Collegato lavoro e problemi di compatibilità europea
05 Dicembre 2024
* Testo rivisto e corretto dell' audizione scritta avanti la X Commissione del Senato della Repubblica del 5 novembre 2024. Il Collegato - lavoro pendente al Senato È attualmente pendente al Senato della Repubblica presso la X Commissione dopo l'approvazione alla Camera dei deputati il 9 ottobre 2024 con molti emendamenti e disposizioni aggiunte rispetto all'originaria iniziativa legislativa governativa (n. 1532) ed un provvedimento di stralcio di alcune norme più controverse il d.d.l. n. 1264 «Disposizioni in materia di lavoro» promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con il concerto di svariati altri Ministeri. Questo contributo si soffermerà esclusivamente sugli artt. 10 e 11 del Testo così come licenziato dalla Camera dei deputati che presentano profili di connessione e compatibilità con il diritto europeo (ivi compresa la giurisprudenza della Corte di Strasburgo) e con le policies sovranazionali sul mercato del lavoro. Osservazioni sull'art. 10 (punto n. 1 sub a) L'articolo 10 interviene su tre punti dell'attuale regime del contratto di somministrazione che verranno trattati separatamente. L'art. 10, comma n. 1), d.d.l. prevede la doverosa soppressione del quinto e del sesto periodo del primo comma dell'art. 1 d.lgs. n. 81 cioè della possibilità di utilizzare il lavoratore in somministrazione per missioni superiori nel loro complesso al periodo di 24 mesi nel caso in cui il lavoratore sia stato assunto con contratto a tempo indeterminato con l'Agenzia di somministrazione e la detta Agenzia abbia comunicato tale assunzione all'utilizzatore (1). Si tratta di una norma a carattere eccezionale la cui efficacia è a tempo e la cui scadenza è il 30 giugno 2025 introdotta per fronteggiare la crisi pandemica e consentire, nel momento di ripresa del sistema produttivo, contratti a tempo anche in deroga alle disposizioni vincolistiche a carattere generale. Correttamente l'art. 10 d.d.l. ne prevede l'abrogazione essendo questa disposizione non coerente con la disciplina sovranazionale e segnatamente con la direttiva n. 104/2008 come stabilito dalla Corte di giustizia in una prima sentenza 14 ottobre 2020 (2) e ribadito nella successiva del 17 maggio 2022 (3); in quest‘ultima decisione la Corte ha specificato che «missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, ove conducano a una durata dell'attività presso tale impresa più lunga di quella che possa ragionevolmente qualificarsi ̔temporanea̕, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, potrebbero denotare un ricorso abusivo a tale forma di lavoro, ai sensi dell'art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva 2008/104». Pertanto, un limite temporale alla reiterazione dei contratti deve comunque esserci guardando alla sommatoria delle missioni con l'utilizzatore e non già al diverso rapporto con l'Agenzia somministratrice in quanto ciò che interessa è il numero complessive delle missioni che non possono essere oltre un certo limite di ragionevolezza il cui sforamento sarebbe in contraddizione con il termine “temporaneo” utilizzato nella definizione dell'attività di somministrazione (4). Pertanto, la deroga introdotta dal legislatore e concessa per ragioni emergenziali non può perdurare oltre la fine della situazione eccezionale a meno di non esporre lo stato italiano ad un procedimento di infrazione ed al pagamento di eventuali danni per violazione della direttiva. Inoltre, si segnala che secondo la più recente giurisprudenza della Corte di giustizia (5) la clausola antidiscriminatoria della direttiva sui contratti a termine (analoga clausola è presente nella direttiva sul lavoro interinale) potrebbe avere un effetto diretto e condurre ad una disapplicazione della norma interna se collegata all'art. 47 della Carta di Nizza sul giusto processo (nonostante il principio generale per cui le direttive sociali non hanno efficacia diretta nei rapporti orizzontali). Il lavoratore in somministrazione con contratto stabile con l'Agenzia sarebbe infatti discriminato, rispetto a tutti gli altri lavoratori, perché senza l'abrogazione di cui stiamo parlando, potrebbe essere impiegato in missioni “a vita” mentre la direttiva non prevede un trattamento diverso per le missioni in relazione ai rapporti contrattuali con l'Agenzia. Sembra effettivamente che per effetto di questa giusta abrogazione, si debba applicare alle missioni in somministrazione in ogni caso la durata massima fissata all'art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81 