È risarcibile il danno da usura psico-fisica anche per pochi mesi di superlavoro

30 Giugno 2025

La sentenza n. 4811/2025 del Tribunale di Napoli riconosce per la prima volta la risarcibilità del danno da usura psico-fisica anche in relazione a un rapporto di lavoro di breve durata (sette mesi), qualificando come illecito contrattuale, ex art. 2087 c.c., l’impiego sistematico del lavoratore oltre i limiti legali di orario, senza riposo settimanale né preavviso nei turni. Il danno è ritenuto in re ipsa, quale lesione del diritto costituzionale al riposo e alla salute, indipendentemente dalla volontarietà della prestazione o dalla prova di patologia. La pronuncia si inserisce in una più ampia evoluzione giurisprudenziale volta a valorizzare l’ambiente lavorativo stressogeno quale inadempimento fonte di responsabilità contrattuale.

Il caso

La pronuncia del Tribunale di Napoli riveste particolare interesse in quanto affronta, per la prima volta, il tema della risarcibilità del danno da usura psico-fisica anche in relazione a un rapporto di lavoro di durata estremamente contenuta. Nella fattispecie, infatti, il ricorso è stato proposto da una guardia particolare giurata, dipendente a tempo determinato di un istituto di vigilanza, che ha prestato servizio per circa sette mesi, prima di rassegnare le proprie dimissioni anticipatamente rispetto alla scadenza contrattuale.

Il lavoratore chiedeva il risarcimento dei danni derivanti dall'essere stato impiegato in condizioni di lavoro fortemente gravose: turni giornalieri di 10-12 ore con prestazioni straordinarie costantemente eccedenti i limiti di legge e di contratto collettivo, assenza sistematica del riposo settimanale, nonché totale imprevedibilità nella turnazione, comunicata quotidianamente e talvolta con pochissime ore di anticipo, anche tramite messaggi WhatsApp.

Quella prospettata dal dipendente è quindi riconducibile ad una situazione di iperlavoro, tale da rendere l'ambiente lavorativo nocivo e stressogeno per via della concomitante presenza di una pluralità di disfunzioni organizzative inerenti al profilo quantitativo della prestazione di lavoro.  

La società convenuta, oltre a contestare in radice le doglianze del dipendente, formulava due domande riconvenzionali: una per i danni derivanti da un sinistro stradale occorso durante l'orario di lavoro con l'autovettura aziendale; l'altra per ottenere il risarcimento derivante dal recesso anticipato rispetto al termine del contratto.

Il Tribunale svolgeva una compiuta istruttoria, basandosi su due principali fonti probatorie: da un lato, la documentazione prodotta dalla stessa società, tra cui le buste paga che attestavano le ore di lavoro straordinario effettivamente svolte e retribuite; dall'altro, le testimonianze rese da colleghi e superiori del ricorrente.

In particolare, l'istruttoria confermava che:

  • Il lavoratore era un "trasfertista", inviato da Napoli a Milano per sopperire alle carenze di organico, spesso impiegato come “jolly” per coprire assenze improvvise.
  • L'orario di lavoro quotidiano osservato dal dipendente andava ben oltre l'ordinario, con turni anche di 12, 13 o 14 ore, senza che vi fosse il rispetto delle 11 ore di riposo tra un turno e l'altro, come invece imposto dall'art. 70 del CCNL;
  • Il riposo settimanale risultava sistematicamente negato; il lavoratore, come confermato dai testi, non aveva quasi mai fruito di giornate di riposo regolari;
  • La turnazione era affidata a comunicazioni “last minute”, anche giornaliere o addirittura istantanee.

Emblematica, in particolare, era la dichiarazione di un collega del ricorrente, il quale affermava che i trasfertisti erano "spremuti come arance", sintetizzando efficacemente la condizione di sfruttamento sistemico cui erano sottoposti.

