La concessione abusiva del credito all’impresa in crisi e la sua rilevanza penale

27 Giugno 2025

Viene commentata la recente pronuncia con cui il Tribunale di Piacenza non ha ammesso al passivo di un fallimento un istituto bancario in ragione della nullità del contratto di finanziamento per violazione di norma imperativa, ovvero quella che dispone il divieto di aggravare il dissesto, di cui è chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche lo stesso finanziatore.

Massima

In sede di insinuazione al passivo del fallimento, deve ritenersi nullo ex art. 1418 c.c. il titolo negoziale di finanziamento stipulato dall'imprenditore insolvente in violazione del dovere di richiedere senza indugio il fallimento o comunque di non aggravare il dissesto dell'impresa con operazioni dilatorie, in quanto contrario a norme imperative, quali il divieto di aggravare il dissesto, e di ordine pubblico economico, integrando la relativa stipula il reato di bancarotta semplice (art. 217, comma 1, n. 4, l. fall.) di cui può essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche il finanziatore.

Il caso

La vicenda sottoposta all'attenzione del Tribunale di Piacenza origina dall'opposizione presentata ai sensi dell'art. 98 l. fall. da un istituto bancario avverso lo stato passivo dichiarato esecutivo del fallimento di una società a responsabilità limitata.

Il credito vantato dall'opponente, infatti, era stato escluso dal Giudice Delegato, il quale aveva ritenuto come il finanziamento da cui detto credito era sorto fosse stato erogato, quando non dolosamente, quantomeno con colpa grave dell'operatore qualificato che non aveva svolto alcun reale accertamento e approfondimento circa la situazione economico-patrimoniale e l'effettiva capacità di rimborso da parte della società prenditrice; alla richiesta di finanziamento, invero, era stato allegato un “bilancino provvisorio” addirittura “artefatto” e comunque diverso dal bilancio allegato alla precedente delibera di riduzione del capitale sociale e inoltre non risultava essere stata acquisita alcuna notizia circa l'effettiva esistenza ed esigibilità dei crediti, i quali costituivano la parte preponderante dell'attivo della società finanziata.

Le numerose censure mosse al provvedimento del Giudice Delegato erano ritenute infondate dal Tribunale, il quale rigettava l'opposizione sostenendo come, nel caso di specie, il contratto di finanziamento che aveva dato origine al credito vantato dall'opponente fosse affetto da nullità per contrarietà a norme imperative ai sensi dell'art. 1418, comma 1, c.c., ponendosi in diretto contrasto con la norma che sanziona penalmente l'aggravamento del dissesto a seguito di operazioni gravemente colpose.

La questione

Il tema in causa concerne dunque l'analisi dei rapporti tra il delitto di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto disciplinato dagli artt. 217, comma 1, n. 4), l. fall. e 323, comma 1, lett. d) c.c.i.i. e le erogazioni di credito che si ritengono abusive o comunque incaute.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso al vaglio si è detto come un istituto bancario si fosse insinuato al passivo del fallimento di una società a responsabilità limitata e come il relativo credito chirografario non fosse stato ammesso dal Giudice Delegato, il cui provvedimento era confermato dal Tribunale a seguito del giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore escluso ai sensi dell'art. 98 l. fall. (ora art. 206 c.c.i.i.).

Il Tribunale, in tema di finanziamenti concessi ad imprese in stato di crisi o ad essa prossime, muove dalla seguente distinzione concettuale:

  1. concessione abusiva del credito quale illecito civile commesso da parte del soggetto finanziatore;
  2. eccezione di nullità del contratto di finanziamento per contrarietà a norme imperative ex art. 1418, comma 1, c.c. per diretto contrasto con la norma penale che sanziona l'aggravamento del dissesto da operazioni gravemente colpose.

La responsabilità del soggetto finanziatore per come si delinea sub 1) appare riconducibile alla responsabilità aquiliana disciplinata dall'art. 2043 c.c., per cui graverà sul soggetto danneggiato che ritenga di agire a questo titolo nei confronti del finanziatore l'onere della prova degli elementi costitutivi dell'illecito ovvero condotta, elemento soggettivo, nesso di causa, danno evento e danno conseguenza.

