n. 21993).

È necessario, infatti, muovere dalla posizione dedotta in giudizio (causa petendi) attraverso l'azione promossa dinanzi al giudice civile, giacché il petitum sostanziale - da individuarsi in base ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione - è correlato al tipo di tutela che si richiede.

Sicché, quando le parti, pur lamentando l'adozione di taluni atti amministrativi ad opera del Comune nel rilascio, per es. delle licenze commerciali in maniera incontrollata o sovrabbondante, agiscono chiedendo tutela del loro diritto alla salute e alla serenità familiare e quotidiana all'interno delle proprie abitazioni, lesi da immissioni acustiche nocive, ai sensi dell'art. 844 c.c., art. 32 Cost. e art. 8 CEDU, in questi casi la cognizione appartiene al giudice ordinario.

Le domande sono generalmente:

  • di accertamento della intollerabilità delle immissioni acustiche provenienti da una determinata zona commerciale e area urbana;
  • di condanna delle amministrazioni comunali ad adottare tutte le misure adeguate ad eliminare o a ridurre, nei limiti della soglia di tollerabilità, le immissioni acustiche nocive;
  • di condanna delle medesime pubbliche amministrazioni al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, patiti.

Il pregiudizio, gli interessi coinvolti, le tutele

I fatti che sono all'origine del fenomeno, posto all'attenzione della stampa e delle corti di merito, possono integrare, in primo luogo, fattispecie di reato imputabili ai singoli che compiono atti di vandalismo, danneggiamenti, risse ed altro, punite dal codice penale.

Al contempo, in secondo luogo, la diffusività del fenomeno ha indotto i cittadini abitanti delle zone interessate ad invocare la tutela civilistica, agendo nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni per l'omessa adozione di provvedimenti volti a scongiurare l'inquinamento acustico e l'invivibilità dei quartieri della movida.

Nel dettaglio, l'utente si duole di subire una lesione del suo diritto al riposo, al sonno, al tranquillo svolgimento delle normali attività e al godimento dell'habitat domestico e di quartiere, con pregiudizio al lavoro, alle attività quotidiane, allo svago, alle relazioni amicali, in alcuni casi, all'accesso alla propria abitazione, disagio all'origine di stress ed ansia e, nei casi più gravi, di lesione all'integrità psico-fisica.

Si tratta del danno non patrimoniale “non biologico” conseguente alle immissioni illecite correlato alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e al diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini quotidiane, tutti diritti costituzionalmente garantiti (artt. 2 e 32 Cost), la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 CEDU, norma alla quale il giudice interno è tenuto a uniformarsi (cfr. Cass. civ., sez. un., 1° febbraio 2017, n. 2611, ribadita da Cass. civ., sez. II, 7 maggio 2018, n. 10861, Cass. civ., sez. II, 31 agosto 2018, n. 21504 e Cass. civ., sez. I, 31 agosto 2018, n. 21544).

Va, tuttavia, precisato che tale tipo di danno non può giammai essere considerato in re ipsa ma deve essere provato secondo la regola generale dell'art. 2697 c.c.

Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e deve riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19434; Cass. civ., sez. II,  9 novembre 2018, n. 28742; Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2018, n. 2056).

Difatti, ai fini risarcitori trattandosi di danno-conseguenza che deve essere allegato e provato: non è accettabile la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, ovvero come danno-evento seppur, nella specie, la prova del pregiudizio (sofferto a causa della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, conseguente alle immissioni intollerabili) può essere fornita facendo ricorso anche alle presunzioni.

La complessità della tutela riposa sulla commistione di diritti ed interessi parimenti dotati di copertura costituzionale che possono entrare in conflitto, costituiti dai diritti di impresa e del lavoro che certamente lo sviluppo delle attività di ristorazione e ricreative nelle zone della movida favorisce, tutelati dagli artt. 36, 37, 41 Cost.

L'invocata adozione di provvedimenti restrittivi circa la regolazione in senso restrittivo degli orari di chiusura dei locali ovvero la distribuzione oculata delle licenze commerciali sono tutte azioni che potrebbero confliggere con tali contrapposti interessi e si impone un difficile, ma necessario contemperamento demandato allo stesso giudice ordinario.