dei 24 mesi, posto che è la stessa norma che richiama anche i contratti di missione e che non prevede alcuna distinzione tra lavoratori assunti dalle Agenzie a tempo indeterminato e determinato. Lo stesso legislatore ha ritenuto, peraltro, che il limite di 24 mesi sussistesse anche per missioni di lavoratori che sono assunti a tempo indeterminato dall'Agenzia introducendo una deroga. Il Dossier del Servizio studi del Senato n. 1882 (6) ritiene su questo punto opportuna una chiarificazione, anche per il parere dell'Ufficio legislativo del Ministero del lavoro del 31 ottobre 2018 che ha ritenuto non operante il limite dei 24 mesi per casi come quello in parola, successivamente disatteso dallo stesso Ufficio e smentito dal legislatore che ha introdotto la deroga di cui oggi si chiede l'abolizione, evidentemente sulla base della convinzione che il limite dei 24 mesi fosse di applicazione generale anche per lavoratori assunti stabilmente dall'Agenzia di somministrazione. Ora, se effettivamente si ritenesse ancora dubbio il punto, tale precisazione sarebbe opportuna per evitare che l'ordinamento interno finisca con il violare il diritto dell'Unione come precisato da plurime decisioni della Corte di giustizia. Il secondo comma dell'art. 10 (punto n. 1 caso b): un'estensione inopportuna del lavoro in somministrazione L'art. 10, secondo comma, realizza però una sorta di compensazione tra l'abrogazione necessaria ed urgente di cui sopra e l'estensione dei casi di potenziale ricorso a contratti di somministrazione con deroghe ai limiti quantitativi previsti come percentuale sui dipendenti pleno iure del datore di lavoro. Una breve premessa appare necessaria. L'introduzione del nuovo contratto atipico di lavoro “temporaneo“, poi riformato sino all'attuale lavoro in somministrazione, va correlata ad un confronto europeo molto vivace degli anni ‘90 su una flessibilizzazione “controllata” del mercato del lavoro di cui è parte anche una nota sentenza della Corte di giustizia (7) del 1997 di stigmatizzazione del monopolio assuntivo degli Uffici del lavoro. Allorché fu introdotto nell'ordinamento con la legge 196 del 1997, fu accompagnato da una serie di misure dirette a compensare quella particolare triangolazione dei rapporti contrattuali con la quale opera la separazione tra la figura del datore di lavoro da quella di utilizzatore della prestazione (oggi vietata ancora al di fuori dell'ambito di applicazione della legge che disciplina l'attività delle Agenzie e le autorizzazioni necessarie) (8). La ratio degli interventi interni (condivisi dalla più tarda direttiva del 2008) è quella di tenere sotto controllo le dinamiche di crescita dell'utilizzazione del nuovo istituto (ed anche di altri contratti atipici come il contratto a termine o quello intermittente) in modo da non disgregare completamente le comunità di lavoro e produzione in gruppi eterogenei disciplinati da un ventaglio di norme diverse rendendo così impossibile non solo l'attività sindacale ed una contrattazione unitaria ma anche la condivisione di un minimo di identità collettiva comune. È chiaro che una simile identità non può svilupparsi in un rapporto con un'Agenzia perché questo è solo il tramite per operare in concreto in missioni a tempo presso altro datore, neppure con l'assunzione a tempo indeterminato presso il somministratore che dà luogo ad una copertura durante i mesi di messa a disposizione dell'Agenzia (senza missioni in corso) limitata ad una mera indennità di disponibilità, con conseguente compressione anche della copertura contributiva. Nel linguaggio dell'Unione, soprattutto di oggi dopo l'approvazione nel 2017 dell'European social Pillar provocare una segmentazione eccessiva del mercato del lavoro è certamente pericoloso non solo perché può indebolire il dialogo sociale ma soprattutto perché può mettere a repentaglio la copertura sociale dei lavoratori, segnatamente sul lato pensionistico. Una speciale attenzione è stata riservata dagli organi sovranazionali al rapporto statistico tra l'utilizzazione della forma “comune” di lavoro che rimane subordinata e a tempo indeterminato pleno iure (si vedano le stesse premesse della direttiva del 2008 sul lavoro interinale) e che mediamente in Ue è dell'ordine di circa il 60% della forza lavoro come da ultimi dati Eurofound del 2024 (9) ma che appare in declino e l'utilizzazione delle forme atipiche, cui però si devono sempre aggiungere le collaborazioni autonome (di seconda o terza generazione) che le nuove tecnologie rendono più