Un altro aspetto probatorio di rilievo nella sentenza in commento risiede nel fatto che la dimostrazione dell'iperlavoro a cui è stato esposto il ricorrente emerge non solo dagli atti istruttori, ma anche dalle stesse domande riconvenzionali avanzate dalla società. Tali domande, definite dal giudice “paradossali”, hanno finito per confermare indirettamente le allegazioni del lavoratore, dimostrando che, nel giorno dell'infortunio (avvenuto alle 7:15), egli non aveva beneficiato del riposo minimo di 11 ore previsto per legge, avendo terminato il turno precedente a mezzanotte. Sulla base delle regole di comune esperienza (art. 115 c.p.c.), il giudice ha quindi desunto che la stanchezza fisica accumulata avesse contribuito all'incidente, configurando una eziologia quantomeno concausale.

La decisione evidenzia inoltre il carattere oppressivo del contesto aziendale, tale da indurre il dipendente a non denunciare l'infortunio e a ridurre volontariamente l'assenza rispetto alla prognosi medica.  

Analogamente, anche la domanda riconvenzionale per recesso anticipato del lavoratore è stata ritenuta indicativa del clima stressogeno: essa è apparsa strumentale rispetto alle gravi violazioni subite dal dipendente ed è stata comunque rigettata per totale carenza di prova del danno effettivo, in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza di merito (App. Venezia, sez. lav., 10 marzo 2023, n. 75).

Tale complessiva ricostruzione dei fatti, dunque, ha consentito al giudice di fondare il riconoscimento della responsabilità datoriale per usura psico-fisica, configurando un vero e proprio supersfruttamento, lesivo della dignità e della salute del lavoratore, pur a fronte di un rapporto di lavoro di durata contenuta.

I principi di diritto: risarcibilità in re ipsa del danno da usura psico-fisica e volontarietà della prestazione lavorativa

La sentenza del Tribunale di Napoli si configura come un importante arresto giurisprudenziale in tema di danno da usura psico-fisica, in quanto individua con chiarezza i presupposti per l'accertamento della responsabilità datoriale derivante dalla negligente vigilanza sui carichi di lavoro e sulla sostenibilità dei ritmi imposti al personale. Il provvedimento, in tal senso, si pone come una vera e propria guida interpretativa — quasi un decalogo — per riconoscere la nocività dell'ambiente di lavoro derivante da un'organizzazione disfunzionale, soprattutto con riferimento al profilo quantitativo della prestazione di lavoro (durata eccedente i limiti massimi di orario straordinario, assenza di riposi settimanali, turnazioni senza preavviso).

La pronuncia opera dapprima un importante chiarimento di ordine terminologico, specificando che il danno da usura psico-fisica si distingue nettamente dal danno biologico (cfr. Cass., 14 luglio 2015, n. 14710), in quanto mentre per quest'ultimo è necessaria la prova di una specifica patologia medicalmente accertabile, “il danno da usura si configura come una conseguenza del normale superamento significativo e continuativo dei limiti orari, in quanto lesione del diritto costituzionalmente garantito al riposo e alla salute”.

Si tratta, dunque, di un danno in re ipsa (cfr., ex multis,Cass. 21 luglio 2023, n. 21934; Cass. 15 luglio 2019, n. 18884; Cass. 4 agosto 2015, n. 16665; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24180), essendo sufficiente ai fini del risarcimento che “il lavoratore dimostri l'esistenza dei turni eccedenti, la loro durata e l'entità dello sforamento rispetto ai limiti legali e contrattuali”.

Del resto, il danno da usura psico-fisica consiste ontologicamente nel logoramento derivante dal maggior dispendio di energie necessarie per sostenere i ritmi lavorativi che, senza adeguati e cadenzati riposi, diventano oggettivamente usuranti anche per una persona esente da qualsivoglia patologia (cfr. Cass. 30 maggio 2023, n. 15223).   