La nullità sub 2) consegue invece alla violazione di norme imperative, tra cui quelle di carattere penale, determinata dalla stipulazione di un contratto; proprio tale fattispecie è stata ritenuta sussistente nel caso al vaglio dal Tribunale, il quale muove dal richiamare, condividendolo, l'orientamento della suprema Corte secondo cui deve ritenersi nullo ex art. 1418 c.c. il negozio di finanziamento stipulato dall'imprenditore insolvente in violazione del dovere di richiedere senza indugio il fallimento o comunque di non aggravare il dissesto dell'impresa con operazioni dilatorie, in quanto contrario a norme imperative, in particolare di natura penale quali il divieto di aggravare il dissesto, e di ordine pubblico economico, integrando la relativa stipula una fattispecie di reato (art. 217, comma 1, n. 4, l. fall.), di cui è chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche il finanziatore (cfr. Cass. civ., 5 agosto 2020, n. 16706, dalla cui massima ufficiale è tratta quella riportata in apertura della presente nota, in Il Fall., 2021, 503 con nota di S. Delle Monache, Buon costume e fallimento, ed in Giur. Comm., 2021, II, 528 con nota di M. Martino, Soluti retentio ex art. 2035 c.c. e finanziamento dell'impresa in crisi in danno ai creditori).

Più in particolare, continua il Tribunale, la nullità in argomento può essere dichiarata all'esito dell'accertamento in concreto dell'esistenza di una condotta sussumibile sotto la fattispecie incriminatrice invocata, dovendosene riscontrare l'elemento oggettivo, quello soggettivo nonché le modalità di concorso del soggetto finanziatore quale extraneus del reato. 

In merito ai profili oggettivi relativi alla richiesta ed erogazione del finanziamento, osserva il Tribunale come la società poi fallita già avesse ceduto il proprio ramo d'azienda operativo, per cui residuavano seri dubbi in ordine alla sua capacità di generare in futuro flussi di cassa idonei a garantirne la solvibilità, neppure comprendendosi quale fosse rimasta la sua concreta ed effettiva attività imprenditoriale, ove a tutto ciò si aggiunga che pochi mesi dopo detta cessione d'azienda il capitale sociale era stato ridotto per perdite.

Inoltre, a fronte di altri segnali di crisi puntualmente rilevati dalla curatela, emergeva pure l'assenza di un piano di risanamento o di un business plan che rendesse anche solo plausibile, secondo un valutazione ex ante, il superamento dello stato di crisi, sicché il finanziamento altro non si sarebbe rivelato che un mero strumento atto solo a posticipare l'inevitabile esito liquidatorio.

A fronte di ciò, sul piano soggettivo la condotta del finanziatore appariva caratterizzata, a giudizio del Tribunale, da colpa grave poiché non è tanto lo stato di crisi o la presenza, più in generale, di una situazione di difficoltà economico-finanziaria dell'impresa a rendere imprudente la concessione del finanziamento quanto piuttosto l'assenza di ragionevoli prospettive di ripresa, per cui si comprende come alla mancata richiesta di un piano di risanamento o di un business plan non potesse che aver fatto seguito l'impossibilità di apprezzare ragionevolmente l'esistenza di dette prospettive.

Il finanziatore d'altra parte aveva anche dato prova di ignorare le reali condizioni economiche del soggetto finanziato, verificandole soltanto in modo cartolare senza procedere ad una attenta valutazione dei dati obiettivi, già evidenziati, ricavabili agevolmente da annotazioni sul registro delle imprese ed in particolare:

  • dalle risultanze della delibera di riduzione del capitale per perdite e dell'annesso bilancio, così non avvedendosi delle palesi incongruenze contabili tra i dati in quest'ultimo contenuti e quelli del “bilancino” provvisorio fornito in sede di richiesta del finanziamento;
  • dall'operazione di cessione del ramo d'azienda e dal suo significato in quanto, pur non spettando al soggetto finanziatore una valutazione nel merito delle scelte imprenditoriali, essa aveva ad oggetto il ramo operativo dell'azienda sì da incidere senz'altro sulle capacità della cedente di ripagare il finanziamento chiesto e poi ottenuto.

