Istanza di rateizzazione del debito tributario e bancarotta impropria da operazioni dolose dell’amministratore

20 Giugno 2025

La Corte di Cassazione si pronuncia nuovamente in punto di bancarotta fraudolenta impropria da operazioni dolose, annullando con rinvio la sentenza di assoluzione emessa dalla corte territoriale nei confronti dell’amministratore unico di una società di capitali che aveva omesso sistematicamente il versamento delle imposte, ritenendo sussistente il reato contestato nonostante la richiesta di rateizzazione del debito tributario avvenuta prima del fallimento.

Massima

In tema di bancarotta fraudolenta impropria, la presentazione da parte dell'amministratore di una società a responsabilità limitata, poi fallita, della richiesta di dilazione e rateizzazione del debito tributario e il successivo pagamento di alcune rate non vale ad escludere il reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 2 l. fall. in caso di sistematiche e protratte violazioni delle obbligazioni fiscali, rappresentando il ricorso allo strumento una forma di elusione fiscale artatamente preordinata ad aumentare l'esposizione debitoria e a ritardare la declaratoria di fallimento.

Il caso

All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale aveva condannato l'imputato, amministratore unico di una società a responsabilità limitata in liquidazione, dal reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 2) l. fall. in relazione ad un'ipotesi di c.d. fallimento fiscale per avere cagionato il fallimento della società da questi amministrata per effetto di operazioni dolose consistite in particolare nel sistematico, protratto, mancato versamento delle imposte dirette e indirette per un importo che costituiva pressoché la totalità del passivo fallimentare.

Riformando la sentenza di primo grado, la corte d'appello aveva assolto l'imputato, sostenendo che la richiesta presentata a Equitalia dall'amministratore unico di dilazione e rateizzazione del debito erariale - strumento lecito e previsto dall'ordinamento per far fronte alla crisi di liquidità registrata dalla società - e il successivo assolvimento di alcune rate di pagamento consentisse di escludere il dolo richiesto ai fini dell'integrazione della fattispecie in oggetto.

Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello proponeva ricorso per cassazione per violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza dei Giudici di secondo grado, lamentando come l'imputato avesse in realtà previsto e accettato l'eventualità del dissesto, presupposto della dichiarazione di fallimento, proprio quale conseguenza dell'assunzione di debiti di natura fiscale.

In accoglimento del ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, la Corte di Cassazione ha dunque annullato la sentenza impugnata rinviando ad altra sezione della corte di secondo grado per un nuovo giudizio.

Le questioni giuridiche

La sentenza in esame tratta anzitutto l'elemento oggettivo della fattispecie di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. e, in specie, risponde alla domanda se il sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e contributive da parte degli amministratori di società poi fallite possa rientrare nella nozione di “operazione dolosa” richiesta ai fini della configurazione del reato in esame.

In secondo luogo, la Corte affronta il tema del grado di rappresentazione e volizione necessari per ritenere sussistente il dolo del reato in esame in capo all'amministratore ed in particolare se la richiesta di rateizzazione del debito tributario prima del fallimento dell'ente amministrato possa valere ad escludere l'elemento soggettivo della fattispecie.

Le soluzioni giuridiche

Con riguardo alla prima delle questioni giuridiche affrontate, la Corte di Cassazione si pone del tutto in linea con l'indirizzo da tempo dominante in giurisprudenza secondo cui rientrano nella nozione di operazioni dolose le condotte degli amministratori di abuso o violazione gli obblighi inerenti, inter alia, alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale ovvero ogni altro atto che possa nuocere allo stato economico-finanziario della società tale da causarne il dissesto (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, 5 aprile 2019, n. 30735; Cass. pen., sez. V, 20 agosto 2015, n. 39192; Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 1997, n. 2413).

In conformità a tale indirizzo la Corte di Cassazione ha infatti affermato che rileva quale operazione dolosa ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2), l. fall. ogni comportamento, anche di natura omissiva, posto in essere dagli amministratori in violazione degli obblighi di fedeltà imposti a tali soggetti dalla legge, che sia «intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa» e che determini un «depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa», rientrando pertanto in tale definizione anche la violazione deliberata, sistematica e prolungata dei doveri degli amministratori concernenti il versamento degli obblighi contributivi e previdenziali.

