Valutazioni del consulente medico legale in termini di danno biologico permanente, differenziale-incrementativo.
18 Dicembre 2024
Premessa A titolo di introduzione al tema, si richiamano le parti della ordinanza Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2024, n. 21261, di interesse medico legale. Colto da malore per infarto miocardico acuto, S.F. contestualmente cadeva riportando trauma cranico. Il paziente veniva adeguatamente curato in ospedale per la patologia ischemica del cuore. Il trauma cranico era invece sottovalutato; al paziente non veniva praticata tempestivamente una TAC-encefalo; gli era somministrata una farmacoterapia anti-coagulante e anti-aggregante che causava/peggiorava emorragia cerebrale; e la CTU acquisita riteneva colpevolmente erronea la gestione del trauma e la farmacoterapia stessa, ponendo in nesso causale un danno biologico permanente del 20% (non è qui di interesse tornare nel merito delle motivazioni tecniche) che il Tribunale di Busto Arsizio liquidava con valore economico nella scala da 1 a 20. S.F. proponeva appello e la Corte di Milano «ricalcolava l'ammontare del danno risarcibile in misura pari alla differenza tra i corrispettivi della invalidità permanente complessiva (50% n.d.r.) e dei postumi che sarebbero comunque residuati (30% n.d.r.), oltre alla inabilità temporanea». In altre parole, la Corte ricorreva al c.d. danno differenziale incrementativo (DDI). Avverso tale decisione la ASST proponeva ricorso, accolto nello specifico punto in Cassazione, per avere il giudice di Appello «così calcolat(o) senza affatto considerare se la menomazione preesistente fosse da considerare concorrente o coesistente con quella dovuta a responsabilità medica … in quanto, come già affermato da Cass. n. 514 del 2000, le menomazioni coesistenti sono irrilevanti ai fini della liquidazione del danno, dovendo essere prese in considerazione a questi fini solo le limitazioni concorrenti, ossia quelle che insistono, aggravandola, sull'invalidità preesistente” (e la grave patologia cardiaca era qui ritenuta “meramente coesistente con quella neurologica imputata al comportamento dei sanitari»). Considerazioni medico legali Il DDI non è stato calato improvvisamente e inaspettatamente dal cielo della Cassazione. Al palazzo degli Ermellini vi è giunto dopo lungo percorso di anni, passando dalle Corti di merito dove era approdato in ragione di contenziosi alimentati per il tramite proprio di consulenti medico-legali. Anzi, è utile ricordare che il DDI è nato e cresciuto proprio all'Istituto di Medicina Legale della Università di Milano e si richiamano, in proposito, i relativi, ormai datati contributi in letteratura: Grandi M., Farneti A., Mangili F., Brondolo W., Spunti in tema di danno biologico e danno patrimoniale, Padova, 1990, 195-197; Ronchi E., Morini O., Riflessioni in tema di stato anteriore nella valutazione del danno biologico, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 1992, XIV, 547; Grandi M., Le preesistenze nel danno biologico, in Arch. Med. Leg. Ass., 1996, 70-79; Ronchi E., Mastroroberto L., Genovese U., Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente in responsabilità civile e nell’assicurazione privata contro gli infortuni e le malattie. Con contributo medico-legale per la quantificazione della sofferenza morale e del danno da perdita di chances, Giuffré, I ed. 2009, II ed. 2015 (qui con diversa e contraria interpretazione di L. Mastroroberto). Nell'Istituto milanese, liberi Autori, nell'operare valutazioni medico legali a fronte di persone non-integre nello stato anteriore (cioè interessate da preesistenze di rilievo), proponevano, nell'ambito r.c., la “nuova” metodologia del DDI allo scopo di creare presupposti tecnici capaci di portare poi a liquidazioni diverse da quelle allora in uso, palesemente inique. Perché inique? Perché accadeva che nel danneggiato con preesistenze rilevanti tali da determinare attuale maggior pregiudizio disfunzionale, e quindi più rilevante danno biologico (rispetto a persona sana nello stato anteriore), si concedessero maggiorazioni valutative medico legali addirittura risibili. Ad esempio: persona con esiti in una certa misura invalidanti di poliomielite infantile ad un arto inferiore, che subisce frattura bi-malleolare alla gamba controlaterale che si stabilizza in permanente danno biologico per anchilosi della caviglia stessa (indicato al 12% nei barèmes di uso corrente). Ebbene, nella pratica medico legale quotidiana accadeva che in fattispecie consimili, caratterizzate da compromissione deambulatoria di misura oggettivamente assai superiore a quanto avviene comunemente nella persona integra nello stato