Oltre a dichiarare la nullità del contratto di finanziamento, il Tribunale concludeva rigettando anche la domanda di ripetizione dell'indebito svolta in via subordinata dall'opponente e ciò faceva richiamando e condividendo l'interpretazione estensiva della “soluti retentio” di cui all'art. 2035 c.c. propria dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. la già citata Cass. civ., 5 agosto 2020, n. 16706). Secondo tale orientamento, infatti, le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l'erogazione di somme di denaro in favore di un'impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all'imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l'esposizione debitoria dell'impresa, trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto.

Osservazioni

Le questioni concernenti l'eventuale rilievo delittuoso delle operazioni di erogazione del credito ad imprese che si trovino in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della situazione di crisi appaiono di significativo interesse.

Non vi sono dubbi infatti come l'obbligo del finanziatore di astenersi dal concedere credito ad un soggetto che non appaia in grado di ripagarlo costituisca un principio generale dell'ordinamento, così come delineato in primo luogo dall'art. 5 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) nonché dall'art. 1176, secondo comma, c.c.

All'incauta concessione di credito al soggetto immeritevole, del resto, può conseguire l'effetto di procrastinare il momento della dichiarazione di liquidazione giudiziale, determinandosi, medio tempore, un aggravamento del dissesto e ciò cagionando danno non soltanto al finanziatore, il cui credito appare destinato, secondo l'id quod plerumque accidit, a rimanere insoddisfatto, ma anche ai creditori che abbiano maturato il loro credito antecedentemente, i quali avranno ancor minore possibilità di ottenere soddisfazione in sede di riparto all'esito della procedura concorsuale.

D'altra parte è noto come la tardiva emersione della situazione di crisi d'impresa, definita positivamente dall'art. 2 c.c.i.i. quale «stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate», risulti criminogena.

È altrettanto noto infatti come, nel tentativo di proseguire comunque l'attività imprenditoriale nonostante lo stato di crisi, l'imprenditore possa risolversi a compiere una pluralità di condotte le quali, almeno nel breve periodo, consentano tale prosecuzione, salvo poi rivelarsi deleterie. Non è certo infrequente, in proposito, riscontrare operazioni di ricorso al credito, anche rovinoso, oppure tentativi di sopravvalutazione del patrimonio dell'impresa, “gonfiando” il magazzino, inserendo in contabilità false poste attive od ancora omettendone la dovuta svalutazione ovvero ancora, nell'ambito di una precisa continuità aziendale, beneficando un diverso soggetto giuridico avente causa ad esclusivo vantaggio di questi ed evidentemente in danno del dante causa, ormai irrimediabilmente destinato all'insolvenza; parimenti frequenti appaiono poi le condotte costituite dal finanziarsi posticipando la soddisfazione dei creditori meno pressanti, quali quelli istituzionali, ed invece dando preferenza a quelli, quali i dipendenti e i fornitori, le cui prestazioni sono indispensabili per non compromettere la citata prosecuzione dell'attività imprenditoriale.

Anche nel caso al vaglio, del resto, si verificavano proprio alcune condotte riconducibili alle tipologie appena riassunte ed invero, come rilevato dal curatore fallimentare, il finanziamento ottenuto era utilizzato principalmente per il pagamento di creditori chirografari, senza rispettare l'ordine delle legittime cause di prelazione, e non destinando alcunché al pagamento di imposte e contributi scaduti.

Anche a fronte di quanto fin qui osservato, non residuano dubbi che il finanziamento abusivo risulti condotta capace in sé, ed indipendentemente dalle possibili conseguenze ulteriormente negative, di assumere rilievo delittuoso, generalmente potendo integrare la tipicità obiettiva di almeno due fattispecie delittuose, ed in particolare:

1) La bancarotta semplice per aggravamento del dissesto disciplinata dall'art. 323, comma 1, lett. d), c.c.i.i. (già art. 217, comma 1, n. 4, l. fall.), il cui fatto tipico è costituito dal deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata o tardiva richiesta di liquidazione giudiziale, sempre conseguente a colpa grave, della complessiva situazione economico-finanziaria dell'impresa poi effettivamente dichiarata in liquidazione giudiziale;

2) Il ricorso abusivo al credito disciplinato dall'art. 325 c.c.i.i. (già art. 218 l. fall.), il cui fatto tipico è costituito dal ricorrere o continuare a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli 322 e 323 c.c.i.i., dissimulando il dissesto o lo stato d'insolvenza.

