La vicenda in breve
La vicenda trae origine dall'impugnazione, da parte di un RTI, del provvedimento di esclusione comminato dalla S.A. da una procedura ad evidenza pubblica, indetta ai sensi del d.lgs. n. 36/2023, per l'affidamento del servizio di noleggio di personal computer desktop, notebook, tablet e stampanti, servizi informatici e fornitura consumabili, da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. In sintesi, l'Amministrazione motivava detta esclusione sull'assunto che i notebook offerti dal RTI «sono dotati di una porta USB type A 3.2 e di due porte USB type C 4/Thunderbolt 4, mentre il capitolato speciale d'appalto richiede invece, fra le caratteristiche minime, che gli stessi siano dotati di tre porte USB di cui due type A (almeno 3.2) ed una type C». Avverso tale profilo, la ricorrente, tra i motivi di doglianza, evidenziava che - rispetto alle porte USB del portatile, così come per le altre caratteristiche minime stabilite dal capitolato speciale d'appalto - «troverebbe applicazione il principio di equivalenza, richiamato in via generale dall'art. 16 del disciplinare di gara e comunque applicabile in forza dell'art. 79 e dell'allegato II.5 del d.lgs. n. 36/2023», a prescindere, peraltro, dalla formulazione o meno, in sede di presentazione dell'offerta, di una formale dichiarazione di equivalenza.
Sulla individuazione delle caratteristiche dell'oggetto di appalto
Preliminarmente, il Collegio ha rammentato che l'amministrazione, nella dialettica fra tutela della concorrenza e perseguimento dell'interesse pubblico primario, gode di un'ampia discrezionalità nella selezione dell'oggetto dell'appalto e delle sue caratteristiche tecniche, in modo tale da acquisire, pur in un contesto concorrenziale, i beni e i servizi maggiormente idonei a soddisfare l'interesse pubblico specifico, secondo scelte, peraltro, che «non sono sindacabili dal giudice amministrativo salvo che si palesino manifestamente irrazionali, arbitrarie, illogiche e contraddittorie o lesive dei principi di proporzionalità e ragionevolezza» (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, n. 2229/2024). Come efficacemente evidenziato in via pretoria, in tali casi «il controllo del giudice è pieno, ossia tale da garantire piena tutela alle situazioni giuridiche private coinvolte; è vero che egli non può agire al posto dell'amministrazione ma può sicuramente censurare la scelta chiaramente inattendibile, frutto di un procedimento di applicazione della norma tecnica viziato, e annullare il provvedimento basato su di essa» (Cons. Stato, n. 4155/2024). In sostanza, lo schema del ragionamento che il giudice è chiamato a svolgere sulle valutazioni tecniche può essere così descritto: (i) il giudice può limitarsi al controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito nell'attività amministrativa se ciò appare sufficiente per valutare la legittimità del provvedimento impugnato e non emergano spie tali da giustificare una ripetizione, secondo la tecnica del sindacato intrinseco, delle indagini specialistiche; (ii) il sindacato può anche consistere, ove ciò sia necessario ai fini della verifica della legittimità della statuizione gravata, nella verifica dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio tecnico e al procedimento applicativo. Se è assodato, quindi, che il giudice ha pieno accesso al fatto, occorre aggiungere che l'accesso al fatto non può consentire la sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione nelle valutazioni ad essa riservate. Pertanto, scontata l'opinabilità della valutazione, il giudice non può sostituirsi alla P.A., essendogli consentita la sola verifica di ragionevolezza, coerenza e attendibilità delle scelte compiute dalla stessa. Ne consegue che se è stata riscontrata una corretta applicazione della regola tecnica al caso di specie, il giudice deve fermarsi, quando il risultato a cui è giunta l'amministrazione è uno di quelli resi possibili dall'opinabilità della scienza, anche se esso non è quello che l'organo giudicante avrebbe privilegiato. In sintesi, «il sindacato del giudice nel valutare la legittimità di valutazioni frutto di discrezionalità tecnica, è pieno, penetrante, effettivo, ma non sostitutivo; dinanzi a una valutazione tecnica complessa il giudice può pertanto ripercorrere il ragionamento seguito dall'amministrazione al fine di verificare in modo puntuale, anche in riferimento alla regola tecnica adottata, la ragionevolezza, la logicità, la coerenza dell'iter logico seguito dall'autorità, senza però potervi sostituire un sistema valutativo differente da lui stesso individuato» (Cons. Stato, n. 7931/2023).