anteriore, si riconoscessero maggiorazioni di due-tre punti (talora, prodigalmente, 4 punti) rispetto al tabellato 12%, a tacitare le più gravi ricadute negative della persona nel fare quotidiano. Mera concessione elemosiniera. Iniquità sanabile in DDI, ad es., dal pregresso 20% ad un attuale 28% (si intende che si tratta qui di valori utilizzati per miglior chiarezza espositiva). Chi ha proposto valutazioni stragiudiziali e giudiziali con metodo del DDI, ha avuto il merito di promuovere il dibattito, “provocare” la giurisprudenza e far sentire una voce forte e diversa fino nelle stanze degli Ermellini. Non si può negare che la metodologia del DDI, per come concepita ab initio in sede medico legale, ha sempre avuto detrattori (e tuttora ve ne sono nonostante il sistema sia sempre più accolto e diffuso) che hanno criticato il distinguo fra preesistenze coesistenti e concorrenti rispetto alla “nuova” menomazione permanente: la censura mossa -va da sé- è comprensibile in un approccio scientificamente rigoroso, atteso che sono difficilmente configurabili ipotesi di menomazioni coesistenti caratterizzate dall'assenza di qualsivoglia interdipendenza o correlazione funzionale fra organi/apparati/sistemi pur fra loro topograficamente “lontani”. Del distinguo, peraltro, già si teneva conto anche nella metodologia valutativa medico legale in uso anteriormente alla introduzione del DDI; e con questo il distinguo era confermato nella consapevolezza che, nella condivisibile finalità di superamento delle iniquità liquidative di cui sopra, con spirito pragmatico lo si dovesse accettare per “convenzione”. Senza dimenticare che soluzioni convenzionali regolano tutto il sistema del danno a persona, sia in premessa tecnica e sia più ancora in ambito liquidativo: e tuttavia ad un approdo si deve pur giungere. D'altra parte, chi, in nome della Scienza vera si santifica e respinge il distinguo in discorso (con esso il DDI), non propone concrete alternative e riporta tutti alle vecchie iniquità. Ben inteso che se il metodo del DDI esprime sforzi in direzione della Giustizia; tuttavia, non può certo vantare il pregio della perfezione: che a niente e nessuno può appartenere quando si tratti di risarcire con equivalente in denaro il danno alla salute! Ma soprattutto non sembra si sia colta l'importanza della rivisitazione del metodo stesso (che porta il mondo medico legale “fuori da ginepraio”), introdotta dagli Ermellini e ribadita in Cass. civ., ord. 30 luglio 2024, n. 21261. Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte può ormai definirsi costante: Cass. civ., sez. III, 26 marzo 2014, n. 6341; Cass civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28986; Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28990; Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2020, n.514; Cass. civ., sez. III, 21 agosto 2020, n. 17555; Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2021, n. 27265; Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2023, n. 18442; e più recentemente anche Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2024, n. 20894: decisioni, tutte, che danno continuità alle regole di giudizio affermate in particolare nella n. 28986/2019 relatore dott. Marco Rossetti. In Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2024, n. 21261: «Quel che rileva, al fine della stima percentuale dell'invalidità permanente, non sono né formule definitorie astratte (concorrenza o coesistenza delle menomazioni), né il mero riscontro della identità o diversità degli organi o delle funzioni menomanti. Poiché si tratta di accertare un nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire col metodo della c.d. prognosi postuma quali sarebbero state le conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze possono teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell'infortunio, dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana». Dunque, nella stima percentuale, anziché affaticarsi in estenuanti confronti in tema di “concorrenza/coesistenza”, assai più utilmente (per sé e per la giustizia) il medico legale dovrebbe esaminare il problema nella lente del giudizio controfattuale. Attraverso tale ottica sembra aver proceduto il CTU intervenuto in primo grado, a proposito della ordinanza qui in commento. Le ricadute negative nel quotidiano (“le forzose rinunce” come usa dire talvolta la S.C.) che deriverebbero da quella emorragia cerebrale traumatica a persona sana nello stato anteriore, sono diverse o sostanzialmente uguali a quelle derivate al sig. S.F. affetto da cardiopatia post infartuale? Le ricadute sono da ritenere sostanzialmente pari, per cui «dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana». I