Invero la rilevanza penale delle condotte di finanziamento abusivo è spesso affermata, tendenzialmente nei termini di cui al punto 1), proprio dalla giurisprudenza civile, come nel caso del decreto qui in commento, ed in effetti il tema sfocia nell'analisi della categoria dei c.d. reati-contratto, i quali si sostanziano nella stipulazione, ex se, del negozio.

Qualora la concessione del finanziamento integri uno dei reati indicati ai punti 1) e 2), salvo se altri, si determina una perfetta sovrapposizione tra quello ed il negozio giuridico da cui origina il credito, sicché appare esatto ritenere come detta concessione costituisca, per l'appunto, reato-contratto.

Quanto alla patologia del negozio, la contrarietà alla norma penale della condotta tenuta dalle parti contrattuali dà luogo ad un atto avente una finalità economico-sociale volta a realizzare quanto vietato dalla legge penale, per cui esso è ritenuto nullo per contrarietà a norma imperativa ai sensi dell'art. 1418, comma 1, c.c. (“nullità c.d. “virtuale”).

Tale conclusione, per quanto astrattamente condivisibile, sottende tuttavia alcune difficoltà interpretative. Essa trova fondamento sul presupposto del concorso del finanziatore nel reato commesso dal finanziato ed in effetti, nel descrivere i requisiti per giungere alla dichiarazione di nullità del negozio, poi verificati positivamente nel caso al vaglio, il Tribunale di Piacenza ricorda anche la necessità di procedere all'accertamento delle modalità del concorso del soggetto finanziatore quale extraneus del reato.

Già non appare del tutto agevole verificare se la decisione di chiedere il finanziamento sia stata assunta in ossequio alle cautele necessarie, anche in ragione di valutazioni prognostiche, affinché possa escludersi ogni profilo di colpa nell'operazione ed in effetti è evidente il rischio che la valutazione giurisdizionale investa le scelte dell'impresa (c.d. business judgement rule), con la conseguenza che oggetto del giudizio diviene non tanto il “cosa” decidere, quanto il “come” decidere.

Si è detto tuttavia come la dichiarazione di nullità del negozio di finanziamento presupponga il suo contrasto con la norma penale e di regola la fattispecie delittuosa che viene in evidenza è quella della bancarotta semplice citata sub 1), anche perché l'elemento soggettivo del reato di ricorso abusivo al credito è costituito dal (solo) dolo generico e difficilmente tale profilo soggettivo si riscontra nell'azione dell'istituto finanziatore. L'elemento soggettivo del reato di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto è costituito invece dalla colpa grave e qualora il relativo giudizio sia riferito alla decisione di concedere il finanziamento si comprende come debba muoversi dall'osservare che gli elementi di conoscenza della situazione economico-finanziaria dell'istante a disposizione dell'istituto di credito, comunque trattandosi di soggetto terzo, difficilmente saranno equivalenti a quelli propri dell'imprenditore che chiede il finanziamento a proprio beneficio.

Inoltre, se è vero che il finanziatore ha il compito di valutare il merito creditizio dell'impresa richiedente, è altrettanto vero come il superamento della crisi d'impresa, evidentemente anche tramite il ricorso al credito, costituica obiettivo primario e riconosciuto del più recente legislatore.

In proposito non si nasconde il rischio che il finanziatore sia restio ad impegnarsi in difficili salvataggi dell'impresa in ragione, qualora l'operazione non abbia successo, del pericolo di subire un'incrimazione e in argomento, proprio al fine di scongiurare detto rischio, è intevenuto il legislatore introducendo alcune norme di coordinamento (indiretto come nel primo caso di seguito indicato e diretto come nel secondo) tra le disposizioni sanzionatorie e quelle prettamente concorsuali.