facili da integrare nel processo produttivo superando le rigidità degli schemi della “dipendenza”. La Commissione europea prevede, ad esempio, che nel 2025 saranno circa 45 milioni coloro che opereranno attraverso le piattaforme lavorative ma di questi solo 5 milioni dovrebbero essere considerati lavoratori subordinati (10), anche grazie alle norme della emananda direttiva. Lo stato economico di un paese viene, quindi, da tempo valutato nel semestre europeo anche alla luce di questo rapporto statistico tra contratti pleno eure e contratti atipici e di lavoro autonomo e certamente non gioverebbe alla valutazione dell'Italia, che è già sotto infrazione per violazione del Patto di stabilità, la convinzione degli organi di controllo europeo che si voglia incrementare in modo significativo il segmento dei rapporti atipici del mercato del lavoro. Da questo punto di vista gli ultimi rapporti Istat che fotografano la situazione italiana in settembre dovrebbe costituire un campanello d'allarme non solo perché gli inattivi sono cresciuti più degli occupati ma perché, nell'ambito delle nuove assunzioni, si è interrotta la precedente prevalenza di quelle a tempo indeterminato pleno iure a vantaggio di assunzioni con contratti atipici. Due sono le principali modalità con cui l'espansione del lavoro somministrato viene nel nostro ordinamento sottoposto a controllo; la durata massima delle missioni e le percentuali massime consentite in rapporto al numero dei dipendenti con contratto di lavoro subordinato. Del primo profilo si è già parlato e su questo piano il d.d.l. opera un'abrogazione di una disposizione transitoria del tutto razionale e coerente con le decisioni della Corte di giustizia. Sembrano invece inopportune le altre modifiche. Si esentano al punto 2) dell'art. 10 dal computo dei limiti quantitativi di assunzione di somministrati a tempo determinato presso un utilizzatore quei lavoratori che hanno con l'Agenzia un rapporto a tempo indeterminato (che, quindi, potremmo dire escono dalla porta per rientrare dalla finestra). Vorremmo solo sottolineare l'assoluta irrazionalità (anche per violazione dell'art. 3 Cost.) di questa esclusione che assimila la condizione di questi dipendenti a tempo indeterminato delle Agenzie a quella di soggetti (già esclusi dal computo) come i disoccupati che godono da almeno dei mesi di trattamenti di disoccupazione o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati come da regolamento (UE) n. 651/2014, cioè lavoratori soggettivamente vulnerabili e già assistiti da meccanismi pubblici di sostegno al reddito (11). Ora coloro che sono assunti dalle Agenzia di somministrazione stabilmente certamente non godono delle coperture di un lavoratore dipendente standard ma comunque non sono tra i gruppi più svantaggiati da proteggere, anche a costo di incrementare i limiti massimi fissati dalla legge per una certa tipologia di lavoro atipico, perché possono godere dell'indennità di disponibilità ed anche dal probabile invio in missione. L'equiparazione è irrazionale perché l'emendamento nel d.d.l. in realtà vuole premiare non il lavoratore ma l'Agenzia per il fatto che l'ha assunto stabilmente. Appare inopportuna questa modifica per una doppia ragione: da un lato il limite previsto per legge è già altissimo addirittura pari al 30% ( cui vanno aggiunti anche gli eventuali collaboratori autonomi) ma perché finisce con il depotenziare anche la possibilità di una fissazione di limiti più stretti di quelli vigenti ex lege da parte della contrattazione collettiva perché la legge li esclude in radice dal computo (assimilandoli a categorie di effettivi “vulnerabili” quali in realtà non sono) e pertanto sembra discutibile e non previsto dall'art. 31 d.lgs. n. 81 che le parti sociali possano comunque includerli nel computo dei limiti numerici di fonte contrattuale. I limiti legali potrebbero, con la nuova norma, volare di fatto verso il 50% e più della forza lavoro complessivamente impiegata squilibrando ulteriormente il mercato del lavoro verso forme di lavoro contrattuali meno garantite di quelle che le direttive definiscono “ordinarie”. Osservazioni sull'art. 11 La norma autodichiara nel suo titoletto di costituire «una interpretazione autentica dell'articolo 21, comma 2, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in materia di attività stagionali”. Tuttavia, l'esame puntuale della norma oggetto di interpretazione e di quella che vorrebbe attribuire un significato “autentico” alla prima ex lege conduce, a nostro avviso, a conclusioni opposte a