In qualche caso, davanti al giudice ordinario sono proprio i titolari dei locali commerciali che impugnano i provvedimenti restrittivi e sanzionatori adottati dall'ente locale, facendo valere il proprio diritto all'esercizio dell'attività di impresa (si veda Trib. Palermo, 19 giugno 2024,  n. 3570).

Nell'ambito dei processi avviati per le immissioni acustiche nocive provocate dalla mala movida, è prioritario l'accertamento istruttorio di tipo tecnico, demandato alla ctu, per stabilire il superamento della soglia di tollerabilità, alla stregua dei parametri individuati dalla normativa nazionale (Legge quadro sull'inquinamento acustico n. 447/1995, che all'art. 6 ha demandato ai Comuni le specifiche competenze), da quella regionale e dai regolamenti degli enti locali.

Un ulteriore fattore di “conflitto” attiene alla competenza nell'adozione di misure preventive rispetto al degrado e alla degenerazione prodotta dall'aggregazione di gruppi di avventori, potendosi ritenere responsabili gli stessi esercenti sia nel caso in cui non si uniformino alle regole comunali prescritte dalle ordinanze adottate sia per i casi di danneggiamenti ed imbrattamenti compiuti nei rispettivi spazi di pertinenza.

Al Comune si rimprovera, invece, di avere adottato provvedimenti amministrativi non oculati nella gestione e distribuzione delle licenze commerciali e di aver predisposto un “piano commerciale” non adeguato a prevenire l'inquinamento acustico ovvero ordinanze inappropriate in tema di orari notturni oltre i quali consentire la protrazione della somministrazione di bevande alcoliche e la diffusione di musica ad altro volume nei pub e discoteche ovvero, ancora, la mancata idonea vigilanza della zona.

La valutazione della idoneità della complessiva attività amministrativa, anche nei casi in cui si invochi una tutela a forma specifica ai sensi dell'art. 2058 c.c. chiedendo l'emissione dell'ordine di un facere alla Pubblica Amministrazione, impone al giudice ordinario di individuare il limite entro cui esercitare il potere giurisdizionale senza incidere sulla sfera discrezionale dell'ente pubblico.

Quanto agli strumenti di tutela, si assiste ad una diversità di strumenti individuati dalla giurisprudenza di merito, rispettivamente riferiti all'art. 844 c.c. ovvero alla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c.

La scelta dell'uno o dell'altro rimedio non è priva di conseguenze rilevanti per i danneggiati, i quali solo nel primo caso possono invocare una tutela di tipo inibitorio.

Una parte della giurisprudenza di merito ha semplicemente fatto ricorso all'art. 844 c.c. e, accertando che la movida nelle vie contigue alle abitazioni degli attori fosse la fonte delle immissioni di cui si lamentava l'intollerabilità, ha riconosciuto la responsabilità del Comune, ente proprietario della strada da cui provenivano le immissioni denunciate, al quale è fatto obbligo di adottare le misure idonee a far cessare dette immissioni, connesse alla conformazione e localizzazione della strada, ed ha riconosciuto oltre alla tutela risarcitoria, anche quella inibitoria ordinando alla Pubblica Amministrazione di far cessare immediatamente le immissioni «mediante l'adozione dei provvedimenti opportuni più idonei allo scopo» (Trib. Brescia, 26 settembre 2017, n. 2621).

Altra parte delle corti di merito, per converso, nega che nella specie possa trovare applicazione la tutela inibitoria e, in radice, che la stessa fattispecie risarcitoria possa inscriversi nella previsione dell'art. 844 c.c., perché ciò che accade nella zona della movida «non dipende da eventi organizzati o autorizzati dal Comune, ma dalla libera aggregazione di un numero eccessivo e incontrollato di persone, attirate dalla presenza dei numerosissimi esercizi commerciali. In altre parole, l'utilizzo abnorme dei fondi pubblici e le “propagazioni” che raggiungono le case dei ricorrenti si situano al di fuori di una positiva attività del Comune rivolta alla destinazione del suolo di sua proprietà» (Trib. Torino, sez. II, 15 marzo 2021, n.1261), ricorrendo dunque all'art. 2043 c.c. e riconoscendo solo una tutela di tipo risarcitorio, sul presupposto che il Comune sia responsabile per non avere adottato alcune misure idonee a regolare e prevenire la degenerazione del fenomeno, tra cui «revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all'interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un adeguato piano di risanamento acustico, che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Vi è poi, di centrale importanza, la questione del limite orario», non efficacemente regolamentato, concludendo per l'impossibilità di condannare l'ente ad un facere quando tale ordine rischi di confliggere con scelte discrezionali della Pubblica amministrazione, che esula dai poteri del giudice ordinario.