In primo luogo l'art. 166, comma 3, c.c.i.i.(nel solco del precedente art. 67, comma 3, l. fall.) dispone l'esclusione dall'oggetto dell'azione revocatoria liquidatoria - ed ordinaria in riferimento agli atti di cui alle lettere d), e) e g) - di alcuni negozi, tra cui preme ricordare i seguenti:

d) gli atti, i pagamenti effettuati e le garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano attestato di cui all'art. 56 c.c.i.i. o di cui all'art. 284 c.c.i.i. e in esso indicati;

e) gli atti, i pagamenti e le garanzie su beni del debitore posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, del piano di ristrutturazione di cui all'art. 64-bis c.c.i.i. omologato e dell'accordo di ristrutturazione omologato e in essi indicati, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dal debitore dopo il deposito della domanda di accesso al concordato preventivo o all'accordo di ristrutturazione;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti dal debitore alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all'accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza e alle procedure di insolvenza previsti dal presente codice.

L'irrevocabilità in argomento determina dunque il venir meno del disvalore giuridico delle operazioni sicché, ragionevolmente, deve escludersi la loro capacità di integrare la tipicità del reato di bancarotta preferenziale disciplinato dall'art. 322, comma 3, c.c.i.i.

In secondo luogo, e per ciò che qui maggiormente interessa, l'art. 324 c.c.i.i. (nel solco del precedente art. 217-bis l. fall., sempre rubricato «Esenzione dai reati di bancarotta»), dispone che le disposizioni di cui agli artt. 322, comma 3, e 323 c.c.i.i.non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti omologati o degli accordi in esecuzione del piano attestato ovvero del concordato minore omologato ai sensi dell'art. 80 c.c.i.i. nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma degli artt. 99,100 e 101 c.c.i.i.

Ancorché l'art. 324 c.c.i.i. richiami l'interoart. 323 c.c.i.i. è evidente che tra le numerose fattispecie delittuose qui disciplinate quelle che presentano carattere di omogeneità rispetto alla precisa finalità di eccettuare la rilevanza penale delle operazioni descritte dal medesimo art. 324 c.c.i.i. si restringono a quelle di cui all'art. 323, comma 1, lett. c) e d), e proprio di quest'ultima infatti si discute nel provvedimento qui annotato.

Qualora le operazioni di finanziamento avvengano al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi d'impresa restano invece le menzionate difficoltà valutative, dovendo accertarsi se il finanziatore abbia assunto un rischio non irragionevole operando nell'intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un'impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi (cfr. Cass. civ., 30 giugno 2021 n.18610, in I Contratti, 2022, 171 con nota di L. Castelli e S. Tina, Concessione abusiva del credito e legittimazione attiva del curatore: il punto della Suprema Corte).

Quando poi dal profilo prettamente risarcitorio derivante dall'illecito del soggetto finanziatore - peraltro di stretta attualità comprendendosi come spesso gli organi della procedura concorsuale si determinino ad agire nei confronti dei finanziatori in ragione della loro solvibilità - il giudizio si estenda all'eventuale nullità del negozio di finanziamento per contrasto con le norme imperative costituite dai ridetti artt. 217, comma 1, n. 4) l. fall. e 323, comma 1, lett. d) c.c.i.i., l'interprete dovrà accertare la sussistenza del reato ed il concorso in questo da parte del finanziatore, altrimenti difettando le condizioni perché operi detta nullità e dunque perché essa sia dichiarata (per un caso concreto cfr. Cass. civ., 8 ottobre 2024, n. 26248, la quale, nel richiamare in materia di erogazione del credito i principi di sana e prudente gestione sottesi ai citati artt. 5 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 e 1176, comma 2, c.c., cassava con rinvio il provvedimento di merito che aveva ritenuto che la violazione di tali principi integrasse, di per sé, un'attività di concorso del finanziatore nel reato di bancarotta semplice ex art. 217, comma 1, n. 4, l. fall., con conseguente nullità del contratto di mutuo, osservandosi come il provvedimento impugnato non avesse ben tratteggiato l'elemento oggettivo né quello soggettivo del reato ipotizzato, né tantomeno le modalità del concorso della banca quale soggetto extraneus).

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