deficit motori, o altro, correlabili ad esiti di emorragia cerebrale (non è qui dato sapere in quale precisa sede encefalica) non sono diversi per la vittima reale e per la ipotetica vittima sana nello stato anteriore. Poco rileva, all'atto pratico, che infarto miocardico ed emorragia cerebrale (la fattispecie trattata nell'ordinanza) abbiano in comune la compromissione dell'apporto circolatorio; che non si possa prescindere dalla integrità dell'organismo nel suo insieme; e che, con rigore scientifico sono sempre da riconoscere interconnessioni funzionali fra ogni organo, apparato, sistema, così che tutto è da ritenere concorrente e categoricamente va bandito il lemma coesistente. Del distinguo in parola, peraltro, tuttora se ne fa largo uso in altri ambiti valutativi medico legali: così nelle assicurazioni private e –per legge- nella gestione INAIL. (Si apre una parentesi, a questo punto, per osservare che non si hanno particolari circa detta cardiopatia; e più ancora che qui il CTU avrebbe dovuto anche stabilire - nella consueta, inevitabile espressione percentualistica - prima gli esiti della emorragia di “base” cioè quella inizialmente prodotta dal trauma cranico, e poi gli esiti della emorragia aggravata dalla “colpa medica” per poter operare il dovuto calcolo differenziale incrementativo). Stupisce, pertanto, che in secondo grado la Corte di Appello di Milano abbia omesso l'analisi controfattuale nello studio della causalità giuridica, pronunciando così sentenza avviata scontatamente a censura di Cassazione; e va da sé che alla medesima sorte sarebbero destinate tutte le valutazioni medico legali disallineate rispetto alle richiamate regole di giudizio della S.C. Invero, ci si aspetterebbero errori per omessa verifica contro-fattuale nell'esame della causalità, non dal giurista ma dal medico legale. Il quale peraltro potrebbe giustificarsi reclamando che a lui spetta lo studio della sola causalità materiale: ma è di tutta evidenza che anch'egli deve attenersi alle regole della causalità giuridica, come ribadito nella Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2024, n. 21261, certo essendo che le diversità di lingua produrrebbero “effetti-Babele”. Valga al proposito, di seguito, la sintesi di due casi tratti dalla esperienza quotidiana, in cui il medico legale proponeva liquidazione in termini di DDI senza aver operato la corretta verifica contro-fattuale. Persona vittima di colpevole errore chirurgico-ortopedico in corso di impianto di protesi di anca, tale per cui si rendeva necessaria ri-protesizzazione presso altro nosocomio. Il reintervento era eseguito lege artis ed il paziente ne usciva con la ottimale ripresa funzionale cui aspirava ab initio. E tuttavia il consulente medico legale concludeva per DDI dal 20% (che comunque sarebbe residuato anche in assenza di “colpa medica”) all'attuale 25%, in ragione di riduzione di riserva ossea (bone stock) sacrificata nel secondo intervento. Persona paraplegica nello stato anteriore, che a causa del sinistro di cui trattasi subisce l'amputazione di un alluce. Anche questo consulente concludeva per DDI dall'80% (alimentato dalla paraplegia) all'83%. In questo secondo caso, a dispetto della palese concorrenza per identità di funzione menomante, operando la verifica controfattuale il consulente avrebbe dovuto avvedersi che la vittima reale presenta ricadute disfunzionali (forzose rinunce) addirittura inferiori (anzi assenti) rispetto alla vittima ipotetica sana nello stato anteriore; la vittima reale non può reclamare peggiori conseguenze a confronto con ipotetica vittima sana: ragion per cui, escluso il nesso causale, il suo danno -meramente anatomico- avrebbe dovuto essere stimato in micro-permanente con valore della scala da zero a due-tre. E, considerata la ottimale ripresa funzionale, con eguale motivazione (mero danno anatomico) anche nel primo caso, pur a fronte di concorrenza (o meglio, identità d'organo) avrebbe dovuto essere indicato il valore 5% con scala da zero a cinque. Insomma, non basta la mera identità d'organo; la concorrenza non deve essere solo apparente e va verificata in via controfattuale di volta in volta, per stabilire se di fatto comporti aggravamento del danno attuale. In conclusione Il sistema del DDI in r.c., da circa trent’anni introdotto da una parte della Medicina Legale, è stato promosso dalla S.C. ed allo stato risulta utilizzabile nel quotidiano con positivi riscontri: purché si rispetti l’esame controfattuale del caso, secondo regola di giudizio della stessa Cassazione, ad evitare aberranti applicazioni in ambito medico legale da cui possibili conseguenze liquidative del pari ingiuste. |