Come può esercitare il diritto di visita il genitore sottoposto a misura cautelare?
03 Gennaio 2025
Massima In tema di atti persecutori, è legittimo il provvedimento cautelare che disponga il divieto di avvicinamento dell'indagato esteso al figlio minore, non individuato come persona offesa del delitto di atti persecutori, ipotizzato come in danno dell'ex moglie e dei suoceri, nonostante il diritto di visita riconosciuto dal giudice civile della separazione, dovendo il giudice operare un doveroso bilanciamento tra il diritto di visita al figlio, da parte del padre, stabilito in sede civile, e le esigenze di tutela del minore, e potendo, con idonea motivazione, in funzione del "best interest of the child", ritenere prevalenti le ragioni di tutela del minore da ogni pregiudizio su quelle del soggetto maltrattante ad esercitare le prerogative genitoriali. Il caso Con l'Ordinanza del 29 aprile 2024 il Tribunale del riesame di Milano rigettava l'appello proposto avverso l'Ordinanza del Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto l'istanza di revoca della misura del divieto di avvicinamento alla ex moglie, ai suoceri e al figlio minore applicata nei confronti di un soggetto che era stato imputato per il reato previsto dall'art. 612-bis comma 1 e 2 c.p. (atti persecutori), aggravato ai sensi dell'art. 8 comma 4, l. n. 119/2013. Avverso tale Ordinanza l'indagato proponeva ricorso per Cassazione adducendo quattro motivi. In particolare, per quello che in questa sede interessa, con il quarto, e più importante, motivo lamentava gli stessi vizi dei motivi precedenti (violazione dell'art. 125, in relazione agli artt. 292,310 c.p.p. e correlati vizi di motivazione) con riguardo alla misura del divieto di avvicinamento al figlio minore, sostenendo che la limitazione prevista dall'art. 282-ter c.p.p. può essere posta solo a tutela della persona offesa e, poiché il figlio minore non era tale, non poteva essere considerato come uno dei soggetti al quale l'imputato non poteva avvicinarsi; anzi, il Giudice avrebbe dovuto applicare una misura cautelare che potesse garantire al padre l'esercizio del diritto alla genitorialità anche alla luce della Sentenza depositata in sede civile la quale stabiliva il diritto di vista al figlio minore. La Suprema Corte con la Sentenza di cui si tratta, ha dichiarato inammissibile il ricorso. La questione La questione presa in esame è la seguente: in sede di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento, il Giudice come deve valutare e tutelare la figura del figlio minore non individuato come persona offesa, qualora sussista un provvedimento del giudice civile che riconosca all’indagato il diritto di visita? Le soluzioni giuridiche La sentenza in commento ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare nel punto in cui deduceva violazione di legge e vizi della motivazione con riferimento al divieto di avvicinamento esteso al figlio minore, non individuato come persona offesa del delitto di atti persecutori, ipotizzato come in danno dell'ex moglie e dei suoceri. La Corte premette che quanto dedotto dall'indagato è erroneo poiché, anche qualora si ritenesse che il figlio minore non sia persona offesa dal reato, è, comunque, e proprio il comma 2 dell'art. 282-ter c.p.p. a specificare espressamente la possibilità per il Giudice di prescrivere ed estendere il divieto di avvicinamento anche a persone diverse da quella offesa ovvero anche ai suoi congiunti, o persone con essa conviventi o comunque legate da relazione affettiva. In merito all'esistenza di un provvedimento emesso in sede civile nel quale il Giudice ha riconosciuto il diritto di vista dell'indagato, la Corte ha rilevato che debba procedersi in tal caso ad un bilanciamento tra il diritto suddetto e le esigenze di tutela del minore. Sulla scorta di tale principio, quindi, la Corte ha ritenuto che il Tribunale del riesame, rilevando che la gestione del minore aveva rappresentato l'occasione per l'imputato di reiterare le condotte oggetto del capo di imputazione, aveva correttamente ritenuto prevalenti le esigenze di tutela del minore. Secondo la Suprema Corte, la conclusione alla quale è pervenuto il Tribunale del riesame, trova conforto nel principio del “best interest of the child” ovvero del “superiore interesse del minore” che rappresenta il principio informatore di tutta la normativa a tutela del fanciullo sia nell'ordinamento interno (art. 2 e 30 Cost.) che in quello internazionale. In particolare, in ambito internazionale, la sentenza in commento richiama: - l'art. 3 dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (Convention