quella autodichiarate nel d.d.l. L'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 sui lavori stagionali recita «qualora il lavoratore sia riassunto a tempo determinato entro dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Le disposizioni di cui al presente comma non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi. Fino all'adozione del decreto di cui al secondo periodo continuano a trovare applicazione le disposizioni del d.P.R. 7 ottobre 1963». Si tratta di una norma a carattere dilatorio per la riassunzione di lavoratori a termine (a pena di conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato) che già prevede una deroga per gli stagionali. Si vorrebbe, quindi, interpretare “ora per allora” la disposizione nel senso che il detto comma «si interpreta nel senso che rientrano nelle attività stagionali, oltre a quelle indicate dal decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, le attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell'attività lavorativa in determinati periodi dell'anno, nonché a esigenze tecnico-produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall'impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria, ai sensi dell'articolo 51 del citato decreto legislativo n. 81 del 2015». Con questa previsione si vorrebbe superare la chiara indicazione della norma che prevede che siano stagionali quella attività, in aggiunta alla previsioni del d.P.R. del 1963, previamente individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi, attraverso un complicato meccanismo innovativo di indicazione ex lege di causali produttive ritenute attività stagionali da specificare ulteriormente nella contrattazione collettiva (salvando quella già sottoscritta) selezionata, però, attraverso il criterio della maggiore comparatività “nella categoria” di cui all'art. 51 d.lgs. n. 51, norma quest'ultima citata non in modo testuale visto che l'art. 51 menziona solo le associazioni “comparativamente più rappresentative” ma sul piano nazionale. Questa soluzione non può essere legittima né dal punto di vista costituzionale, né sovranazionale, né convenzionale. La norma di cui all'art. 11 attribuisce un significato all'articolo 21 secondo comma del d.lgs. n. 51 incompatibile con la sua formulazione letterale che è puramente di rinvio a procedure di individuazione delle “attività stagionali” da parte del Ministero o dai contratti collettivi che non sono stati individuati in specifico, oltre la sfera applicativa del d.P.R. del 1963. Pur essendo, in particolare, ragionevole e conforme alle richieste della migliore dottrina, una selezione dei soggetti sindacali abilitati a scelte importanti per il mercato del lavoro come quella di stabilire chi possa essere considerato lavoratore stagionale in base ad una nozione che, sia pure non sempre di facile accertamento, è stata recentemente anche convalidata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (13), questa ultima indicazione manca del tutto di una base letterale nella norma originaria che non può essere quindi il presupposto di una interpretazione come quella offerta dall'art. 11. Inoltre, la norma pretesamente “di interpretazione autentica” vorrebbe considerare “attività stagionali” quelle derivanti da mere “esigenze tecnico-produttive”, esigenze certo da specificare nella contrattazione collettiva, ma che possono non avere alcun nesso con un'attività ontologicamente stagionale, trascendendo così lo stesso campo oggettivo di disciplina dell'art. 21 secondo comma. La norma di cui all'art. 11 alla luce anche dei principi enunciati dalla nostra Consulta non può essere considerata “autentica”. Per riprendere la Corte «questa Corte si è ripetutamente espressa nel senso che va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993) … ed ha chiarito che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 15/2012, n. 271/2011, n. 209/2010)» cfr. (14). Essendo palesemente incompatibile con il tenore letterale della norma la disposizione vale solo per l'avvenire (e così l'interpreterebbe senz'altro la Corte di cassazione come ha fatto in innumerevoli altri casi), a meno che il legislatore non la dichiari espressamente a carattere retroattivo, come correttamente ha fatto notare l'Ufficio studi del Senato. In questa denegata ipotesi sussistono però i noti limiti alla retroattività della legge in campo civile enucleati dalla Corte di Strasburgo, recepiti anche dalla Corte di giustizia e dalla nostra Corte costituzionale sia pure talvolta in modo più tollerante come diremo. La Corte di