Ebbene, muovendo al tema qui di interesse, il TAR ha precisato che la stessa ampia discrezionalità (con i medesimi stringenti limiti al sindacato del giudice amministrativo) è riconosciuta all'amministrazione anche nella selezione delle caratteristiche tecniche che assurgono a requisiti minimi ed indefettibili dell'offerta ed in assenza delle quali non potrà che essere disposta, anche qualora manchi un'espressa comminatoria in tal senso nella lex specialis di gara, l'esclusione dell'operatore economico (così, recentemente, Cons. Stato, n. 82/2025). Alla luce di quanto sopra, quindi, la qualificazione di una caratteristica tecnica come requisito minimo «può ricavarsi da un'espressa indicazione in tale senso contenuta lex specialis di gara oppure essere desunta dalla descrizione che quest'ultima ne ha fatto e che ne rivela in modo certo ed evidente il carattere essenziale» (si veda Cons. Stato, n. 7102/2024).
Sul principio dell'equivalenza
Il Collegio, anzitutto, ha evidenziato come il principio di equivalenza - ricavabile dall'Allegato II.5 del d.lgs. n. 36/2023 (riproduttivo, peraltro del previgente art. 68 del d.lgs. n. 50/2016) - è finalizzato, in sintesi, a evitare un'irragionevole limitazione del confronto competitivo fra gli operatori economici, precludendo l'ammissibilità di offerte aventi oggetto sostanzialmente corrispondente a quello richiesto e tuttavia formalmente privo della specifica prescritta, senza tuttavia poter essere invocato per ammettere offerte tecnicamente inappropriate o che comprendano soluzioni che, sul piano oggettivo funzionale e strutturale, non rispettino le caratteristiche tecniche obbligatorie, finendo per costituire un aliud pro alio (in giurisprudenza, inter alia, si veda Cons. Stato, n. 4624/2023). In ragione di ciò, si è rilevato in giurisprudenza come il principio di equivalenza possa trovare applicazione, a rigore, «solo con riferimento a quelle specifiche tecniche non qualificate come requisiti minimi obbligatori» (sul punto, Cons. Stato, n. 1006/2022). Di recente, tuttavia, si è fatto strada un approccio di tipo “funzionale” che ha esteso l'applicabilità di tale principio anche ai requisiti minimi obbligatori c.d. “funzionali”, quelli cioè per i quali la lex specialis di gara - a differenza dei requisiti minimi obbligatori c.d. “strutturali” - esplicita le finalità ed i bisogni dell'amministrazione che la previsione di una determinata caratteristica tecnica sarebbe destinata a soddisfare (tra le altre, Cons. Stato, n. 4155/2024 e n. 8189/2023).
