Sul risarcimento del danno cagionato dall’illegittimo esercizio del potere di revoca di un provvedimento amministrativo ampliativo

Redazione Scientifica Processo amministrativo
05 Giugno 2025

La parte che agisce in giudizio per il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo deve provare tutti gli elementi dell'illecito aquiliano, per cui la carenza di uno qualsiasi di essi comporta il rigetto dell'azione; se il provvedimento di revoca sia stato annullato per vizi formali, non sussiste l'automatica spettanza del risarcimento del danno, incombendo la prova dell'effettiva spettanza del bene della vita costituito dalla conservazione del provvedimento ampliativo.

Un'azienda sanitaria locale (ASL) revocava una precedente delibera di approvazione di una convenzione con un laboratorio per l'effettuazione degli esami di medicina nucleare, senza la comunicazione, ex art. 7 della L. n. 241/1990, dell'avvio del procedimento amministrativo al laboratorio medico. Con ricorso respinto dal TAR Lazio, il Laboratorio ha appellato la sentenza di primo grado che è stata riformata in appello accogliendo unicamente del motivo di ricorso relativo alla violazione dell'art. 7 della legge n. 241/1990. La ASL, dopo l'annullamento per vizi di forma del provvedimento di revoca, non ha mai riesercitato il potere e la ricorrente non si è mai attivata per ottenere l'esecuzione della sentenza. Con il ricorso dinanzi al TAR Lazio il laboratorio ha chiesto il risarcimento per i danni subiti a causa della revoca: per il danno emergente, il lucro cessante e per il danno da perdita di chance, evidenziando di essere l'unico centro ad avere i requisiti richiesti per le prestazioni specialistiche sanitarie di medicina nucleare. La ASL ha eccepito la decadenza dal diritto al risarcimento del danno, essendo decorso il termine di 120 giorni ex art. 30, comma 3, c.p.a. e l'insussistenza della responsabilità aquiliana (elemento soggettivo e prova dei danni subiti). Il Tar ha respinto il ricorso per mancata prova della spettanza del bene della vita, carenza di colpa, mancata prova del danno subito. Avverso tale decisione il laboratorio ha proposto appello. In via preliminare, il Collegio ha respinto l'eccezione di decadenza o prescrizione dell'azione risarcitoria in primo grado, riproposta dalla A.S.L. ex art. 101, comma 2, c.p.a., richiamando l'orientamento dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 6 del 6 luglio 2015, per  cui, ove la fonte di responsabilità aquiliana della P.A. si sia perfezionata prima dell'entrata in vigore del nuovo c.p.a., non si applica l'art. 30, comma 3, ma la disciplina previgente; quindi all'azione risarcitoria da illegittimo esercizio della funzione amministrativa proposta in via autonoma dopo l'annullamento degli atti amministrativi, si applica il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2947, comma 1, c.c., decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della decisione di annullamento del giudice amministrativo Nel caso di specie il fatto generatore del danno è costituito dalla delibera annullata con la sentenza  del Consiglio di Stato rispetto al cui passaggio in giudicato, la proposizione dell'azione di è tempestiva rispetto al termine quinquennale di prescrizione. Il Collegio ha respinto anche l'eccezione dell'Amministrazione, laddove assume che vi sarebbe stata una mutatio libelli rispetto al ricorso di primo grado, avendo l'originaria ricorrente proposto in tale sede un'azione di responsabilità da inadempimento e invece in appello un'azione di responsabilità aquiliana in quanto, in primo grado la richiesta risarcitoria era stata articolata, in via alternativa o subordinata, come di responsabilità contrattuale e come proposta ex articolo 2043 c.c.

Quanto al merito il Collegio ha osservato che la parte che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno derivante da lesione di interesse legittimo deve provare tutti gli elementi dell'illecito aquiliano, con la conseguenza che la carenza di uno qualsiasi di essi comporta il rigetto dell'azione. Nel caso di specie, quindi, ha valenza assorbente il rigetto del primo motivo di appello, con il quale l'appellante ha contestato il capo di sentenza con cui il TAR ha respinto il risarcimento per il difetto di prova della spettanza del bene della vita (mantenimento in essere della convenzione revocata), che, per giurisprudenza ormai consolidata, costituisce condizione imprescindibile per il riconoscimento della responsabilità risarcitoria, non essendo a sufficiente la mera illegittimità del provvedimento amministrativo.

Al riguardo, il Collegio ha osservato che l'appellante ha dedotto di essere già in possesso del “bene della vita”, atteso che la convenzione stipulata e rinnovata avrebbe continuato a regolare i suoi rapporti con la ASL., per cui la revoca di tale convenzione avrebbe comportato il fatto costitutivo dell'illecito e dell'ingiustizia del danno.

Il Collegio ha respinto tale prospettazione in quanto sembra implicitamente voler affermare la presenza di lesione di un interesse legittimo oppositivo, laddove per costante giurisprudenza la spettanza del bene della vita viene effettivamente considerata in re ipsa, essendo lo stesso già nella sfera giuridica del privato e la colpa dell'Amministrazione viene presunta, incombendo sulla stessa l'onere di provare la sussistenza di elementi che escludono l'elemento soggettivo dell'illecito. Mentre nel caso dell'interesse pretensivo, chiunque pretenda un risarcimento è tenuto a dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico.

Ad avviso del Collegio, nel caso di specie, è improprio evocare la categoria dell'interesse oppositivo e la giurisprudenza richiamata dall'appellante, che  è sempre riferita a fattispecie in cui il “bene della vita” è già esistente nella sfera giuridica del privato in virtù di una diretta previsione di legge, ovvero di un diritto di cui egli è titolare, trattandosi di un diritto acquisito in virtù di un precedente provvedimento ampliativo per cui il destinatario era titolare di un interesse pretensivo; tale natura si mantiene anche nella fase successiva del rapporto amministrativo e in quella dell'eventuale rimozione del provvedimento, non essendo predicabile la trasformazione dell'interesse da pretensivo a oppositivo.

Quindi, il Collegio sulla base della giurisprudenza richiamata ha ritenuto che laddove la revoca sia stata annullata per vizi formali (con remissione  alla p.a. di nuova e ulteriore determinazione) non può sostenersi l'automatica spettanza del risarcimento, affermando di essere già titolare del bene della vita, illegittimamente leso con l'atto di revoca, ma incombe sull'interessato la prova dell'effettiva spettanza del bene della vita costituito dalla conservazione del provvedimento ampliativo (cfr. Cass. civ., sez. I, 7 aprile 2006, n. 8244; Cons. Stato, sez. III, 3 giugno 2022, n. 4536).

Di conseguenza, il Collegio ha ritenuto che nel caso di specie l'annullamento della revoca, disposto con la sentenza del Consiglio di Stato, è stato causato da un vizio formale, e che, nonostante non risulti che la A.S.L. si sia attivata riproponendo il provvedimento di revoca nel rispetto delle garanzie partecipative della società interessata, l'appellante in sede di azione risarcitoria non ha dimostrato la sicura spettanza del “bene della vita” costituito dal mantenimento in essere della convenzione.

Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello

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