on the Rights of the Child) che venne approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20 novembre 1989, ratificata dall'Italia con legge 27 maggio 199 n. 176; - gli artt. 3 e 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU); - l'art. 31 della Convenzione di Istanbul, il quale richiede che, nei provvedimenti afferenti ai minori, devono essere prese in considerazione eventuali pregresse azioni violente del genitore maltrattante non solo nei confronti del minore, ma anche nei riguardi dell'altro genitore. Per quanto concerne l'ordinamento interno, la stessa sentenza rileva che il diritto del minore a non subire pregiudizi è stato ulteriormente ribadito e rafforzato dalla c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022) che ha previsto una sezione del codice di procedura civile interamente dedicata alla violenza domestica e di genere (artt. 473-bis, 40 e 46 c.p.c.). Sulla base di tutte queste forme di tutela dello stesso interesse, ovvero quello del minore, che comunque sono sempre in via di evoluzione e sviluppo, la Suprema Corte ha ritenuto di dichiarare inammissibile il ricorso presentato dall'indagato e di condannarlo al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende, ritenendo sussistenti, con riferimento alla ritenuta inammissibilità, anche profili di colpa emergenti dal ricorso. Osservazioni La soluzione interpretativa adottata dalla Corte di Cassazione conferma senza dubbio il fatto che il principio del superiore interesse del minore è sicuramente uno dei più importanti del nostro ordinamento e dell'ordinamento internazionale e che ha, in ogni ambito di applicazione, una considerazione preminente. L'interesse superiore del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; questa responsabilità ricade in primo luogo sui genitori ma anche su tutti i soggetti che hanno a che fare con la vita del minore. Tale pronuncia, inoltre, è certamente la perfetta applicazione di quanto espresso dalla Carta dei diritti dell'Unione europea (anche nota come Carta di Nizza) che è stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 dal Consiglio d'Europa e adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo e che oggi fa parte del Trattato di Lisbona, entrato in vigore l'1 dicembre 2009; secondo l'art. 24, comma 2 infatti, in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente. Sull'argomento, la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha più volte ricordato che, anche per quanto riguarda la vita familiare di un minore, esiste attualmente un ampio consenso – anche nel diritto internazionale – intorno all'idea che in tutte le decisioni che riguardano dei minori, il loro interesse superiore deve prevalere (Strand Lobben e altri c. Norvegia [GC], n. 37283/13, § 207, 10 settembre 2019, Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 135, CEDU 2010, e X c. Lettonia [GC], n. 27853/09, § 96, CEDU 2013). In particolare, nella pronuncia I.M. e altri c. Italia, 10 novembre 2022, la Corte ha spiegato che in generale, da un lato, l'interesse superiore del minore impone che i legami tra lo stesso e la sua famiglia siano mantenuti, salvo nei casi in cui quest'ultima si sia dimostrata particolarmente indegna: rompere tale legame significa tagliare al figlio le sue radici. Di conseguenza, solo circostanze del tutto eccezionali, in linea di principio, possono portare a una rottura del legame familiare, e deve essere fatto il possibile per mantenere le relazioni personali e, se del caso, al momento opportuno, “ricostruire” la famiglia (Gnahoré c. Francia, n. 40031/98, § 59, CEDU 2000-IX). D'altra parte, è evidente che garantire al minore uno sviluppo in un ambiente sano rientra in tale interesse, e che l'articolo 8 non può autorizzare un genitore ad adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo di suo figlio (si vedano, tra molte altre, Neulinger e Shuruk, sopra citata, § 136, Elsholz c. Germania [GC], n. 25735/94, § 50, CEDU 2000 VIII, e Maršálek c. Repubblica ceca, n. 8153/04, § 71, 4 aprile 2006). Sebbene l'articolo 8 della Convenzione non contenga alcuna condizione procedurale esplicita, il processo decisionale deve essere equo e idoneo a rispettare adeguatamente gli interessi protetti da tale disposizione. I genitori devono prendere sufficientemente parte al processo decisionale, considerato complessivamente, affinché si possa ritenere che abbiano beneficiato della protezione richiesta dei loro interessi e siano pienamente in grado di presentare la loro causa. Le giurisdizioni nazionali devono procedere a un esame approfondito della situazione