La sentenza in esame decide su alcune questioni in tema di intercettazioni proposte con un ricorso, dichiarato inammissibile dalla Corte di cassazione, ma che suscita serie perplessità e avrebbe meritato una più profonda riflessione.
Il riconoscimento in dibattimento della voce dell'imputato intercettato può essere effettuato da un ufficiale di polizia giudiziaria che non ha partecipato all'ascolto delle conversazioni intercettate?
Con il primo motivo di impugnazione, si lamentava inosservanza degli artt. 110,142,177,268 c.p.p. e 89 disp. att. c.p.p.
A giudizio della difesa, la mancata sottoscrizione del verbale di sommaria trascrizione dell'intercettazione, da parte del brigadiere dei Carabinieri che, assunto come testimone a dibattimento ha riconosciuto la voce dell'imputato, comporterebbe incertezza assoluta in ordine all'identità dei soggetti intervenuti nell'attività di ascolto e trascrizione con conseguente nullità del verbale stesso.
Nel ricorso si sottolinea come il menzionato brigadiere sia stato l'unico teste escusso in ordine all'attribuzione all'imputato di una delle voci registrate, nonostante lo stesso militare non sia indicato tra gli operanti che hanno predisposto e sottoscritto il verbale di sommaria trascrizione.
Il motivo di ricorso è stato dichiarato manifestamente infondato perché la Corte non ha ravvisato alcuna incertezza in ordine ai militari dell'Arma che hanno ascoltato e proceduto alla sommaria trascrizione della conversazione intercettata.
Secondo la sentenza, l'accesso agli atti, «consentito ed anzi necessario in caso di questioni processuali», comprova che l'attività di ascolto e sommaria trascrizione è stata svolta – presso la sala ascolto della Procura della Repubblica – da un maresciallo e da un vice-brigadiere dei Carabinieri, i quali, terminata l'attività di sommaria trascrizione, hanno correttamente proceduto a sottoscrivere il relativo verbale.
La Corte, inoltre, rimarca che nessuna nullità può derivare dalla circostanza che un diverso militare abbia - successivamente alla redazione del verbale di sommaria trascrizione da parte dei predetti ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria - proceduto all'ascolto della conversazione intercettata al fine di un eventuale riconoscimento delle voci degli interlocutori.
Secondo la sentenza, “tale accertamento, rientra, infatti fra le attività di indagine rimesse alla discrezionalità della polizia giudiziaria”, attività, peraltro, legittimamente svolta dal militare in assenza di norme procedurali che vietino l'ascolto delle intercettazioni da parte di investigatori diversi da quelli che hanno proceduto alla trascrizione della captazione.
La decisione lascia perplessi perché sorge spontanea la domanda di quale sia stato il momento di ascolto della conversazione intercettata, visto che di tale ascolto non vi è alcun verbale, né altra documentazione. È vero che il riconoscimento delle voci dei conversanti non è precluso agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, rientrando esso tra gli atti atipici della loro attività, ma è altrettanto vero che essi devono redigere un verbale o almeno una annotazione di ogni attività di polizia giudiziaria da essi compiuta, come prescrive l'art. 357 c.p.p. Indubbiamente la comparsa in dibattimento, come teste, di un ufficiale di polizia giudiziaria che, pur non avendo partecipato all'ascolto delle conversazioni intercettate, afferma di averle ascoltate, senza però aver documentato l'attività svolta, in violazione delle prescrizioni di legge, fa sorgere molti dubbi in proposito.
L'identificazione in sede dibattimentale della voce dell'imputato non deve rispettare le formalità previste per la ricognizione?
Con il secondo motivo di impugnazione si era dedotta la violazione degli artt. 191 e 216 c.p.p. e la conseguente inutilizzabilità dell'intercettazione.
Il riconoscimento della voce dell'imputato, effettuato, nel corso della sua deposizione testimoniale, da parte di un investigatore diverso da quelli che hanno proceduto alla sommaria trascrizione della captazione, sarebbe stato assunto in violazione dell'art. 216 c.p.p. nella parte in cui regolamenta le modalità di svolgimento della ricognizione di voci.
Inoltre, il riconoscimento vocale sarebbe stato ritenuto attendibile nonostante il militare che ha proceduto al riconoscimento stesso non interloquisse con l'imputato da oltre quattro anni e senza tenere conto della variabilità della voce a livello interindividuale e intra-individuale nonché della differenza del canale di trasmissione della voce stessa.
La Corte ha ritenuto il secondo motivo di impugnazione al contempo manifestamente infondato e generico.
La sentenza si adegua al principio di diritto secondo cui le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che abbiano asserito di aver riconosciuto la voce dell'imputato sono legittimamente utilizzabili ai fini dell'identificazione degli interlocutori coinvolti in conversazioni intercettate nel corso delle indagini preliminari, quando è ritenuta attendibile la deposizione di colui che afferma di identificarlo con sicurezza, senza che sia necessario espletare perizia fonica (vedi Cass. pen., sez. II, 27 gennaio 2017, n. 12858, De Cicco, Rv. 269900 – 01; Cass. pen., sez. V, 9 marzo 2021, n. 20610, Sadikaj, Rv. 281265 – 02 e da ultimo Cass. pen., sez. II, 15 ottobre 2024, n. 44818, Di Silvio, non massimata).