Per quanto concerne il secondo tema in punto di elemento soggettivo, la Corte ha affermato come il reato sia integrato dal dolo generico, anche nella forma eventuale, dell'amministratore da intendersi come «coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa»: aderisce così all'orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità e sostenuto anche dalla dottrina maggioritaria secondo cui, ai fini della configurabilità della fattispecie in commento da un punto di vista soggettivo, non sia necessario il dolo diretto alla realizzazione del dissesto della società, ma la mera rappresentazione e volizione delle operazioni commesse in violazione degli obblighi di legge e la previsione che dalle stesse possa derivare con alto grado di probabilità logica il dissesto della società o il suo aggravamento, con conseguente accettazione del rischio di verificazione di tale evento (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. V, 9 gennaio 2024, n. 11096).

All'amministratore viene in altre parole rimproverato di avere posto in essere condotte pregiudizievoli per gli interessi creditori e accettato dunque il rischio che le stesse possano cagionare il fallimento dell'ente, che costituisce, in ultima istanza, l'effetto, ancorché non voluto, delle operazioni dolose.

La Corte ha poi censurato la sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di secondo grado non hanno considerato che la protratta inosservanza delle obbligazioni fiscali e previdenziali aveva determinato un grave stato di insolvenza tale per cui l'imputatosi sarebbe dovuto rappresentare che la domanda di rateizzazione dei debiti tributari non avrebbe ragionevolmente potuto assumere il valore di un'iniziativa concretamente idonea a sanare tale situazione. La Corte ha così confermato la ricostruzione del Tribunale di primo grado che aveva ravvisato il dolo dell'amministratore, argomentando come la presentazione dell'istanza di rateizzazione dall'amministratore imputato, a fronte dell'ingente ammontare del debito tributario già maturato, si riduceva ad una forma di “elusione fiscale”, dal momento che il ricorso allo strumento (pur lecito) dell'istanza era in realtà preordinato al perseguimento di altre diverse (e illecite) finalità, ovvero ad aumentare l'esposizione debitoria e a ritardare la declaratoria di fallimento.

In altre parole, la consapevolezza dell'imputato/amministratore, desunta dall'insostenibilità del debito tributario e dall'evidente impossibilità di ripianarlo anche mediante il ricorso all'istituto giuridico della rateizzazione, consente, da un lato, di qualificare come pretestuosa la richiesta in oggetto e, dall'altro, di affermare che costui abbia accettato il rischio di verificarsi del dissesto quale conseguenza della propria gestione (in senso conforme v. anche Cass. pen., sez. V, 09 gennaio 2024, n. 11096;Cass. pen., sez. V, 11 giugno 2019, n. 43562; Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 24752; Cass. pen., sez. V, 8 novembre 2016, n. 15281; Cass. pen., 15 maggio 2014, n. 29586).

Nel solco della sentenza commentata, così come dei precedenti sopra esposti, si collocano quelle pronunce mediante cui la Sezione V della Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la responsabilità di un amministratore che aveva cagionato la decozione dell'impresa a causa di un'eccessiva esposizione debitoria con le banche al fine di rappresentare all'esterno una (falsa) solidità patrimoniale, non essendo a tal fine richiesta la prova di una specifica volontà di cagionare il dissesto ma soltanto l'accettazione del rischio di causarlo per effetto delle proprie azioni (Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2006, n. 36773).

Sul punto, di recente la Corte di Cassazione ha avuto occasione di ribadire ulteriormente come, sotto il profilo soggettivo, siano proprio la sistematicità e la reiterazione nel tempo degli inadempimenti tributari e contributivi a fungere da indici di una scelta consapevole degli amministratori di ricorrere all'indebitamento quale «anomalo strumento di autofinanziamento», pur prevedendo che l'aumento del debito, unitamente a quello degli interessi e delle sanzioni irrogate, possa ragionevolmente determinare un aggravio dell'esposizione debitoria e, da ultimo, l'insolvenza (cfr., ex multis, cfr. Cass. pen., sez. V, 6 giugno 2024, n. 22978).