Strasburgo ha infatti chiarito, soprattutto nei confronti dell'Italia (15) e moltissime altre che la retroattività civile è in tensione con uno dei principi fondanti i sistemi giuridici moderni e cioè la certezza del diritto nella sua correlazione con il diritto ad un giusto processo. Sono limiti che la Corte di Strasburgo fissa in via generale per ogni effetto retroattivo in campo civile che vanno rispettati a prescindere che si tratti o meno di un atto di interpretazione autentica, prassi opinabile che costituisce un “male” che affligge soprattutto l'ordinamento italiano. Pertanto la retroattività (in campo civile) non è proibita in modo assoluto ma occorre che sussistano per essa “imperiose ragioni di interesse generale”, situazioni eccezionali non affrontabili diversamente che possono determinare problemi di tipo emergenziale (ad esempio la Germania è stata giustificata per interventi retroattivi per l'emergenza conseguente alla caduta del muro di Berlino) (16). La Corte di Strasburgo ha pertanto stigmatizzato proprio l'Italia in particolare avere utilizzato lo strumento dell'intervento retroattivo (la Corte non distingue, come detto, tra interpretazione autentica e legge retroattiva ma abbiamo già visto che quello dell'art. 11 non può essere considerato un atto di interpretazione autentica) per mutare il destino di processi seriali in corso (cfr. la citata sentenza Agrati) escludendo, fra l'altro, che il motivo economico di salvaguardia del bilancio dello stato sia idoneo a legittimare l'operato dello stato e sottolineando la violazione del principio della parità nelle armi (costitutivo del “giusto processo”) tra cittadini e stato per cui quest'ultimo cambia la regole in corso di gioco avvalendosi di leggi retroattive ( quindi in triplice violazione dell'art. 6 della Convenzione, dell'art. 24 della Costituzione e dell'art. 47 della Carta di Nizza). La nostra Consulta sostanzialmente si è allineata a questa giurisprudenza mostrando, solo in caso eccezionali, una maggiore tolleranza verso interventi che comportano risparmi nella spesa pubblica di importante rilievo come nel noto caso dei lavoratori migranti in Svizzera (17). Nel caso in esame l'intervento legislativo retroattivo disposto all'art. 11 non può di certo giustificarsi in base ad “imperiose ragioni di interesse pubblico”; l'intento retroattivo sembra plausibilmente destinato a risolvere qualche contenzioso pendente, ribaltando per alcuni datori di lavoro l'esito previsto a legislazione immutata e riguarda solo una situazione molto particolare che non può di certo rappresentare quello stato d'emergenza che indica la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Anche per i datori di lavoro privati casi di trasformazione di rapporti a termine in rapporto a tempo indeterminato relativi a quale “stagionale” riassunto troppo presto non dovrebbero provare danni irrimediabili (facilmente evitabili al tempo, peraltro, perché l'art. 21 secondo comma è molto chiaro e netto) posto che se i lavoratori non sono davvero necessari in pianta stabile esistono le procedure ordinarie di risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo. Non c'è quindi nessuna ragione per forzare quelle regole di “fair legislation” (anche con eventuali emendamenti dell'ultima ora che dichiarino espressamente la sola retroattività della norma rinunciando al pericoloso artificio dell'interpretazione autentica) che sono comunemente accettate dai sistemi giuridici interno, sovranazionale e convenzionale, esponendosi così ad una certa condanna della Corte di Strasburgo (come tra le righe prospetta − mi pare − il Servizio studi del Senato). Si potrebbe, inoltre, ritenere che si tratti di una questione di “diritto dell'Unione, in quanto la norma interferisce con le misure interne applicative dell'obbligo di impedire gli abusi nella reiterazione del contratto a termine stabiliti dalla direttiva del 1999 e ribadita in quella del 2008 sul lavoro interinale e che pertanto sarebbe applicabile la Carta dei diritti fondamentali Ue ed il suo art. 47 (sul giusto processo) di applicazione diretta secondo la Corte di giustizia. La norma così emendata all'ultimo momento potrebbe quindi portare a stigmatizzazioni della Corte di giustizia ed anche a procedure d'infrazione, oltre a sicure questioni di legittimità costituzionale. A parte questi profili non appare ragionevole, come detto, né con effetto retroattivo né per il futuro, che si possano ritenere a carattere stagionale le attività derivanti da mere “esigenze tecnico-produttive” a meno di