familiare nel suo complesso e di tutta una serie di elementi, in particolare di ordine fattuale, affettivo, psicologico, materiale e sanitario, e procedere ad una valutazione equilibrata e ragionevole dei rispettivi interessi di ciascuno, cercando costantemente di determinare quale sia la migliore soluzione per il minore, considerazione che assume un'importanza fondamentale in tutte le cause. Il margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali competenti varia a seconda della natura delle questioni controverse e dell'importanza degli interessi in gioco (Petrov e X c. Russia, n. 23608/16, §§ 98-102, 23 ottobre 2018). Inoltre, secondo la Corte, per quanto riguarda i minori, che sono particolarmente vulnerabili, le disposizioni stabilite dallo Stato per proteggerli da atti di violenza che rientrano nell'ambito di applicazione degli articoli 3 e 8 devono essere efficaci ed includere misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza, nonché una efficace prevenzione per proteggere i minori da tali gravi forme di lesioni personali. Il principio dell'interesse superiore del minore è sancito anche dalla Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall'Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176), il cui art. 3, paragrafo 1, stabilisce che “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” Esso viene, poi, richiamato più volte anche nella Convenzione di Istanbul, in particolare: nell'art. 26 sulla protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza (“Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo necessarie per garantire che siano debitamente presi in considerazione, nell'ambito dei servizi di protezione e di supporto alle vittime, i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione. Le misure adottate conformemente al presente articolo comprendono le consulenze psico-sociali adattate all'età dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione e tengono debitamente conto dell'interesse superiore del minore”); soprattutto nell'art. 31, secondo cui, nel momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, debbano essere presi in considerazione i pregressi episodi di violenza ad opera del genitore o dei genitori (non solo nei casi di violenza diretta sui minori o da essi assistita, ma anche nei casi in cui la condotta violenta sia perpetrata esclusivamente in danno dell'altro genitore) che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione; a tal fine, inoltre, devono essere adottate le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini; e nell'art. 51 comma 1 che dispone che “le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”. Nell'ordinamento Italiano il diritto del minore a non subire pregiudizi risiede, fin dall'origine, sia nell'art. 2 secondo il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e sia nell'art. 30 della Costituzione “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”. Inoltre, come esattamente ricorda la sentenza in esame, tale diritto non è tutelato solo a livello costituzionale ma anche, specificamente, in ambito civile e penale; in particolare, in ambito civile, recentemente la riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022) ha introdotto una sezione del codice di procedura civile interamente dedicata alla violenza domestica o di genere (artt. 473-bis, 40-46 c.p.c.) le cui disposizioni si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell'altra o dei figli minori. La Suprema Corte, pertanto, con la pronuncia in commento, ha rispettato pienamente tutti i principi espressi non solo a livello nazionale ma soprattutto a livello internazionale che hanno tutti in comune il fatto che in ogni evento nel quale sia coinvolto un minore, deve costituire oggetto di primaria considerazione “il maggiore interesse del bambino” e che, quindi, tutti gli altri interessi devono essere a questo sacrificati. La novità del principio formulato dalla sentenza in commento risiede nella circostanza che esso è specificamente affermato, diversamente dai precedenti che fanno riferimento a fattispecie in cui il minore è vittima di violenza domestica (Cass. pen., sez. VI, sent. 12 marzo 2024, n. 20004), con riguardo al caso in cui lo stesso minore non sia individuato come persona offesa del delitto di atti persecutori. Sul punto, occorre ricordare che non sempre il minore si trova giuridicamente ad occupare direttamente la posizione di persona offesa dal reato, ma, nonostante ciò, si trova comunque a subire pregiudizio da esso; ad esempio quando i comportamenti vessatori o gli atti di violenza fisica perpetrati