Diversamente, l'inadempimento occasionale delle obbligazioni fiscali e contributive, anche laddove causato da scelte gestionali rivelatesi a posteriori errate o effettuate con imprudenza, negligenza e imperizia, non rileva ai fini del reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, mancando quel carattere di sistematicità da cui è possibile desumere la prevedibilità dello scenario del dissesto come possibile e la sua conseguente accettazione (con riferimento alla condotta dell'amministratore che ha privilegiato il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti cfr. Cass. pen., sez. V, 24 maggio 2024, n. 17140;sul punto cfr. anche il commento di Ferriani, Miglio, Bancarotta fiscale e dichiarazione di fallimento, in IUS Crisi d'impresa (ius.giuffrefl.it) - ilfallimentarista, 14 febbraio 2017).

Osservazioni e conclusioni

La sentenza in commento tratta un caso di c.d. bancarotta tributaria ovvero in connessione a violazioni tributarie che, anche alla luce del mutato contesto normativo a seguito dell’entrata in vigore del CCII, consente di effettuare alcune riflessioni sugli obblighi incombenti sugli amministratori in tema di gestione dell’impresa.

Il rimprovero mosso nei confronti dell’amministratore nella vicenda in esame risiede, in ultima battuta, nel non aver attuato adeguati assetti organizzativi per monitorare la situazione economico-finanziaria della società ed evitare l’incremento dell’esposizione debitoria accumulando debiti fiscali (cfr. Dalla Sega, Adeguati assetti organizzativi amministrativi e contabili: consigli pratici per la tempestiva rilevazione della crisi, in IUS Crisi d’impresa (ius.giuffrefl.it) - ilfallimentarista, 19 marzo 2024; Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 5, 1° ottobre 2020, 829 ss.; Perusia, Santoriello, Dal modello organizzativo 231 agli adeguati assetti richiesti dal Codice della crisi e dell'insolvenza, in IUS Crisi d’impresa (ius.giuffrefl.it) - ilfallimentarista, 9 novembre 2020).

Come noto, la necessità di predisporre un’adeguata organizzazione interna è stata oggetto di crescente attenzione da parte del legislatore a livello sia nazionale che europeo anche per quanto concerne la predisposizione di adeguati controlli per prevenire il rischio fiscale (si pensi al crescente interesse per la tax compliance e alla normativa sul tax control framework).

Sul punto, basti ricordare come l’art. 2086, comma 2, c.c., inserito dall’art. 375 c.c.i.i., ha introdotto il dovere in capo agli imprenditori che operino in forma societaria o collettiva - e pertanto agli organi gestori - di istituire adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili anche in funzione della tempestiva emersione di segnali della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, con conseguente obbligo in capo agli stessi di adottare gli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e ripristinare la continuità aziendale.

La norma in commento si rinsalda con la disposizione di cui all’art. 3, comma 3, c.c.i.i. che individua i segnali di allerta che dovrebbero agevolare l’emersione dei primi indicatori della crisi d’impresa e determinare gli amministratori ad attivare le iniziative opportune per farvi fronte. Tra i segnali in commento sono annoverati, inter alia, i seguenti:

a)      l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni pari a oltre la metà dell'ammontare complessivo mensile delle retribuzioni;

b)     l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti;

c)      l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di sessanta giorni o che abbiano superato da almeno sessanta giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purché rappresentino complessivamente almeno il cinque per cento del totale delle esposizioni;

d)     l’esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’art. 25-novies, comma 1, c.c.i.i. ovvero oggetto delle segnalazioni da parte di creditori pubblici qualificati quali l’Istituto nazionale della previdenza sociale, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e l’Agenzia delle entrate da cui, a sua volta, è possibile ricavare le soglie di attenzione dei debiti nei confronti dell’Agenzia delle Entrate.

A partire dall’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi, pertanto, per evitare di incorrere in responsabilità penali nell’ipotesi di dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, gli amministratori sono vincolati ad attivarsi (quantomeno) in presenza dei segnali previsti dalla legge, i quali costituiscono un più chiaro riferimento normativo al contempo per orientare le azioni degli amministratori al fine di evitare la decozione dell’impresa e, infine, - si auspica - per guidare il giudice penale nell’ambito dell’accertamento della responsabilità degli amministratori.

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