voler conferire all'aggettivo “stagionale” − in via d'imperio − un significato opposto a quello seguito nel linguaggio comune (ed in verità anche in quello tecnico-giuridico). Il terzo comma dell'art. 10. Un primo tentativo di sfondamento del “decreto dignità”? L'altra modifica riguarda l' esclusione di alcune fattispecie di contratti a tempo determinato stipulati tra agenzie di somministrazione e lavoratori dall'ambito di applicazione delle cosiddette causali, le quali consistono in presupposti di ammissibilità di una durata dei contratti di lavoro dipendente a termine superiore a dodici mesi (fermo rimanendo il limite più elevato di ventiquattro mesi). Si esentano dalle “causali” i contratti stipulati dalle agenzie di somministrazione con soggetti rientranti in determinate categorie. Queste ultime sono costituite da: i soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali; i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, di cui al già richiamato regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014 ed individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (12). Ora senza dubbio queste, come già detto prima, sono categorie di lavoratori “vulnerabili” il cui rientro nel mercato del lavoro appare urgente anche per ragioni di motivazione esistenziale; tuttavia la strada percorsa sembra discutile nell'introdurre un regime di deroga al principio delle causali necessarie per superare il limite annuale nei contratti a termine (e nelle missioni), principio che risponde all'esigenza di concedere uno sforamento del termine annuale sono in casi prestabiliti e, in linea di massima, sotto il controllo delle parti sociali attraverso i contratti. Anche su questo punto il ruolo della contrattazione collettiva viene ridimensionato a vantaggio delle Agenzie di somministrazione. Pertanto, pur essendo del tutto obiettiva e valida la ratio della norma gli strumenti giuridici prescelti sembrano molto opinabili e potrebbero preludere a futuri, discutibili, interventi legislativi di ridimensionamento del “decreto dignità”. Note (1) «Nel caso in cui il contratto di somministrazione tra l'agenzia di somministrazione e l'utilizzatore sia a tempo determinato l'utilizzatore può impiegare in missione, per periodi superiori a ventiquattro mesi anche non continuativi, il medesimo lavoratore somministrato, per il quale l'agenzia di somministrazione abbia comunicato all'utilizzatore l'assunzione a tempo indeterminato, senza che ciò determini in capo all'utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato. La disposizione di cui al periodo precedente ha efficacia fino al 30 giugno 2025». (2) CGUE, 14 ottobre 2020, C-81/18. (3) CGUE, 17 maggio 2022, C-232/20. (4) Mi permetto di rinviare al mio Il lavoro in somministrazione e le tutele dell'Unione, in Lav. Dir. Europa, n. 2/2022. (5) CGUE, 20 febbraio 2024, C-715/20. (6) Disponibile online al sito senato.it. (7) CGUE, 11 dicembre 1997, C-55/96. (8) Cfr. M. Biagi, Un diritto in evoluzione. Riflessioni sulla legge n. 196 del 1997, in Marco Biagi Scritti scelti, a cura di M. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, Roma, Giuffrè collana Adapt, 2003, 102 ss. che sottolinea che non si trattava affatto di una riforma di impianto “ liberista”. (9) Disponibile online al sito web eurofound.europa.eu. (10) Cfr. premesse della proposta di Direttiva sul lavoro intermediato dalle piattaforme al sito web eur-lex.europa.eu. (11) Cfr. art. 31 d.lgs. n. 81/2015. Art. 31 “È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo indeterminato di lavoratori di cui all'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali” (12) Il tenore della norma è il seguente” all'art. 34, comma 2, dopo il primo periodo è inserito il seguente: « Le condizioni di cui all'articolo 19, comma 1, non operano in caso di impiego di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali previsto dall'articolo 31, comma 2, del presente decreto». (13) Cfr. sentenza n. 51/2015. (14) Cfr. Corte cost., n. 314/2014. (15) Cfr. le decisioni della Corte di Strasburgo in casi italiani: Maggio c. Italia, 2011; Agrati c. Italia, 2011; De Rosa c. Italia 2012; Arras c. Italia, 2012 e molte altre. (16) Mi permetto di rinviare al mio Limiti alla retroattività della legge civile, 2016. (17) Nella sentenza molto opinabile n. 264/2012, la Consulta non si è allineata con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ma ha emesso un “monito solenne” al legislatore per una soluzione equa per i pensionati emigrati in Svizzera che però è rimasto senza seguito. |