La soluzione interpretativa che fa ricorso all'art. 2043 c.c., tuttavia, impone di valutare tutti gli elementi di una condotta illecita di matrice extracontrattuale e, in particolare, l'omissione colposa da parte del Comune nell'adozione di una serie di atti di pianificazione e regolamentazione ordinata della vita notturna di una determinata zona, volta a prevenire le immissioni nocive, nonché la relazione causale tra tale omissione e il danno conseguente subito dai residenti.

La difficoltà di siffatta costruzione giurisprudenziale è sempre correlata alla fonte diretta dell'inquinamento acustico che è rinvenibile nell'attività di gruppi distinti dall'ente la cui responsabilità è “mediata” e discende da una condotta omissiva colposa.

Secondo le regole della causalità omissiva colposa, per ritenere responsabile la Pubblica amministrazione, si dovrà però ragionare individuando le categorie di attività che, se compiute, sarebbero state idonee a prevenire ed elidere il pregiudizio subito, nonché la norma che impone il compimento di un'attività “doverosa”. Indi, l'analisi non potrà prescindere da tali accertamenti e dall'elemento soggettivo.

Diversamente ragionando, si rischierebbe di imputare all'ente una sorta di responsabilità oggettiva da “posizione” derivante dalla competenza a legiferare nella materia in esame ovvero quale proprietario della “strada”, soluzione che non convince (sulle medesime considerazioni si veda la cit. Cass. civ., sez. un., 12 ottobre 2020, n. 21993).

Il risarcimento del danno

Le maggiori difficoltà si manifestano nella quantificazione del danno in assenza di criteri cui ancorare le relative liquidazioni.

Il danno non patrimoniale subito è del tipo “non biologico”, salvo la prova concreta di avere patito anche un danno alla salute, si identifica con la lesione al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiana, che deve essere allegato e provato e il danneggiato è tenuto a dimostrare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla soglia della normale tollerabilità (es. trasferimenti fuori di casa, le assenze a scuola dei figli e le altre circostanze sopravvenute in dipendenza della difficile vivibilità della casa, cfr. Cass. civ., sez. II,  1 ottobre 2018, n. 23754).

In assenza di parametri, peraltro di difficile individuazione, i giudici di merito, seguendo le indicazioni della stessa giurisprudenza di legittimità, hanno adottato un criterio equitativo “puro” ai sensi dell'art. 1226 c.c., non potendo essere provato il danno nel suo preciso ammontare, ricorrendo ad una somma giornaliera moltiplicata per il tempo nel quale la condizione di “invivibilità” si è protratta che, tuttavia, si è rivelata incerta, dando luogo a misure liquidatorie di gran lunga differenziate a parità di pregiudizio patito (ad es., il Tribunale di Torino ha individuato una quota pari ad € 500 al mese e il Tribunale di Brescia di € 50,00 al giorno, escludendo la risarcibilità del danno patrimoniale).

In merito al criterio di liquidazione di un simile danno, la stessa Corte di cassazione ha avallato la legittimità dell'adozione del criterio equitativo, considerata da un lato la certezza del fatto generatore del pregiudizio non patrimoniale nella sua entità oggettiva, ed attesa dall'altro lato l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno stesso (in questo senso, Cass. civ., sez. un., 27 febbraio 2013, n. 4848).

Ogni correttivo e l'applicazione del criterio equitativo, tuttavia, impone al giudice di merito di indicare, almeno sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum (Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2018, n. 2327), dovendosi ritenere censurabili le liquidazioni basate su criteri «manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza» (cfr. Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 2018, n. 4310Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2017, n. 13153).

Sebbene si convenga con i giudici di merito circa l'impossibilità di adottare parametri ancorati al danno alla salute, come spesso richiesto dalle parti, trattandosi di un danno non patrimoniale non biologico, tuttavia, il rischio insito in ogni liquidazione puramente equitativa è quello di generare incertezza e sfociare in arbitrio che solo un'adeguata motivazione può scongiurare.

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