Il giudice napoletano manifesta, inoltre, una grande attenzione all'effettività della tutela, nella parte in cui afferma con forza che la volontarietà da parte del lavoratore nella prestazione dello straordinario non può configurare un concorso di colpa né escludere il diritto al risarcimento del danno, in quanto l'obbligo di sicurezza previsto dall'art. 2087 c.c. ha fondamento nell'indisponibile diritto costituzionale al riposo e alla salute; diritti la cui tutela “non può nemmeno essere rimessa alla volontà del singolo lavoratore, spesso condizionata da esigenze economiche o da pressioni ambientali” (cfr. conf. Cass., 10 maggio 2019, n. 12538, cit.; Cass., 28 novembre 2022, n. 34968; contra, sebbene ormai minoritaria nell'affermare il principio volenti non fit iniuria, Cass. 2 settembre 2015, n. 17438).

In tale contesto, e anche al fine di evitare l'emersione di una responsabilità di natura “oggettiva”, il datore di lavoro potrà comunque dimostrare, per evitare di incorrere nella violazione dell'art. 2087 c.c., i) l'esistenza di legittime deroghe, ii) la fruizione di riposi compensativi o iii) l'adozione di concrete misure organizzative per prevenire l'usura.

I principi di diritto: criteri di liquidazione equitativa del danno da usura psico-fisica

Anticipando le conclusioni, si può osservare come l'imponente apparato probatorio e l'accurato accertamento giudiziale abbiano tuttavia condotto, sul piano risarcitorio, a un esito decisamente modesto: il danno da usura psico-fisica è stato infatti liquidato nella esigua somma di euro 1.549,79.

Detta quantificazione è stata fortemente influenzata dalla breve durata del rapporto di lavoro, elemento che -pur non incidendo sull'an della responsabilità- ha assunto rilievo determinante nella fase di liquidazione del quantum. In altri termini, ciò che non ha costituito ostacolo all'accertamento della condotta illecita datoriale è stato invece valorizzato — in senso restrittivo — nella valutazione del danno non patrimoniale.

Nel procedere alla liquidazione, il Tribunale di Napoli ha richiamato un proprio orientamento ormai consolidato (v. Trib. Napoli, 14 novembre 2024, n. 7748), adottando un criterio di tipo equitativo, basato sul valore del danno pari al 30% del valore orario dello straordinario, moltiplicandolo per il numero di ore eccedenti la soglia massima mensile di 206,4 ore.

Si tratta, a parere di chi scrive, di un criterio che, se da un lato appare coerente con l'esigenza di calibrare l'entità del ristoro in proporzione alla durata contenuta del rapporto, dall'altro risulta inadeguato a cogliere la reale intensità della lesione subita. La prestazione lavorativa richiesta al ricorrente si è infatti connotata per una gravosità eccezionale, derivante non solo dal superamento sistematico dei limiti di orario straordinario, ma anche — e soprattutto — dalla compressione di diritti costituzionalmente garantiti: il diritto al riposo settimanale (in un contesto di lavoro continuativo “sette giorni su sette”) e il diritto alla vita privata, fortemente compromesso dalla mancanza di preavviso nei turni, che ha dato luogo di fatto ad una condizione di reperibilità permanente.

Tali profili — se adeguatamente considerati — avrebbero dovuto orientare il giudice verso una liquidazione del danno non ancorata esclusivamente al parametro retributivo, ma più aderente alla dimensione psicofisica e personale della lesione.

In tal senso, si richiama l'indirizzo avviato dalla giurisprudenza milanese (Trib. Milano, 25 giugno 2024, n. 3191), che ha valorizzato, quale parametro-base per la quantificazione del danno da usura psico-fisica, il valore economico dell'inabilità temporanea secondo le Tabelle milanesi, con riferimento specifico alla voce della sofferenza soggettiva.