dai genitori (o da soggetti a loro vicini e investiti di funzioni di cura), non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all'interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita). Sul punto si segnala che è considerata persona offesa nei reati di violenza sessuale aggravati ai sensi dell'art. 61 n.11 quinquies c.p., il minore che ha assistito al fatto delittuoso e, come tale, è legittimato alla costituzione di parte civile ed all'impugnazione (Cass. Sez. III, n. 45403/2016). Nello stesso senso, con riferimento al delitto di cui all'art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari o conviventi), è considerato persona offesa un infante che assista alle condotte di maltrattanti poste in essere in danno di altri componenti della sua famiglia, a condizione che tali condotte siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello stesso (Cass. Sez. VI, n. 27901/2020): si tratta del riconoscimento della suddetta 'violenza assistita', che si inscrive nel consolidato filone giurisprudenziale per il quale il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno di un figlio minore, ma lo coinvolgano indirettamente, come involontario spettatore delle condotte poste in essere nei riguardi di altri componenti della famiglia, a condizione che sia stata accertata l'abitualità delle condotte e che le stesse siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello spettatore passivo (v. anche Cass. Sez. VI, n. 18833/2018). Con riferimento al delitto di cui all'art. 612-bis c.p. (atti persecutori), invece, sembra esservi un contrasto di giurisprudenza; da un lato, infatti, si afferma che nel reato di atti persecutori aggravati dall'art. 61, comma 1, n. 11 quinquies c.p., il minore che ha assistito al fatto delittuoso riveste la qualifica di persona offesa e, come tale, è legittimato alla costituzione di parte civile ed all'impugnazione (Cass. Sez. V, n. 74/2020), dall'altro lato, si sostiene che l'aggravante del fatto commesso in presenza di un minore o di persona in stato di gravidanza, di cui all'art. 61, comma 1, n. 11 quinquies c.p. non è applicabile al reato di atti persecutori, essendo prevista solo per i delitti non colposi contro la vita e l'incolumità personale e contro la libertà personale, tra i quali non rientra il reato di cui all'art. 612-bis c.p. (Cass. Sez. V, n. 19372/2021). In verità, con riferimento al tema della individuazione delle persone offese dal reato il contrasto non sussiste, poiché esso si incentra solo sull'applicabilità della suddetta aggravante, che, in effetti, non dovrebbe applicarsi al delitto di atti persecutori inserito tra i “delitti contro la libertà morale” e non tra quelli contro la libertà personale; con riferimento, invece, al tema della persone offese dal reato rimane ferma la consolidata giurisprudenza sulla c.d. violenza assistita, la quale presuppone che il minore percepisca le condotte vessatorie e ne ricavi uno stato di sofferenza psico-fisica, mentre ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'essere stato il delitto commesso alla presenza di un minore, prevista dall'art. 61, n. 11 quinquies c.p., non è necessario che il minore, esposto alla percezione della condotta illecita, abbia la maturità psico-fisica necessaria per comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza (Cass. Sez. III, Sentenza n. 18097/2019). A conferma di tale interpretazione si pone quella giurisprudenza che, con riferimento al delitto di cui all'art. 572 c.p. afferma che il reato di maltrattamenti, aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore, prevista dall'art. 61, n. 11 quinquies c.p., si differenzia dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore, vittima di violenza cd. assistita, perché, ai soli fini della configurabilità dell'aggravante, non è necessario che gli atti di sopraffazione posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità (Cass. Sez. VI, n. 8323/2021 - In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non esservi incompatibilità tra l'assoluzione dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minori e la riconosciuta sussistenza del reato di maltrattamenti in danno della loro madre e della loro nonna, aggravato, ai sensi dell'art. 61, n. 11 quinquies c.p., dall'avere essi sporadicamente assistito alle condotte prevaricatrici). In definitiva la pronuncia in commento è la dimostrazione del fatto che nel nostro ordinamento vi sia certamente una volontà sempre maggiore di tutelare il minore indipendentemente dalla qualifica giuridica che allo stesso si possa attribuire in relazione al fatto subito. |