Nell'economia complessiva della questione appena citata, non deve essere trascurato che il principio di equivalenza è stato introdotto nel sistema dal legislatore europeo (ex articolo 42, par. 6, della direttiva 2014/24/UE) al chiaro fine di evitare che le “specifiche tecniche” fossero utilizzate dalle S.A. in modo restrittivo della concorrenza, richiedendo caratteristiche tecniche dei prodotti, se non addirittura riconducibili solo a specifici produttori o processi di produzione, idonee a limitare fortemente la platea degli operatori economici in possesso delle capacità tecniche che consentissero loro di partecipare alla procedura di affidamento. Ne consegue la distinzione operata dalla giurisprudenza tra le “specifiche tecniche”, rispetto alle quali il principio di equivalenza è sempre applicabile, e i diversi “requisiti minimi obbligatori” che possono essere richiesti a pena di esclusione; ciò in quanto essi esprimono la definizione a priori dei bisogni dell'Amministrazione, e quindi hanno l'effetto di perimetrare a monte i tipi di prestazioni che sono state considerate idonee a soddisfare tali bisogni. Orbene, la giurisprudenza ha ritenuto il principio di equivalenza estensibile anche ai requisiti minimi qualificati come obbligatori dalla disciplina di gara sulla scorta di un approccio di tipo “funzionale”, ossia con riferimento a fattispecie in cui «dalla stessa lex specialis (al di là di alcuni casi in cui era già quest'ultima a richiamare l'applicabilità del principio de quo anche ai requisiti tecnici minimi) emergeva che determinate caratteristiche tecniche erano richieste al fine di assicurare all'Amministrazione il perseguimento di determinate finalità, e dunque poteva ammettersi la prova che queste ultime fossero soddisfatte anche attraverso prodotti o prestazioni aventi caratteristiche tecniche differenti da quelle richieste» (Cons. Stato, n. 8189/2023). Questo con un'avvertenza generale: la distinzione tra requisiti tecnici minimi “strutturali” (a cui il principio de quo non sarebbe mai applicabile) e “funzionali” (per i quali varrebbe quanto sopra detto) sarebbe comunque «molto sfumata e opinabile, essendo stato adottato l'approccio funzionale finanche per ammettere la possibilità di offrire prodotti di materiale diverso da quello richiesto a pena di esclusione dalla lex specialis» (Cons. Stato, n. 10536/2023).
Alla luce di quanto sopra detto, quindi, si consideri che la qualificazione in termini “strutturali” o “funzionali” di un requisito minimo prescritto dalla legge di gara non dipende tanto dalla natura del requisito in sé considerata (es. previsione della composizione del prodotto in uno specifico materiale), bensì dall'esistenza o meno nella lex specialis dell'esplicitazione delle finalità e dei bisogni dell'Amministrazione che la previsione di una determinata caratteristica tecnica è destinata a soddisfare (si veda Cons. Stato, n. 4155/2024). Da tale angolo visuale, si consideri che non è dato trarre argomenti ermeneutici utili neanche dal d.lgs. n. 36/2023 medesimo, che, a ben vedere, si limita a riprodurre - come detto - il testo del previgente art. 68 del d.lgs. n. 50/2016 nell'allegato II.5, e, quindi, in un testo destinato ad assumere rango regolamentare, con ciò mostrando di non aver tenuto conto non solo degli approdi giurisprudenziali più recenti (tant'è che un principio di equivalenza di portata “espansiva” come quello qui evidenziato avrebbe forse richiesto una disposizione primaria) e di aver - forse - voluto ribadire la circoscrizione della portata del principio in questione alla sola sfera delle “specifiche tecniche” (in senso stretto).
Nel caso di specie, il TAR, aderendo all'indirizzo interpretativo supra citato, ha rilevato quindi come, in punto di diritto, il principio di equivalenza di che trattasi deve trovare applicazione anche ai requisiti minimi obbligatori funzionali.
Sull'onere della prova dell'equivalenza
Per completezza, preme evidenziare come il Collegio, con la pronuncia in commento, ha rimarcato pure il fatto che l'onere della prova dell'equivalenza del prodotto offerto a quello indicato nella legge di gara grava non sulla S.A. ma sull'interessato, il quale, già in sede di offerta, «è tenuto ad offrire tutti gli elementi e la documentazione idonea a dimostrarne la sussistenza» (cfr. TAR Torino, n. 772/2023), non potendo limitarsi ad affermare genericamente che il proprio prodotto sia equivalente a quello richiesto dalla stazione appaltante (TAR Catania, n. 1349/2024). Al contempo, le valutazioni dell'Amministrazione in ordine alla equivalenza o meno del prodotto offerto «sono espressioni di ampia discrezionalità e di conseguenza le relative censure, che investono il merito di tali valutazioni, sono sottratte al sindacato di legittimità, salva l'ipotesi della loro manifesta irragionevolezza, arbitrarietà, illogicità, irrazionalità o travisamento dei fatti» (Cons. Stato, n. 1019/2024).