Secondo tale impostazione, la gravità della violazione riscontrata — ove essa incida in modo significativo e durevole sugli ambiti di vita personale, sociale e familiare del lavoratore — giustifica una valutazione del danno che non può ridursi a una mera proiezione aritmetica dello straordinario svolto, ma deve riflettere la compromissione complessiva dell'equilibrio esistenziale del soggetto leso.

Il contesto sistematico: l'ambiente di lavoro nocivo e stressogeno

La sentenza in esame si inserisce in un più ampio contesto evolutivo del diritto vivente, in cui la giurisprudenza ha progressivamente valorizzato la dimensione organizzativa dell'ambiente di lavoro quale fattore giuridicamente rilevante ai fini della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.

La figura del lavoratore sottoposto a un'organizzazione nociva e stressogena ha infatti assunto peculiare centralità nella riflessione giurisprudenziale più recente, che si è affrancata dal modello para-penalistico del mobbing per approdare a un nuovo paradigma, fondato su una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2087 c.c e, soprattutto, su una visione oggettiva delle situazioni lavorative, scrutinate oggi in una prospettiva sistemico-organizzativa.

La nozione di stress lavorativo, originariamente definita in ambito medico e psicologico, ha trovato progressivo riconoscimento normativo e giurisprudenziale, quale effetto delle disfunzioni dell'organizzazione lavorativa ed indicatore sintomatico, sul piano giuridico, della violazione degli obblighi di prevenzione, vigilanza e contrasto a carico del datore di lavoro (cfr. art. 2087 c.c. e 28, comma 1, d.lgs. 81/2008).

Più precisamente, sotto l'ampia nozione dello stress lavorativo (o stress lavoro-correlato), possiamo oggi reperire nel diritto vivente i lineamenti di una nuova categoria “polifunzionale” (cfr. Tambasco, Rosiello, Il risarcimento del danno da stress lavorativo, Milano, Lefebvre Giuffrè, 2024, p. 24), in grado di descrivere, spiegare e disciplinare, in modo unitario, una pluralità di disfunzioni nell'organizzazione dei fattori produttivi che coinvolgono sia la prestazione di lavoro sul piano quantitativo (superlavoro, usura psico-fisica) e qualitativo (demansionamento, inattività lavorativa, controlli esasperati, mancata conciliazione vita-lavoro, insalubrità del luogo di lavoro, tecnostress) sia le relazioni interpersonali (condotte persecutorie, violenze, molestie).

Ecco che, proprio partendo dalla “valvola di apertura” dell'art. 2087 c.c., la law in action ha portato quindi alla valorizzazione di una “prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, imponendo come prioritaria “l'obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro , che consente di configurare la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento -imputabile anche solo per colpa- che si ponga in nesso causale con un danno alla salute, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale”, (cfr. Cass., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639, par. 2.3.4).

Ne è derivata l'emersione della responsabilità datoriale nei casi di stress forzato, che si è sostanziata nell'“inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale , già rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (cfr. Cass., sez. lav., 7 febbraio 2023, n. 3692; conf. Cass. 30 novembre 2022, n. 35235; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428).  

In questa nuova ottica assume pertanto valore dirimente “l'ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 c.c." (cfr., ex multis,Cass. 7 giugno 2024, n. 15957; Cass. 28 dicembre 2023, n. 36208; Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.).

In definitiva, l'evoluzione giurisprudenziale ha ricondotto l'intero sistema di tutela a un nucleo normativo centrale costituito dall'art. 2087 c.c., in dialogo con l'art. 2086 c.c. (così come novellato dal d.lgs. n. 14/2019), il quale impone all'imprenditore l'adozione di assetti organizzativi idonei a garantire ambienti di lavoro sani, sicuri e rispettosi della dignità personale.

In tal senso, l'esposizione ad un ambiente stressogeno non è solo un fattore di rischio lavorativo: è la spia di un deficit organizzativo strutturale, giuridicamente rilevante e fonte di responsabilità contrattuale a tutela dell'integrità psicofisica e morale del prestatore di lavoro.

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