Requisiti dimensionali per l’apertura della liquidazione giudiziale: sulla non equipollenza con il fallimento
21 Aprile 2025
La pronuncia rigetta il ricorso presentato da un creditore per la dichiarazione di apertura della sola liquidazione giudiziale di una società, per il mancato riscontro della sussistenza dei requisiti eccedenti quelli di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), c.c.i.i. Tesi centrale della pronuncia è che l'art. 121 c.c.i.i., sebbene possa ricordare l'art. 1, comma 2, l. fall., «non può essere inteso e interpretato allo stesso modo, a fronte del nuovo e diverso contesto in cui si inserisce», cioè il quadro normativo che traccia l'istruttoria del procedimento unitario, in particolare quando tale istruttoria concerne la domanda di apertura della liquidazione giudiziale. Le modalità di accertamento dei requisiti dimensionali previste nell'ambito del procedimento unitario, infatti, vanno guardate in coerenza alla ratio complessiva del codice della crisi: «valorizzare la pluralità degli istituti funzionali alla risoluzione della crisi e alla gestione dell'insolvenza anche con riguardo alle imprese minori» al fine di «giungere all'individuazione dell'istituto più adatto che si attagli alle caratteristiche reali dell'impresa in crisi o (per quello che qui più interessa) insolvente». In quest'ottica, il Tribunale nota come la liquidazione giudiziale sia, con riferimento alle imprese minori, alternativa ad altra procedura: la liquidazione controllata. Afferma il Tribunale che l'art. 121 c.c.i.i. «lungi dal porre a carico del debitore un onere probatorio pieno e gravoso equiparabile a quello prescritto dall'art. 1, comma 2, L.F.» deve essere «meglio inteso come volto a delimitare l'ambito di applicazione della liquidazione giudiziale» agli imprenditori «nei cui confronti emerga il fatto positivo del superamento delle soglie in esame, anche all'esito degli accertamenti officiosi che concernono direttamente anche tale profilo, potendosi al riguardo prescindere dall'eventuale insufficiente (o assente) attività probatoria svolta sul punto dal debitore» [su quest'ultimo punto, in apertura del decreto il Tribunale nota che, a fronte dalla lettura congiunta dell'art. 121 c.c.i.i. e degli artt. 42, commi 1 e 2, 367, commi 3 e 6, e 41, comma 6, c.c.i.i., che prevedono e disciplinano l'acquisizione officiosa di informazioni presso le banche dati pubbliche, l'attività probatoria della parte interessata (il debitore) si sovrappone ai poteri officiosi, i quali vanno anzi ben oltre (per ampiezza) i confini della prima]. Da tutto ciò discende che «anche laddove il creditore, pur legittimato a presentare domanda di apertura dell'alternativa procedura della liquidazione controllata, presenti domanda di apertura della sola liquidazione giudiziale, quest'ultima (come la prima in presenza di domanda) può essere dichiarata solo ove in effetti se ne riscontrino i relativi presupposti sulla base degli elementi valutativi acquisiti, dovendo, comunque e pur sempre, nel procedimento unitario individuarsi l'unica procedura liquidatoria (secondo la ratio del codice della crisi) diretta a gestire l'insolvenza dell'impresa nel caso concreto». In definitiva: «Deve, così, escludersi che dall'equivalenza terminologica indicata nell'art. 349 CCI tra fallimento e liquidazione giudiziale, stabilita ivi per regolare gli effetti a valle prodotti dall'esito dell'apertura della procedura liquidatoria o i rapporti tra questa e altre procedure diverse da quelle disciplinate dal D.L.vo n. 14/2019, possa conseguire anche un'equipollenza tra fallimento e liquidazione giudiziale quanto ai relativi presupposti di apertura, giacché appare subito chiaro come il fallimento, nel previgente quadro normativo, non trovasse applicazione, ad esempio, per le imprese minori e meramente agricole e come, a fronte di ciò, fosse privo di alternative analoghe. È in quest'ottica che deve leggersi lo stringente onere probatorio in ordine alle soglie dimensionali previsto dall'art. 1 della legge fallimentare». |