Secondo la Corte, «il momento ricognitivo costituisce, invero, parte integrante della testimonianza, di tal che l'affidabilità e la valenza probatoria dell'individuazione informale discendono dall'attendibilità accordata al teste e alla deposizione dal medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del decidente che, ove sostenuto da congrua motivazione, sfugge al sindacato di legittimità» (cfr. Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 12501, Rv. 262908-01; Cass. pen., sez. IV, 13 settembre 2017, n. 47262, Prina, Rv. 271041 – 01, di recente negli stessi termini Cass. pen., sez. III, 28 giugno 2024, n. 41229, Falsetta, non massimata).
Nel caso di specie i giudici di appello, senza fratture logiche nel ragionamento giustificativo della decisione, hanno correttamente ritenuto utilizzabili le dichiarazioni con cui il brigadiere dei Carabinieri ha riferito «di conoscere perfettamente la voce dell'odierno imputato poiché, per ragioni di servizio, si era trovato in più occasioni a parlare con il medesimo». Tale affermazione, in nessun modo censurabile sotto il profilo della completezza e della razionalità, è fondata su apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
La sentenza, peraltro, ribadisce, in relazione all'eccepita violazione dell'art. 216 c.p.p. e alla conseguente inutilizzabilità dell'intercettazione, che l'identificazione effettuata in sede dibattimentale non obbedisce alle formalità previste per la ricognizione in senso proprio, di cui agli artt. 213 e seguenti c.p.p., siccome riferibile esclusivamente al contenuto di identificazioni orali del testimone, per cui vige la disciplina degli artt. 498 e seguenti c.p.p., sì che da esse come da ogni elemento indiziario o di prova il giudice può trarre il proprio libero convincimento (Cass. pen., sez. V, 13 maggio 2014, n. 37497, Romano, Rv. 260593 – 01; Cass. pen., sez. V, 10 luglio 2020, n. 23090, Signorelli, Rv. 279437–01; Cass. pen., sez. II, 31 marzo 2022, n. 23970, Mannolo, Rv. 283392 – 01, da ultimo Cass. pen., sez. II, 25 settembre 2024, n. 41960, Bello, non massimata).
La doglianza difensiva va nel senso contrario a un orientamento di legittimità mai contrastato e che viene costantemente affermato da più di un trentennio, visto che il primo arresto giurisprudenziale in tal senso risale ai primi anni Novanta (Cass. pen., sez. I, 11 maggio 1990, n. 6922, Cannarozzo, Rv. 190569- 01).
È vero che il citato orientamento di legittimità è consolidato da oltre un trentennio, ma questo non significa che sia corretto e, anzi, vi è da dubitare dell'assunto secondo cui l'identificazione della voce effettuata in sede dibattimentale non dovrebbe rispettare le formalità previste per la ricognizione in senso proprio; si tratta infatti, pur sempre di una ricognizione, per la quale l'art. 213 c.p.p. detta precise modalità di esecuzione (previa descrizione della voce, indicando tutti i particolari che ricorda, se sia stato già chiamato a riconoscere quella voce e se vi siano altre circostanze che possano influire sull'attendibilità del riconoscimento), tutte prescritte per garantire l'attendibilità del riconoscimento. E il fatto che detto riconoscimento avvenga in dibattimento non muta la natura dell'atto perché non può trasformare una ricognizione in mero esame testimoniale.
Ma quale disposizione esige, a pena di inammissibilità, la “prova di resistenza”?
La Corte valuta il secondo motivo, oltre che manifestamente infondato, anche generico, «non avendo il ricorrente prospettato la possibile, ed in ipotesi, decisiva influenza della predetta conversazione sulla complessiva motivazione posta a fondamento della affermazione di responsabilità».
In questo modo la sentenza dà continuità al principio fissato da questa Corte per il quale, quando si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento probatorio, il ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione ai fini della cosiddetta «prova di resistenza»; gli elementi di prova acquisiti illegittimamente devono, infatti, incidere, scardinandola, sulla motivazione censurata e compromettere, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Cass. pen., sez. V, 6 ottobre 2020, n. 31823, Lucamarini Rv. 279829–01; Cass. pen., sez. II, 18 novembre 2016, n. 7986, Lagumina, Rv. 269218-01), profili neanche accennati nel ricorso in esame.
Dopo tale premessa, la Corte rileva che, nella specie, l'attribuzione della conversazione intercettata contestata convergeva con le dichiarazioni rese dalla persona offesa sulla partecipazione dell'odierno ricorrente all'attività illecita, per cui la sua eventuale eliminazione non avrebbe comunque sminuito la prova della responsabilità.
La decisione non può essere condivisa.
Infatti, la regola è la tassatività delle sanzioni processuali e non esiste alcuna disposizione di legge che esiga, e tanto meno a pena di inammissibilità per aspecificità del ricorso, la necessità che il ricorrente sviluppi nel ricorso stesso la prova di resistenza: insomma, è la teoria della prova di resistenza che non resiste ad alcune elementari obiezioni. Infatti, il principio di tassatività delle sanzioni processuali non può essere obliterato per ammettere una causa di inammissibilità dell'impugnazione non prevista dalla legge. Il motivo di ricorso deve essere specifico, ma la specificità non significa rilevanza della nullità o inutilizzabilità della prova.
Inoltre, tale prova di resistenza consiste nella valutazione delle prove residue e utilizzabili, che è un'attività valutativa di fatto, preclusa in sede di legittimità e comunque è riservata al giudice, anzi è la tipica funzione giurisdizionale.
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